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Né la notte acquetò gli animi presti alla rivolta, ché parve anzi li avessero il raccoglimento e la calma silenziosa degli abituri sperduti in mezzo ai campi, confermati a tutto osare. E così fu che in quella mattina di primavera, quando tremolava ancora incerto il giorno e l’alba faceva sollevare le rosee nebbiosità dei campi sonnacchiosi, i contadini a stuolo, coi rudi arnesi del lavoro, si raggrupparono sulla piazza. Larga era e da una parte la facciata marmorea e pesante della basilica si elevava con un portico a colonne alte ed il campanile barocco e bianco erto sul cielo; di fronte, dietro ad un cancello ampio e lungo di ferro, che partiva da un muricciuolo basso, dietro le piante frondeggianti, appariva il palazzo del marchese, oscuro, uno di quei fabbricati del seicento, pesanti, senza linee architettoniche, coi balconi di ferro e rigonfi e le finestre alte e quadre.
E prima s’incominciò con un brusìo sommesso ed animato, mentre il villaggio ancora rimaneva nel sonno. Gian Pietro accorreva da una schiera all’altra, riconfortandoli che oramai era l’ultimo passo che facevano, che si trovavano giunti alla meta e che ora non si dovesse più temere d’alcuna cosa. Pure negli uomini ristava una specie di titubanza, mancava quell’unione, quell’accordo, quel sapersi sicuri della propria forza, rimanendo lì a discorrersi, mentre la folla si aumentava, sopraggiungendo le donne ed i fanciulli, quasi si maravigliassero della novità del caso che li aveva fatti riunire quella volta con un’unica idea, verso un’unica meta. Poi quel sentirsi vicini, pigiati, quel confortarsi l’un l’altro, quella parola dell’oratore, il sole che ascendeva e brillava già sul campanile, quella tiepidezza di una giornata di primavera che si annunciava serena, la memoria dei passati danni e la speranza delle future delizie li fondeva a poco a poco, li faceva comprendersi e spariva l’indecisione, movendosi a varcare l’ultima linea del concesso: onde il discorso fluiva più forte e più aspro dalle rustiche labbra e rumoreggiava confuso, sordamente, nella vastità della piazza.
Ora dalla via stretta sboccava un’altra compagnia, guidata da Carlo Anzoni; le finestre aprivano con un rumore di imposte sbattacchiate, qualche uscio si socchiudeva al loro passaggio e gli usciti domandavansi della strana frequenza. Un’agitazione aveva commosso tutto il villaggio; sulla strada lasciata libera correvano i bottegai, affannosi, pallidi, non sapendo che fare, guardandosi in viso muti e cercando il perché di quel subitaneo movimento.
«Che finalmente si fosse arrivati a quel giorno che tanto avevano temuto? Dio mio! La cosa era ben triste davvero! Ed ora come avrebbero fatto a rimettere la calma? Lo si diceva, lo si diceva; ma come crederci? Ed ieri tanto tranquilli che pareva non dovesse succeder nulla all’indomani! Addio tutto!»
Sul canto lo zio Pasquale (l’oste) li aveva fermati curioso ed essi lo avevano lasciato parlare ed erano corsi via alla riunione. In quel punto sentenziava fra gli altri paurosi:
«È appunto perché erano tranquilli che si doveva temere. Prima del temporale l’afa e la calma.»
Poi rinchiudevansi di nuovo le imposte e dalle finestre socchiuse tornavano alle camere a vedere nuovi gruppi silenziosi, cupi, come ad una rassegna militare e dolorosa, cogli strumenti in ispalla, nuove e strane armi, a passar via a passo cadenzato ed a sparire dietro la svolta della piazza.
Qui le voci si facevano alte che empivano tutto il villaggio; si chiedeva un aumento sulla giornata padronale, delle terre da coltivare a granoturco; si concedesse tutto ciò ora, alla buona, senza tanto rumore, se volevano stessero ragionevoli.
Il sole, avendo conquistato tutto il campanile, strisciava sulla cupola coperta di piombo e la faceva scintillare: scendeva abbasso alla folla, posandosi sulle falci, sollevandone lampi prestissimi ed invadeva la via stretta, dorando le facciate delle case chiuse, paurose e mute, come illuminasse una regione abbandonata.
Gian Pietro s’era messo vicino al cancello e gridava:
«Ohè! Prospero Coli! aprite, ché abbiamo a parlarvi!»
