Gian Pietro Lucini
Prose e canzoni amare

Poesia

La Commune

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La Commune16

 

 

Ho voluto provare la vita;

ho incontrato, Niniche, la mia coscienza che dorme nel vento;

ho voluto riavere un viso roseo non farinato;

ho voluto cambiare di casacca;

ho amato i cenci rossi in torno a me;

ho amato l’uomini senza un perché.

Le Maschere rassembrano alle Donne, non possono mutare,

non possono salire e sono passionali;

sono tutte nel sesso; si sperdon nelle nuvole

se credon d’arrivare in sino al cielo.

Ho paura, ho paura del buio dopo aver conosciuto la luce!

Oh palazzo di marmo, oh luna elettrica,

globo d’argento sospeso alla volta;

oh tende spesse di velluto nero, poi che non sgusci giorno,

tomba di vivi, miglior della morte!

E Niniche, predestinata al martirio, un’aureola

ti circonda la testa, un’aureola falsa d’Egiziaca,

una gloria alla pena scaturita da un semplice atto d’amore.

Erano i giorni dell’entusiasmo e della disperazione;

l’animo s’integrava a grandi cose:

un battagliero orgasmo incitava la mente.

Già il lievito fecondo e la semente

spingevan l’erbe nuove in faccia al sole,

già lagrime e dolori la pargoletta coscienza nostra

incitavan d’ardori e sacrificii:

io vidi le viole più turgide sorridere,

se una donna passava e le coglieva;

io vidi le fanciulle proclamarsi felici delli eroi giovanetti.

E rombava il cannone.

Azion di primavera! Erano i giorni sacri all’Epopea,

la mite melopea della Tempe clorotica taceva;

tutto il mondo attendeva. E rombava il cannone:

e vidi le bandiere verdi, a pace, di contro alla mitraglia

dei nemici fratelli sventolare: «Ah non colpite,

non correte a battaglia: vogliamo pane e amore».

E, per la lunga strada, quanti giacquero uccisi, quanti araldi di pace!

Parigi è in fiamme! Parigi abrucia sé con una istoria

d’infamie e di sciagure: Parigi all’olocausto si dona,

purificando, si castiga, e perdona.

Li Alemanni ridevan sulli spalti. Omiciattolo tigre

a cui trasuda sangue dal cranio fu che le coorti

mal suase e briache ci affocava, Menadi a questa carneficina

orrenda: oh Parigi pezzente e ribellata,

intinsero le picche scellerate nel ventre della Patria

e scrisser l’agonia sopra alle leggi colle oscene calunnie.

Parigi in fiamme cadde: e Satory s’inzuppa

del nostro umore e attende che la pioggia vermiglia

produca un altro fiore che non debba appassire.

E Cajenna, e la morte, e le fulve eroine, le galliche risorte,

e l’ultime parole di vendetta, d’amore, di speranza,

e di quanto vi avanza, vittime deprecate,

io, un Pierrot che non vi ha scordate.

No, no, la Pantomima è muta: e i ricordi son aspidi al cuore,

e il mio peccato è di vivere ancora.

Ecco perché la Luna è morta in cielo,

ecco perché Niniche dorme e si lagna,

e sogna forse; ecco perché una ragna

d’equivoco pensiero tesse un insetto velloso e severo

dentro al mio cranio e vaglia la parola;

ecco perché la scuola dell’esistenza proclama il bisogno

della morte o del sogno.

Al palazzo di marmo!





16 Da I Monologhi di Pierrot.



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