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Una signora rispettabile di mezza età, vestita senza ricercatezza, ma con distinzione, di nero: non l’ho mai vista ridere, pure sorride sempre calma e serena. È da quando mi ricordo, dal primo aprirsi della mia intelligenza e della mia memoria, che l’accolsi in visita nella mia casa: vi torna ogni settimana; e non mi pare invecchiata. Non ha rughe sul volto bello e classico, ma tutti i suoi capelli sono d’argento: sotto la tesa sobria e breve del suo cappello, che è sempre di moda e non muta mai, s’arricciolano come un merletto bianchissimo e la fanno, in contrasto, apparire meno vecchia che realmente sia.
Si chiama con un nome lungo, tutto italiano, pastoso e grave che non permette diminutivi: vi stende la mano forte, ma ben modellata, che conosce li umili lavori e le più sacre missioni. Sembra carezzarti, se ti guarda; e, se tu stai con lei a lungo, ti rassereni, riprendi gusto al vivere, contendi facilmente al male ed all’angoscia i tuoi diritti per la povera, ma pur reale felicità umana; respiri meglio e le cose d’ogni giorno, che ti vai acquistando, ti sembrano preziose.
Spesso si conduce seco tre bellissime giovani: quando entrano in casa, vi accendono il sole, fosse di notte. È tutta una gaiezza, un festa tenera e compresa del valore eccezionale che ha questa lieta espressione del dì e della gioia. Voi vi imparadisate. Ed a Lei, che confessa di essere la madre loro; — s’io volessi malignare ti direi ch’Ella non fu mai maritata, ma nessuno può assicurarmi ch’abbia avuto amanti o sia stata capricciosa in amore in gioventù; — ed a Lei ne chiedete una in nozze.
Si schermisce, cerca di persuadervi che non si può: che è necessario gustiate da loro la gioia, così colli occhi, con la vicinanza del loro profumo di salute e di bellezza; ma che non hanno sesso, — per fortuna. Sorride ed insiste: «Goditele come de’ bei quadri, delle belle statue, vive per stregherie; come de’ riflessi di specchio, usciti dal vetro e dalla cornice d’oro ad incontrarti. Sì, son vive, finché non le accosti e le tocchi... Ma, se osi... Come i desiderii: non si dovrebbero realizzare mai».
Tu, sul principio, non comprendi niente: se rifletti, la luce ti si fa meridiana nel cervello in un lampo. Umiliato, senti com’Ella abbia ragione. E però torna ogni settimana a visitarti, parlandoti delli avvenimenti del giorno e del passato, eruditissima di storia e del futuro, quasi fosse una strologatrice, colla stessa sicurezza colla quale sa la cronaca; e, quando vuol farti un regalo, si reca seco le tre figliuole.
Ora, se sforzo la memoria per richiamarmi il nome mi pare che questo si debba pronunciare: Pazienza!
La Speranza è squisita ed arguta giardiniera. Innaffia i suoi verzieri con infusi miracolosi, così che la terra lavorata e seminata in pochi giorni dà rose per il profumo e foreste per l’ombria.
Quindi vi passeggiammo spesso a primavera il dì dopo la seminagione: tutte le foglie a pena nate ho sentito raggricciate dal ribrezzo della brezza, sorprese, tremando. Vagivano come desiderii infanti alla vita, verdi anime in pena, verdi foglie.
Ma, nell’estate, — tre giorni dopo la semina — cortesemente le frasche giocavano col vento: adolescenti, vagellanti si svolgevano, dondolavano, capricci tentatori, o perversi.
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Poi, nell’autunno, dissero se stesse ricchezze d’oro e di porpora perché ne fingevano il colore; si protestarono generose perché facevan di loro spoglie tappeto ai nostri passi. Con entusiasmi regali e munificenti desiderarono morire, — cinque dì dopo la semina.
Giardini e foreste della nostra coscienza: mi avete mai ingannato? — Sempre; ma da voi turbato, non smarrii la lucidità del mio giudizio.
M’accorsi che l’infuso di virtù magico e precoce era d’arsenico, e che da giardiniera facevasi Ebe, la Speranza, mescendo ai calici del banchetto acqua tofana. Ma se odorai di quelle rose, mi dilettai dell’ombre di quelle piante, bevvi all’orlo di quella tazza, non ne morii.
Critico, più tosto, un verme dentro il mio cuore, rodevami le carni colla sua insistenza. Ogni suo morso di dente, una parola mia a commento:
«Per tutto quanto hai tu fatto in questi ultimi dì peripatetici, o viaggiatore curioso e distratto, per le tue voglie bizzarre e maligne ed irritabili, che hai ricavato? Tu hai fatto nulla, e, quello che è assai più prezioso, tutto hai omesso perché quelle tenerissime foglie di primavera non fossero così subito autunnate! Ma hai tradito te stesso. Dimmi ora: che vuoi: sai tu dirmi che vuoi? Che se anche me lo cercassi che avresti? Consòlati della tua ammirabile sciocchezza che non può insemprare la primavera, e non pensare ad altro. Non tralasciare di calpestar le foglie sotto i tuoi piedi, quelle che ingombrano la via e te la fanno smarrire, quelle che già viridissime vagivano come desiderii infanti alla vita, or saranno cinque giorni, sulle rame».
Ma sì, perché vivere di speranze nelli stenti? Dinanzi all’usciolo di casa tua, nel verziere tuo, sta una ricchissima pianta di pomi: le frutta acerbe, appena s’incoloriscono di giallo e roseo sul verde. Pensi: quando saranno mature! vagheggi sapore ed odore squisitissimi. Al punto di coglierle, la notte prima, un uragano dispettoso sradica l’albero, ne maciulla il frutto: nulla ti rimane. Oh, averle dispiccate prima!