Il palazzo rimaneva muto e grigio dietro gli alti alberi verdi, non ancora indorato dal sole, come che gli ascendesse dietro; un’ombra cupa rimaneva ancora dentro il portico e nella corte, ornata di prati stagliati a figure geometriche e di fiori primaverili: e pareva che colla alterigia, di cui da secoli era stato l’abitazione, non si desse cura delle grida di quella folla, sicuro di non essere vinto, come un cane grosso sta fermo e disprezzante agli assalti di un botolo ringhioso, ed altero non lo cura.
«Ohè, Prospero Coli! aprite, ché veniamo a trovarvi!»
«Dei campi! L’aumento, l’aumento!»
Le grida riscaldavano la moltitudine, che, ondeggiando, si piegava, alzandosi di tanto in tanto sulla punta dei piedi ed accennando alla casa che aveva assediata.
«Ditemi un po’: ci siamo forse riuniti per accontentarci di gridare? Avanti, avanti; giù il cancello!»
«Sì, sì; ha ragione, giù il cancello!»
Il palazzo feudale rimaneva sempre nell’ombra, duro, impassibile, senza commoversi.
Allora si aprì una finestra del presbiterio e parve che in mezzo a quel rumore ed a quel vocìo generale tutti si fossero accorti e tutti guardarono in su. Il curato s’era affacciato, cogli occhi ancora inebetiti dal sonno, dopo la veglia passata tra i bicchieri la sera a *..., dove l’avevano invitato ad un funerale; la testa coperta da un berretto bianco da notte, mezzo spaventato e pallido dalle grida, egli apparì colla sua grassa faccia nell’inquadratura della finestra, come un ritratto goffo della scuola olandese. E quando vide alzarsi a lui tutte le teste, come chiedesse pietà fece un gesto stentato colla destra verso di quelle, non l’usato imperioso e jeraticamente superbo di quando predicava dal pergamo.
«Figliuoli, figliuoli!» cominciò, «l’avete proprio perduta del tutto la coscienza? Cos’è tutto questo agitarsi, tutte queste armi, più degne d’essere ora al lavoro dei campi che non qui in ozio sulla piazza?»
«Signor preposto, vuole anch’ella entrare nei fatti nostri? Dorma e smaltisca il vino in santa pace, che sarà meglio!»
L’altro continuava:
«Ma siete pazzi? Nessuno, credete, vi vuol veder morire di fame. Tornate a casa, tornate a casa e, se mai patite, offrite al Signore i vostri sacrifici. Forse credete che voi soli peniate in questa valle di lagrime? Vedete, anch’io ho i miei fastidi grossi, quando vedo che le mie preghiere non servono a nulla in cielo per voi fedeli. Figliuoli...»
«Basta, basta; abbiamo sofferto abbastanza. Un fico le avemmarie! l’aumento, l’aumento!»
Il prete s’era illividito; pure rimaneva al suo posto, cercando di farsi forte e credendo di placarli.
«Figliuoli, nel regno de’ cieli voi sarete rimunerati ad usura di quanto avrete travagliato su questa terra. E poi nessuno vi vuol male, il signor marchese vi tiene come figliuoli, Coli vi ama...»
Un urlo lo interruppe, cominciava già a volare qualche pietra, mentre il prete si ritirava dietro le imposte. Gian Pietro si fece innanzi:
«Lo sentite, eh? amici? Coli ci ama! Signor preposto, è forse perché vi paghiamo le decime e le messe che ci volete tener buoni? E che ne fate dei soldi?»
«Non è per me, ma per la chiesa; non per me, ma per le anime dei vostri poveri morti...»
«Lo sentite?»
Ora lo incominciava a minacciare; dei volti rossi d’ira si volgevano a lui, dei pugni e delle falci; i sassi smessi un istante, ricominciarono a volare, rimbalzando sulla facciata.
«Via, via, basta! va via! Dàlli al nero, dàlli!»
«Ma lasciamolo stare, che è briaco» disse Carlo «non vedete che faccia d’imbecille ha questa mattina?»
Tutti scoppiarono nelle risa, come a disprezzarlo. Il prete, livido, cercando di consigliare «pace, pace» richiuse le griglie prestamente, mentre udiva ancora le ingiurie ed il rumore delle lapidazioni sulla muraglia, che andavano inferocendosi.
