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Interlocutori: Navigatore ed Orafo
«Orafo, Naucrate padron di navi, colui che tu bene conosci e che porta nello stesso suo nome il modo di sua vita, mi ti ha raccomandato, quando, avendolo trovato sulli scali dell’isola di Kórcyra, lo avvisai che sarei tornato in patria e gli mostrai queste ricchezze, che ora vedi, chiedendogli di un grande artista che sapesse raggrupparle secondo il mio desiderio. Poi che tu devi sapere, come di questa sardonia, dell’ambre, dell’abraxa, o pietra basilidiana, delli zaffiri, dei cristalli di rocca, dell’ametista, dell’acqua di mare, dello scarabeo, coll’idrofano, l’eliotropio, il giacinto ed il berillo, io voglia foggiare una collana.
Prima cosa tu dovrai curare, di sfuggir singolarmente la simmetria. Ciascun anello, che simile all’altro, identicamente si connetta in una serie d’altri anelli uguali, forma una nojosa, e, nel medesimo tempo, presuntuosa catena. Ti indica una esistenza di giorni idropicamente corrispondenti, una vita regolata da una meschina ed egoistica ragione, quale non fu mai la mia, che vantò crisi e gesta improvvise, amori ed odî divini. Imagina, in vece, il mio correre pei mari, l’osservare, in ogni momento del viaggio, le meraviglie del cielo e dell’acque, il fermarmi nei porti sconosciuti, il conversare colli stranieri, l’amare le fanciulle una volta sola e partirmene, il conservare nel mio cuore un amore eterno per chi lasciai in patria e il non dimenticarlo già mai nelle braccia dell’altre amiche di un’ora.
Tu, adunque, se seguirai i miei consigli, farai opera egregia. Annoda, prima di tutto, due catenelle, di cui le maglie siano dissimili e per fattura e per metallo. Cerca per queste l’oro, l’argento, lo stagno, il corno, il lustrino, la calamita, lo schisto e la pietra tebaica; fa’ che il litoglifo2 si sforzi a mutare forme ad ogni anello che lavora; fa’ pure che li aggemmini di stelle, di cerchî, di linee, di zone, di ferro, di bronzo, o di rame, variando come il suo capriccio disordinatamente voglia. Dopo, appendi a ciascuna di queste maglie quanto ti andrò mostrando.
Vedi questa sardonia? porta in rilievo Eros pargoletto, che, cavalcando un leoncino, lo irrita colla punta del dardo. Sai ciò che disse Argentario di questa figurazione: «Veggo su questa pietra trionfante l’Eros che regge, nobile cavaliere, il re ruggente: come il dardo nella destra gli brilla! Guardo però trepidante questo inimico della pace del mondo raggiante di splendore divino: io gli resisterò?» I sacerdoti di Serapides, a cui l’ho chiesto e pagato di una fiala di profumi sconosciuti a loro, e che nell’afa meridiana della canicola rinfresca il corpo, se tu te ne ungi, come uscissi da un bagno, lo consacrarono sotto la costellazione della nascita di colei, per ornar la quale abbandono la casa paterna e mi consacro alle furie dell’Oceano. La sardonia porrai nel mezzo, essa appare di un tondo levicato e morbido, come la guancia di una canefora, e calda e porpurea, come le labra umide ancora di baci; è rossa a punto perché porta Amore e porta il mio cuore.
Vicini legherai, da una parte, l’acqua marina, dall’altra, il diaspro rosso. L’una regge Poseidon sui flutti, quando, rappacificato coll’Olimpo, si aderge dalla cintola in su, brandendo il tridente e placa l’ira dell’acque. Osserva come d’intorno a lui già le creste spumose e viventi si acquetino e sericamente si sdrajno in uno specchio unito, come lontana, invece, forse perché il cenno imperioso non ha ancora avvisato, continui la bufera bianco crinita. Nell’altro, sta Marsia scorticato, appeso ed avvinto all’albero per la gelosia del Dio, a cui volle emularsi nel canto. Sopra al sangue di questo corpo martoriato, anelano li uccelli notturni e li avoltoi aggiungendo strazio all’agonia; ed è rosso il diaspro della sua carne in piaghe e della vendetta. Così, il rosso mio amore della sardonia rifulge imperioso tra i viaggi verd’azzurri e persi e nella gelosia che mi affoca fuor di patria, nel desiderio insaziato e porpureo, l’uno e l’altro carnefici, in ogni tempo, sul ponte della nave, sui marmi dei porti, tra le pelli soffici dei lettucci, sopra ai seni delle cortigiane di una notte.