E tutti si volsero verso il cancello. La casa si era ridestata tranquillamente, come gli altri giorni, alla stessa ora segnata dall’orologio della basilica, indolente nella sua superbia. La porta grande, aperta sul portico, lasciava vedere al di là, dietro i cristalli, il giardino biondo al sole, mentre sul davanti il cortile perdeva della sua ombra e le alte cime degli alberi andavano teneramente rinverdendosi nei raggi.
Il fattore, quieto, guardava la moltitudine raccolta, appunto come se la stesse ad osservare durante gli agresti lavori. Gian Pietro gli gridò:
«È per voi che siamo venuti. Abbiamo due parole da dirvi. Aprite il cancello!»
«Quello che avete a dirmi, lo potete gridare anche di fuori; qui non si entra.»
E avanzatosi verso di loro, come fu vicino, dietro il cancello, gli altri scoppiarono ad urlare:
«L’aumento! dei campi, dei campi!»
«Non tanto baccano, che m’assordirete e non potrei farvi intendere ragione. Per ora state fuori.»
La rudezza sprezzante del Coli inaspriva i tumultuanti più dell’insulto. Gian Pietro, il Lanzoni, il Carlo, il Battista Infanti si erano afferrati alle spranghe del cancello. A volte degli urti poderosi facevano scuotere e tintinnare fragorosamente le ferramenta, mentre l’arma gentilizia, che l’ornava in cima, ondeggiava, quasi si volesse staccare. Dei fanciulli s’erano posti in prima riga e v’erano i ragazzi dell’Infanti; altri monelli concorrevano, strillando, impacciando fra le gambe ed impacciati; delle donne si mostravano frammezzo alla folla, vincendo il rumore delle grida con strida più acute; altre si erano poste in un canto della piazza intorno a Giovanna ed alla madre sua, accorse come allo spettacolo della vendetta, che si effettuava per l’offesa da loro patita.
«Aprite! dei campi, l’aumento, l’aumento!»
Il fattore rivoltò avvicinandosi:
«Via, sentitemi un po’, farabutti, vogliatemi ascoltare! Ma come posso concedervi quello che domandate, se il padrone non me ne ha dato ordine? Scriverò, pazientate a domani, vedremo!»
Egli si faceva più umano, cercava di venire a trattative, come da potenza a potenza; veramente la moltitudine lo impauriva, il cancello, scosso, non gli sembrava più una difesa sufficiente; volgeva gli occhi ansiosi sopra la folla per vedere se accorresse il maresciallo ad aiutarlo e frattanto protraeva lo scoppio più che poteva, rimproverandosi delle male parole usate prima.
«Domani, eh? Perché ci facciate legare tutti come cani. Sarei pazzo! Subito! Non vogliamo che il giusto.»
«Ma se non si può! Pazientate, credetemi; farò il possibile per voi altri.»
Schiamazzò la folla:
«A te, credere a te? Tu che vuoi fare il gallo nel pollaio altrui? Mai più!»
Essi erano venuti a toccarsi e l’alito urgeva loro in faccia, a traverso la ferriata. caldo ed acre di tabacco.
«A te» diceva il Lanzoni «che fai il superbo e che ci tratti come schiavi!»
«A te» interruppe il Carlo «che ti bevi tutto fino all’ubbriachezza e la mattina vieni a frustarci durante i lavori!»
«A te» esclamava l’Infanti «che fai crepar di fame le famiglie!»
I crolli dati alle inferriate divenivano più forti e sonori; l’arma si era staccata da una parte, corrosa dalla ruggine negli antichi chiodi, e penzolava giù come un cencio. Sospesa per un trifoglio della corona marchionale. Il riparo stava già per crollare.
Allora un fremito lungo di paura corse per la folla ed una voce trepida. ma sempre minacciosa:
«I gendarmi. i gendarmi! Eccoli!»
Erano tre, il maresciallo e due soldati; venivano tardi, è vero, ma pronti e fermi: i raggi rinfrangevano sulle canne lucide dei fucili e quei tre uomini, alti, vestiti di nero. con un’autorità strana nel volto. parvero che per poco intimidissero tutta la folla. Incominciava il maresciallo:
«Che novità è questa. ragazzi? Tornate ai campi, che ne avreste già fatto del lavoro, ché alto è il sole. Andiamo, mettetevi quieti.»