Da Babilonia riportai un cilindro di malachite3: eccolo. Forato pel lungo, un tuo filo d’oro l’appenderà, in ricca seguenza, a destra del diaspro. Per quanto interrogassi i saggi che incontrai nel mio peregrinare, nessuno di questi mi seppe decifrar i segni lineati, che a punti d’argento, incidono la pietra. Onde l’oscurità di quelle parole, che voglionsi significare chiuse al nostro intendimento, me la fanno più preziosa; quasi ch’io creda, parlino, in quelle sigle, con alcuni Dei a noi ignoti e di grande potenza, nella lingua divina, raccomandando a loro le cose della terra. E mi raffiguro che la preghiera votiva salga, per me, alla mia prosperità, esaudita da quei genî d’un altro popolo; perché, dopo che fu nel mio scrigno, sull’ondivago cassero, ogni cosa mi volse ad onore ed a profitto.
Vogliano queste occulte parole, pendenti dalla collana, che abbraccierà il collo eretto e squisito della più bella, raccomandarle le più fauste avventure ed il più dolce amore per l’amico.
Lo scarabeo seguirà alla sinistra dell’acqua marina. Verde sopra l’ovolo grigio, delle due corna tenta immobile il destino; e, per una raffinatezza particolare, le ali leggiere ed a mezzo spiegate, che gli escono di sotto la corazza del corpo, sono fregiate da piccole croci ansate, grafìte di un tenero azzurro. S’egli, come dicono, si dedica al sole e pare umile e rispettoso sopra le sei gambe sottili e nodose, è anche il simbolo del coraggio: indica, per le difese del capo, ed un rostro, ed una lancia, come a me nei perigli occorrono per l’arrembaggio. Non ti pare, che vicino all’aspetto di Poseidon, la pietra solare debba incatenarsi? — Alcuni mesi fa, quando gettai l’ancora a Baja vicino a Cuma, per caricar le pelli bianche e preziose di alcune capre seriche e lucide e dei soatti grigi di gatti selvatici, dei quali farò tra poco un molle tappeto cinereo ai miei piedi nudi, gettati sui mosaici, nella casetta suburbana; ed, ozioso, visitava spesso il porto frequente di Partenope, guardando l’occellatura del golfo, difeso dall’isole verdi e rosee, come ajuole di fiori; un marinajo del luogo, con dolce parlar greco, cortesemente, m’offri un Phallos. L’incanto dell’ora, che mi rammentava la patria, mi faceva malinconico ed espansivo; per la preziosità offertami da quello, incominciai con bei discorsi e seppi delle strane voci che correvano il paese insistendo, se pure l’avventura datasse da parecchio tempo. Un Pilota egizio, Thamous, chiamato dal Cesare Tiberio a Roma, aveva a lui confermato quanto Epitherses, retore che gli viaggiò insieme nel vespero fatale tra Kórcyra, all’altezza di Palodes e Paxos, con voce lamentevole, aveva udito proclamare d’intorno a prodigio: l’annuncio4 della morte del Gran Pan.
Come uno spirito nuovo sembrava intristisse insieme e ringiovanisse vecchie coscienze d’uomini per una epifania di sciagure, proclamate tant’anni fa. Anche il rozzo rematore si privava, non so per qual intimo pensiero e paura, dell’amuleto sacro, e me lo offriva come a colui che meglio potesse portarlo o regalarlo, per affetto, lontano. Passavano a coppie, o sole, le ragazze coperte di veli (così trasparivano sotto) ed alcune impuberi, ma certo non vergini, nude a fatto; passavano e ridevano osservando l’asta minuscola ed umana ritta a sfida, rosea nel corallo e come viva, che mi si porgeva. Vedi quanto sta scritto in due caratteri ed in due lingue: «A te la felicità5: Felice sia chi lo porta», e fa di aggiungere questo segno, non mai abbastanza onorato della nostra generazione e del nostro piacere, alli altri.
Se l’abraxa è conveniente quale sta, triangolare, tutta coperta di numeri, legala al resto. Di pietra tebaica, dall’una parte colle parole disposte a cuneo come vi leggi, e dall’altra coi segni semiti e colla scritta: «Jao Abraxas Adonai6 proteggimi dal cattivo genio», fu da me avuta, in iscambio di un camello, quando, sulle sabbie di Fenicia, volgendo dalla parte dei monti, la mia carovana incontrò un’altra, che discendeva al mare, numerosa e di cui i somieri erano troppo stanchi per sopportare il peso di tutte le mercatanzie destinate alle navi.