Gli rispondevano sordamente, ma non più a voce alta; i gruppi si lasciavano penetrare da quel piccolo drappello in divisa. quasi non volendo resistergli; la folla si divideva al suo passaggio. come l’erba di un prato, schiacciandosi, pare si apra sotto le ruote di un carro e lasci un solco quando è trascorso via. — Di dentro il fattore, animato dal soccorso, teneva duro, se lo vedeva avvicinare a poco a poco, godendo, finché alla fine gli fu vicino. poiché bruscamente avevano respinti i primi, più determinati e furibondi.
Il grido correva insistente e trepido, quasi volesse guastare tutto ciò che fino allora erano riusciti a fare, poiché mentre l’azione era stata condotta troppo in lungo, sarebbe stato molto meglio che l’urto e la violenza si fossero subito risolti, per non dar luogo al ritorno dell’indecisione e dello sconforto ed alla perdita di tutto quanto si fosse guadagnato: né la folla pareva volesse resistere a quel nemico ch’ella stessa creava, anzi pareva fuggirlo e ritirarsi.
Adunque Gian Pietro, accortosi, si volse ai suoi, rimproverandoli:
«Vigliacchi! Che avete paura di tre gatti, di tre gendarmi che i padroni pagano per sgozzarci? Ma fate di più! Andate a porvi nelle loro mani, porgete loro il collo, perché colpiscano! Se non vi vergognate voi di abbandonare la giustizia per causa della vostra infamia, io ne ho schifo e ne vado io solo.»
La folla si era ritirata in fondo alla piazza ed i carabinieri che nell’agitazione erano entrati nel cortile, di là, fermi, guardavano gli altri che si allontanavano.
Raccolse un sasso e lo gettò; nel silenzio che s’era fatto, lo si udì urtare contro la cancellata e rimbalzare. E questa fu la prima pietra, poi la lapidazione incominciò.
I ciottoli penetravano nel cortile, battevano contro le piante, rimbalzavano sul muricciuolo, sul cancello, mentre la folla si riavvicinava. La ribellione mutavasi in giuoco; i monelli, in prima fila, più destri e più agili nell’esercizio, miravano fra i vani delle barre agli uomini di dentro, si gloriavano ad un bel colpo, come ad un bersaglio di divertimento, cercavano d’emularsi, rossi in viso e sudati, colle braccia indolenzite dal lungo giuoco e dal tendersi dei muscoli. A volte tutti si chinavano a terra per raccogliere con un moto cadenzato ed uguale, ora si rialzavano, quasi obbedendo ad un comando e si ponevano in quella posizione più sicura per un tiro aggiustato, a gruppi, uomini, fanciulli, lasciando per ora gli arnesi rusticani; alcuni si accontentavano di guardare, come ad uno spettacolo, ridendo e motteggiando. La pioggia delle pietre continuava. I militi rimanevano sempre fermi, come uomini di granito; si erano fatti un po’ pallidi per lo sdegno, per l’impossibilità di caricare quella canaglia che li insultava e li feriva al sicuro: un sasso colpì in pieno petto il maresciallo che incominciò a sagrare, un altro aveva portato via il cappello ad un milite alla sua dritta; il Coli, fatto segno da tutti, aveva ammaccate le gambe. La ribellione si faceva sempre più seria, il giuoco diveniva minaccia, le risate si mutavano in urli, la pioggia spesseggiava: come un’ubbriacatura saliva al capo dei tumultuanti, affratellandoli in quell’audace e comune pazzia; si sentivano invasi da una gran forza, di una smania di tutto calpestare e schiacciare, dai fumi di una visione terribilmente epica che li spingesse al suono di una tromba guerriera e fatidica alla sublime vittoria della verità e della giustizia.
I militi sempre fermi come uomini di granito. E si gridava:
«Avanti, avanti! Accoppa, accoppa!»
Allora fu un grido, di un carabiniere che si portò le mani al capo e cadde pesantemente a terra; partirono due colpi di fucile. Un figlio dell’Infanti fu prosteso in mezzo alla piazza, mentre sorrideva ancora del colpo ben diretto: poi gridò:
«Mamma mia!»
«Uccidono i figliuoli, anche!»
Il padre gli corse appresso; sollevatolo, lo mostrava alla folla che tremava, la vena di sangue scendeva dal petto del piccolo ferito, imbrattando l’abito del contadino ed aspergendolo di un nuovo battesimo: egli lo portava dappertutto, bestemmiando, gridando, pazzo d’ira, finché sotto il portico della basilica lo consegnò alle donne.
La folla inferocì alla vista di quel sangue umano e colla testa bassa, colle falci in pugno, si scagliò contro il cancello.
E fu un’onda umana cui nulla poteva resistere, un torrente impetuoso e dilagante che avrebbe schiantato ogni ostacolo: i due battenti del cancello, non bene assicurati, crollarono fra un polverìo di macerie. Gli inferociti passarono sopra a tutto spingendosi, calpestando; delle falci si abbassarono sui nemici repentinamente assaliti; quella dell’Infanti squarciò il ventre al Coli, posto sopra un ginocchio, la zappa dell’Angelo aperse il cranio del milite ferito; poi si passò avanti, allagando lo spazio libero, come un fiume estuante alla foce, sbandandosi per la vastità della casa, gridando, fracassando le vetriate, abbattendo gli usci, briachi e ciechi dal sangue, dalla distruzione, dalla vendetta contro un fabbricato inerte, che sembrava lasciarsi abbattere colla sua alterigia di palazzo nobiliare. Ai caduti non si badò più; il maresciallo, senza cappello, si rialzò, passata la corrente umana, e di gran corsa, battendosi il capo per la disperazione, via al telegrafo; i cadaveri degli altri due si sdraiavano sulla terra in una pozza di sangue, che, scintillando al sole, cominciava a raggrumarsi, mentre le donne che stavano intorno al fanciullo ferito, sotto il portico, piangevano, si lamentavano e discutevano sulla fasciatura.
Dal campanile vennero le nove ore. La macchina dell’orologio aveva continuato il suo lavoro buono e tranquillo, segnando il tempo su tutto l’umorismo delle vicende umane, come grandemente persuasa di quella legge naturale che andava scientificamente numerando.
Finalmente! La nuova jacquerie lombarda trionfava e tripudiava. S’erano sparsi per tutto il palazzo, avevano ricercato tutte le stanze più secrete, i cantucci più oscuri, mentre il gran sole sfacciato penetrava dalle larghe finestre, ora per la prima volta dopo tanti anni spalancate. Delle nuvolette leggere di polvere si sollevavano, dietro i passi degli accorrenti, dal suolo e dai mobili antichi e come la smania della distruzione imbecille ed inutile era passata, i rivoltosi si trovarono dentro stupiti e contenti, come visitatori che si divertissero nell’osservazione di un fabbricato storico e monumentale. E ciascuno si muoveva spinto da una individuale idea, non a schiere, ma isolato, come che il comune bisogno si fosse soddisfatto e personalmente ora attingessero a placare i propri. Giovanna e le altre fanciulle si erano fermate al secondo piano, in una stanza da letto, intorno ad un tavolino pieno di spazzole, di fiale di profumi, di scatole di cipria, chissà fin da quando abbandonate, e poiché dentro un vecchio canterano si erano trovati degli abiti femminili di seta e di velluto della prima metà del secolo, ora, davanti allo specchio, s’incominciava uno strano abbigliamento. Le fanciulle smettevano le rozze gonne e si rivestivano delle signorili; goffo era l’aspetto dei volti e delle mani brune pel sole che uscivano dalla scollacciatura e dalle maniche guarnite di merletti ingialliti, della vita grossa che si voleva restringere nel corsetto a punto, dello impaccio delle gambe nella gonna prolissa ed a strascico. E tutte si tributavano all’opera, sudate, mezzo svestite, colla tela rozza delle camicie che stonava fra i velluti, guardandosi a vicenda, criticando, consigliando serie, terminando poi col rimettersi al parere di Giovanna, che sentenziava:
Le ricche stoffe male si piegavano a coprire i rozzi corpi; pareva si ribellassero, ora sganciandosi, ora rompendosi nelle cuciture ai movimenti rapidi, ora non aggiustandosi alle spalle e facendo dei rigonfi o stirando eccessivamente. Oh, le rosee nudità patrizie che prima erano assuete a rivestire e i buoni odori che quelle carni, sudate nei balli e nelle corse a cavallo, avevano lasciato nei tessuti! In mezzo alle faccende dell’abbigliamento la vecchia camera pareva si rianimasse tristamente, il soffio della primavera faceva ondeggiare le tende del letto alto, penetrava dappertutto, suscitando una vita giovane e fresca in ogni angolo, faceva scintillare le dorature delle cornici, luccicare i mobili laccati e barocchi; ma il gruppo delle femmine rusticane soffocava tutto quel rinascere dei tempi passati colla ignorante alterigia della conquista. Ora si acconciavano i capelli alla moda e formavano degli strani edifici, gocciolanti di acque profumate e bianchi di cipria; gli odori si propagavano ampiamente per la camera, i vasetti si rovesciavano sul tavolino, qualche fiala si spezzava, ed il liquido, colando in vene colorate dall’alto al suolo, faceva delle larghe macchie. E poiché si trovarono vestite in modo tale che nessuna contessa poteva superarle, scesero a trovare gli uomini, che del salone avevano formato una bettola, sdraiati sui divani di seta e sulle sedie fìnissime dalle spalliere indorate, fumando e bevendo; come entrarono, le applaudirono.