Colui, un vecchio, in una tonaca oscura e con lunga barba bianca, mi spiegò che le parole straniere significavano «Padre, Figliolo e Spirito Santo7»; consigliandomi di non prestar fede ad uno straccione, che, lui nolente, gli si era aggiunto pel viaggio, fin dalle porte della città. «Costui» disse «fugge la giustizia dei sacerdoti, perché s’imbrancò in quella masnada di pezzenti, che poco fa, posero a soqquadro il paese delli Ebrei; onde il Sanhedrin fu costretto a condannarne il re loro, divulgatore di prodigi, sulla croce, a morte, tra due ladroni dei boschi. Non so se tu sappia queste cose; ma l’astuto impostore, che mi segue e ti annoja, tra le sue altre fandonie, vuol venderti a caro prezzo un pezzetto di legno di cedro levigato e scolpito, che dice della croce del suo maestro: e perché sa i Greci amanti del meraviglioso, in greco lo scolpì; ‘Salvazione pel legno’8; avendo egli viaggiato per l’isole dell’Egeo e conoscendo la tua lingua». Di fatti, il pidocchioso pitocco, mi si faceva vicino, stretto ai panni, e mi annojava colle sue ciancie di astinenza e di povertà; ma l’alito gli puzzava d’aglio e di rancido, come il sajo, che portava, di caprone mal sudato. Volli ributtarlo e chiamai un camelliere che lo allontanasse colla scuriada, e, quello ridendo: «Incomincio a farmi temere dai profumati mercanti: sono adunque più forte, ma bada che l’abraxa, cui questo ingordo ti volle dare in vece del segno della salute nulla vale per te, ed egli pure ne fu ingannato, da che la scolpì uno della nostra fede. Interrogalo, se la legge del feroce Jahveh contempla il Figliuolo e lo Spirito Santo, come la nostra nuova credenza; eccomi, ti spiego quanto vi è scritto: tu lo confonderai, ed egli da quel Giudeo che è della Tribù di Levy, ignorante del suo libro, sarà assai felice di averti truffato un camello di quattro anni, paziente e rapido al corso, per la tavoletta». Come puoi imaginarti, Orafo, io li lasciai subito, portandomi la pietra che mi piacque per la sua bellezza. Tu puoi aggiungerla coll’altre alla doppia catena della collana.
Poi ti lascio scegliere come ti par meglio; questa ametista, violetta come il vino di Kashbin, che si beve in tazze di legno sotto le tende di pelle, nelle rare oasi del deserto, porta Dionysos vittorioso contro alli Indi, brandendo lancia e tirso, sul carro condotto dalle tigri immacolate; questa tavoletta d’avorio, su cui una colomba trascorre, in mezzo ad una corona di rose, «Saluta, la signora, saluta9»; coi mirti, che circondano una fiaccola accesa, è pegno d’amore, e dice: «Ti amo amami10». Ma i rubini, occhi di pavone inquieti, gocciole di sangue; ed i topazî, favi di miele cristallizzato e puro; l’idrofane, chiara apportatrice d’acque; e il calcedonio verde e troppo duro, che le tue seghe e la tua polvere non potranno incidere, non lascerai, da parte. Tutto quanto io ti porgo va impiegato nel lavoro. Devi, anche, considerare che questo è il vero calcedonio, non il falso smeraldo, di cui i viaggiatori ciarloni ed impostori dicono che a Tiro, nel Tempio d’Ercole, se ne trovi una intera colonna: il mio, come tutti sanno, si procrea lentamente, tramutandosi dal diaspro; così, se tu lo analizzi, vedrai che nell’infima parte conserva ancora la qualità della pietra madre, sia nel colore più oscuro e non trasparente, sia nei punti porpurei ed a pena percettibili: ora ti affermo che conserva da qualunque morbo li occhi quando tu ve lo applichi dopo aver recitate le parole dell’invocazione.