«Brave, brave! E chi è di voi la marchesa?»
Giovanna si avanzava, facendo degli inchini e delle goffe riverenze.
«Non state ad incomodarvi, signori miei; godo della vostra buona salute; e le vostre signore mogli?»
Si rideva, si mescevano vecchie bottiglie di vino generoso, se ne gettava al suolo, si rompevano dei calici fìnissimi senza curarsene, come dei nabab che non sappiano del valore delle cose.
Le fanciulle si confondevano allegramente cogli uomini. Essi davvero credevano d’aver fatto la rivoluzione; non si trovavano nel palazzo del signore e domani non si sarebbero divisi i campi, tanto per uno, da star ricchi? Questo era vero, ed ora allegria! Cominciavano a dirsi quale parte avrebbero avuto, se vicina o lontana dalla casa, quanti sacchi di grano avrebbero all’anno, quante tavole di bachi, e loro sempre i padroni! Se accomodava il lavoro, tanto meglio; se no, moltissimi, pagandoli, avrebbero accettato. Così insensibilmente andavano riproducendo l’antica società di magri e di grassi ch’essi credevano di aver distrutta per sempre; e difatti, poiché loro adesso avevano la ricchezza, perché non usarne? I magri del passato erano i grassi del presente, finché non fossero scopati via dal posto usurpato da una nuova schiera di affamati: ecco tutto.
Fra i discorsi, di tanto in tanto, si udiva un lamento dalla stanza vicina, poiché il piccolo ferito vi era stato trasportato. La piaga, male fasciata, aveva imbrattato il divano bianco a fiori rossi ed azzurri; il fanciullo pareva soffrisse molto, apriva a tratti gli occhi ed accennava di parlare colle labbra che si ricusavano, i capelli erano ritti e madidi di sudore sulla fronte pallida, e nessuno gli stava attorno, nemmeno il padre, tratto altrove dall’ingordigia di saziare i propri istinti, più prepotenti nel suo carattere di villico che non fosse per lui un affetto di lusso, come era quello di padre. Pure a volte qualcuno entrava con un bicchiere di vino, per fargliene ingoiare delle sorsate, poiché era il miglior rimedio del mondo, come dicevano; pochissimo penetrava in bocca pei denti stretti, il resto gocciolava ad unirsi con grumi del sangue, sulla stoffa bianca di seta a fiori rossi ed azzurri, mentre il malato continuava a lamentarsi.
Il solo che non fosse contento era Gian Pietro. Veramente i compagni suoi credevano di esser giunti alla fine e sicuri affatto, ma si ingannavano, perché un palazzo solo conquistato non faceva rivoluzione e bisognava che si avesse portato il loro agitarsi anche negli altri villaggi, per potersi rassicurare sulla vittoria.
D’altra parte il maresciallo, che era sfuggito, certamente avrebbe chiesto aiuti; ma la città era lontana; l’assalto inopinato di una milizia disciplinata, se pure l’avessero atteso, sarebbe riuscito fatale, e allora addio a tutto! Altra cosa è trovare una regione completamente in balia dei rivoltosi ed altra il trovarne cento in un palazzo conquistato con dei delitti comuni. Egli comprendeva tutto ciò e per questo non si mischiava al tripudio generale, che anzi spesso tentava di muoverli alla sua idea, parlando con effusione o mostrandosi accigliato, né volendo bere, mentre Carlo lo tentava col bicchiere alla mano:
«Ma se oggi abbiamo vinto! Noi siamo i padroni; bevi, bevi!»
Però qualche altro prevedeva, ed erano degli ammogliati: si toglievano dalla comune letizia ad uno ad uno e salivano ai granai. Là sopra grande era il lavoro; molti li avevano già preceduti e sotto la volta alta e bianchissima si accumulavano i monti del grano biondo, luccicante al sole come oro, e tutti intorno empivano colle pale dei grandi sacchi. Una polvere lievissima si sprigionava dal continuo rimescolio ed usciva come una fumigosità dalle finestre, né il lavoro era pressato e come fatto di sorpresa ed illegalmente, ma quieto, naturale e quasi opera comandata, poiché i sacchi si riempivano aiutandosi a vicenda con precauzione, spesso indugiando a considerare il frumento e ad aspettarsi; si caricavano poi sulle spalle robuste ed i caricati scendevano per la scala sicura. Ognuno avviavasi alla propria casa, passando in mezzo al villaggio silenzioso, che pareva disabitato, formandosi in righe lunghe di portatori, per ritornare di nuovo alla faccenda, senza commuoversi alla vista dei cadaveri stesi nella corte, come giudicassero quel delitto una cosa di lieve momento, né da loro commessa, o piuttosto un atto legale voluto dalla loro autorità.
E così nelle cantine. Qui lo sperpero facevasi superbo e spaventoso; i rubinetti delle botti allineate lasciavansi aperti ed il vino colava inondando il pavimento. Carlo, che non si era mai trovato come allora nel suo elemento, vi guazzava dentro, come un’anitra in un pantano, colla testa già grossa e le gambe tremolanti. Il via vai era continuo sotto la luce fredda delle finestre strette e strana era quella carovana di persone sporche ed odorose di vino, che andavano in su caricate, ridendo e motteggiando; poiché ora più non bastavano i bicchieri e le bottiglie ai rivoltosi, ma s’empivano i catini e delle botticelle si portavano nelle sale e in mezzo alla corte, formandosi dei crocchi secondo gli umori e spiegandosi in cospetto del sole e della giovinetta primavera quell’orgia umana, dopo le uccisioni e l’assalto.
E le ore passavano, suonate al campanile. La macchina dell’orologio aveva continuato il suo lavoro buono e tranquillo, segnando il tempo su tutto l’umorismo delle vicende umane, come grandemente persuasa di quella legge naturale che andava scientificamente numerando.
Così dopo la tempesta, la calma. Buoni si ritrovavano quegli umani nella loro comunità, dopo gli eccessi e fra il tripudio del vino e la discussione sulle divisioni, raggiunta la meta finalmente; e chi mai era più avventurato di loro? Nessuno. Prevedevano i tempi a venire. Calma la casa e caldo l’inverno e fresco l’estate, non il sonno interrotto dalla fame, non i figli laceri, ma un benessere generale, una pace continua, ristoratrice, dopo i passati affanni. Allora potevano gridare e cantare di gioia, potevano sentirsi felici, poiché nessuna privazione più li irritava e per l’opera lungamente elaborata ed ora compiuta essi si erano elevati al disopra degli altri, gloriandosi d’essere arrivati a tanto. Dolce quindi era l’ebbrezza, perché non accompagnata dal sommuoversi degli istinti naturali a lungo compressi e che sapevano non avrebbero mai potuto manifestare; amoroso lo sguardo e non schivo il cuore alle confidenze. Vicini, si dicevano di quanto avevano patito e di ciò che l’un l’altro si erano nascosto colla ignorante albagìa del contadino, si compiangevano a vicenda, ora che potevano rallegrarsi della presente felicità, si facevano pronostici per l’avvenire colle teste che andavano annebbiandosi e confondendosi all’influsso dei vini, mentre loro stessi si raggruppavano intorno alle botticelle scoperchiate e brindavano, brindavano a perdifiato. Anche le donne si erano eccitate, accomunandosi al tripudio; si formavano delle coppie isolate, le fanciulle alla spinta del liquore suadevano agli amanti, che prima schivavano e con essi si sperdevano nel giardino; in un canto della corte, sotto due grandi magnolie, dei giovanotti avevano improvvisato un ballo, alcuni suonando colla bocca e picchiando coi sassi sulle falci a ritmo, diretti dal Michele come da un capo d’orchestra, altri stringendosi nelle braccia le forosette purpuree in viso e trascinandole in una danza grottesca e pesante. Giovanna poi continuava nella sua farsa di marchesina bella e desiderata, trascinandosi dietro lo strascico della veste di velluto e facendo gli occhi languidi a Gian Pietro.