Ma dove lascerai le perle; queste? Se le acque marine e li smeraldi appesi e dondolanti rassembrano alle stille, che i miei remi madidi cavano dal mare, per poi lasciarle colare, colorandosi, lentamente alla luce, riflettendo, o il pianto della luna, o il sangue d’oro del sole; le rotonde ed iridate perle orientali, lagrime mie, lagrime dell’amata e di gioja e di dolore, al mio ritorno, ed alla mia partenza, non debbono avere la supremazia? Fa, in tutto: e tieni presente la persona che la deve portare: imaginala; ricorda la più bella fanciulla, che tu abbia mai veduto passare eretta sul busto, con una grazia languida e voluttuosa; rammenta le più belle mani che i tuoi anelli abbiano portato; pensa al più bel collo, che catene d’argento e d’oro allacciassero mai. Guarda che le sacre pietre debbono tintinnire, s’ella suade, ed ondeggiare, rispecchiando mille fuochi, quando respira; perché la collana, alquanto prolissa, si nasconderà tra i due seni a pena coperti, e, sulla pelle fine, porterà il mio regalo d’amore, come un bacio continuo, da una poppa all’altra. Credi questo; che se, per avventura, essa amasse d’uscire, un giorno, nuda col solo ornamento della collana, lo splendore delle sua bellezza ed i fuochi del giojello dovrebbero essere così fuori del pensato e divini, che ciascuno la incontrasse, non potrebbe accorgersi della nudità; ma, a quel miracolo inchinato, la proclamasse, dall’incesso, una Dea benedicente, Cypris a voluttà dell’uomo apparsa, dedicandole statue d’oro come a Lais di Corintho.
In fine, compi l’opera: non mi sgranare, dalle luci diverse a te profuse, una sgraziata cosa; tieni lontano ogni cattivo pensiero quando vi attenderai: conosci, che per Hermiones, moglie di Cadmo e per la sua discendenza, la catenella, fabricata da Vulcano, fu una imprecazione ininterrotta, donde le tragedie familiari e pubbliche di quella casa. Fa bene e presto. Che hai da guardarmi stupito? Credi che ti voglia corbellare? Mi credi avaro? Ho lasciato testè, nell’agorà dell’emporium, de’ sacchi e delle olle di profumi che venderò a peso d’oro; sul fieno fresco dormono, tra li svelti ed impazienti cavalli d’Africa e li onagri zebrati, alcune schiave nere e bianche, che, domani, le cortigiane della Città alta, verranno a disputarsi invidiandosi: e domanda di me in torno: tutti ti diranno chi è Poliphilos, se non mi conosci. E la caparra, ch’io ti lascio nelle mani, non vale una corona da Satrapo? Dammi retta e non assentire col capo, ridendo; fra tre giorni il giojello dev’essere terminato. Io non posso attendere di più; questi tre giorni, passati in patria senza vederla, sono il mio maggior dolore: perché vorrò presentarmi a lei, la prima volta, con un dono. Non che sia necessario al nostro amore... E nascosto, fra tanto, nella mia nave, la vedrò passare sui marmi delle cale colle sue amiche; ed ella ignorerà la mia presenza; ma dovrà sentirsi impacciata e turbata dolcemente nel muoversi dentro al giro della mia vista, che l’assorbirà come un bacio. In tre giorni; hai udito: la villetta suburbana attende il padrone; Helle sospira ad ogni notte che passa vedova, e la Luna-Astarthe avrà ricevuto chi sa quali e quante offerte nella mia assenza. — Che hai tu da ridere sconciamente al nome di Helle? Sai tu qualche cosa?»
«Poliphilos; costei alcuni giorni sono mi passò davanti alla bottega, in sul far della sera, vestita di una semplice exomis, succinta come una ballerina, traendosi dietro un bardassa latino, che, nel teatro, cantando, danzava sulla corda ed inghiottiva lucignoli accesi: pezzato mezzo in verde, mezzo in rosso, faceva la delizia delli oziosi e dei bambini precoci; quando Helle lo volle tutto per lei. Scambiò, con alcune monete, un tuo ultimo regalo, o signore; lo puoi vedere; son due periscelidi di tiria fattura, massicci, ch’io comperai per metà del valore; ecco i tuoi serpi d’oro a doppio giro aggemminati d’onici. Dissero tutti e due, che passavano con quel danaro a Roma, perché il Cesare è ghiotto di spettacoli e di bellezze; e, nel partire, ridevano assai, l’una al braccio dell’altro facendogli moine. Vuoi tu ancora che intrecci la collana con queste preziosità, colle quali potresti comperare tutte le donne della Città alta per te solo e per un lungo anno?»
«Tu farai la collana: poi la getteremo in mare, dietro alla fuggita, se ti pare, Orafo».
Tirata in pochissimi esemplari porta illustrazioni a colori su fondo d’oro, imitanti i mosaici pompejani e liberi, e parmi assai rara. Questa notizia può piacere alla golosità dei miei amici intinti dalla stessa pece... bibliomaniaca.