Ma Gian Pietro, solo appoggiato ad una colonna del portico, guardava lontano, rattristato e malcontento. Delle ore erano passate ed il sole incominciava a declinare, l’ombra del campanile e degli alberi si allungava e la luce batteva in pieno sulla facciata della palazzo, che sopportava quel tripudio; l’aria, fattasi calda, ristava in una quiete di giornata estiva, dei passeri ciarlavano sulle grondaie della chiesa, un merlo cantava sopra la pianta che impendeva al cadavere del fattore, un cane vagava per la piazza, avvicinandosi agli uccisi, attratto dall’odore del sangue che andava corrompendosi. In quella giornata si erano manifestate tutte le atrocità, tutte le leggerezze, tutto il coraggio umano, senza riuscire a nulla. Gian Pietro avrebbe voluto dare un carattere ben diverso a quello scoppio; ma la turba, passata la prima linea, gli era sfuggita di mano, seguendo i propri istinti; lui solo, la mente governatrice, teneva davanti a sé ancora netta e precisa la visione della meta per cui si avrebbero dovuto impegnare tutte le forze riunite, quel fine sociale che tremolava nella sua intelligenza, ancora indeciso e non bene compreso, ma di cui sentiva la bontà e la grandezza. Che cosa avevano fatto? Nulla! Due morti, un ragazzo moribondo, un palazzo conquistato e mezzo in ruina, una turba di uomini e di donne briaca, il piacere prima della vera e santa vittoria. Certamente, chiedeva egli, si poteva innalzare una popolazione, che alla prima prosperità si abbrutiva? Erano degni costoro del posto a cui si destinavano nella futura società? Egli non voleva rispondersi a quelle domande che si faceva, poiché sentiva che la risposta doveva essere poco benigna pei suoi compagni.
I caricati del grano continuavano a passare; ora s’incominciava a spogliare dei mobili la casa, in due si prendevano un tavolo, un divano, uno specchio, altri scomponendo i letti, a pezzi sotto le ascelle o sulle spalle, in fila, li portavano alle case loro e delle botti si facevano rotolare per la piazza. Un gruppo s’era formato intorno ad una di esse, enorme, che rimbalzando sopra un sasso s’era sfasciata allagando il suolo ed aspergendo gli astanti di un gran battesimo rosso, fra le risate sciocche.
«Ecco» continuava egli «aveva creduto di rialzarli! Come potrebbe egli stesso chiamarsi? Illuso o pazzo? Eppure nobile e generosa era la sua missione, lunghi e feroci i patimenti, giustissima la sua forza e la sua vendetta!»
In quel punto un uomo traversò la piazza, allora deserta ed allagata dal vino. Gridava:
«La cavalleria, la cavalleria!»
Difatti per la strada del villaggio si udiva un confuso risuonare di sciabole, un galoppar di cavalli, degli ordini.
La folla fu presa da un panico disperato; lasciando le occupazioni ed i divertimenti, si raccoglieva sotto il portico, traversava le sale, fuggiva in giardino, colle teste in fiamme, pallida dalla paura, spaventandosi colle grida:
«La cavalleria, la cavalleria!»
E via, via, in una corsa che aveva del fantastico, poiché non si vedevano ancora inseguiti da alcuno, urtandosi, urtati, facendosi cadere, calpestandosi, finché dal giardino passarono nei campi che lo confinavano.
Nella corte i due cadaveri, Gian Pietro, e Carlo sempre affaccendato a bere.
La cavalleria si fermò sulla piazza, maravigliata di dover caricare due uomini. Carlo si avanzò verso Gian Pietro con una tazza ricolma, in atto d’offrirgliela; Gian Pietro lo scansò mentre questi ruzzolava gridando:
«Oh, com’è buono!»
«Vigliacchi! quanti vigliacchi!»
Di lontano veniva il galoppo dei fuggenti e l’ufficiale della prima schiera gridò:
«Avanti.»
Dal campanile suonarono le tre ore ed un cavallo nitrì.
«Vigliacchi! vigliacchi!» ripeteva, coll’insistenza di un pazzo.
La cavalleria prima ondeggiò, poi si mosse al passo contro due cadaveri, un ubriaco ed un povero apostolo che aveva sbagliato il suo tempo.
«E così sia» avrebbe detto il buon parroco di *... «e così sia!»