Gian Pietro Lucini
Prose e canzoni amare

Poesia

Per una vecchia Croce di ferro

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Per una vecchia Croce di ferro

 

 

Croce di ferro, in mezzo all’erba grigia,

riguarda alle minori croci putride;

Croce di ferro, intrico, Croce adoppiata,

sopra d’una sformata corona di rame e sopra di una targa funeraria,

orgoglio rusticano del cimitero esiguo.

 

Misere stan le fradicie crocette,

misero il patrimonio delli estinti:

una capella in fondo ostenta cinica un Purgatorio.

 

No, non sul muro l’affresco pretenzioso

alla innocente ignoranza dei poveri

porga le fiamme e porga un capzioso nudo di forme feminili e urlanti.

No, qui non regge tormento di purganti;

altre voci si chiaman nella valle.

 

O quieta conca verde, o indisturbato

tinnir delle campanule alli armenti;

sotto le frondi ingiallite alla nebbia

non sorgon visioni di supplizii:

tutto è una pace, tutto qui tace

nella profonda e stanca malinconia che manca,

come manca la notte.

Perché, al giorno sorriso di luce,

anche un raggio traluce

sulla gemina Croce inanellata d’una corona ingenua;

ed il sole schermeggia per le spade dell’erbe o si destreggia,

tenue ciarpa d’oro, sul lavoro

delle croci tarlate.

 

Sta, romitorio:

un umano offertorio di carezze

ti porgono le brezze

quando recano i canti vespertini dalla pendice.

Ecco, deliziosa, una felice

conciliata armonia di canti e nebbie.

Nebbie violette, o nebbie argentee,

vaporanti di sopra al castagneto;

qui, nel secreto delle forre, avidi

dei musi biondi di vacche a raccorre

il timo e le lavande.

 

Posa, sonno tra i muri materiato

o solenne riposo inconturbato;

color che stan dentro alla chiara argilla

hanno chiesto il perché della vita,

han voluto sapere di più

di quanto abbisognava per amare, per crescere e morire?

Egoisticamente, trapassarono nell’ora vitale, il pensiero

al cibo ed al bacio;

il severo opprimersi pel fato universale,

il ricercar la gioia ed il dolore per sapere che siano,

l’ingannare a se stessi per veder rifiorire il sorriso

sopra il diletto viso,

e l’ingannare altrui per rendersi l’eroi

d’una avventura munificente e inutile;

tutto questo rimase assai lontano,

assai ignoto e nulla; e come in vano

quest’occhi contadini riguardarono

alla bellezza d’una Venere nuova,

così, per sempre, e in vano, non ebber li spavaldi impeti dell’orgoglio.

 

Romitorio indolente e carezzoso:

l’ombra fredda è il riposo

a cui attendo e sta, Anima mia,

producendomi in torno codesta nostalgia

delle fradicie croci e della nebbia.

Ora, Croce di ferro, all’infantile

tuo vanto, una bandiera di scarlatto

svolge nobili pieghe di sciamito e nel vento ridesta un caldo e esile

cachinno di colori all’aria grigia.

 

Spesso, dalla terrazza, che t’hanno eretta in faccia, o Cimitero,

un abbaiar gavazza sulla tua molle brumosità;

ed una Cagna fulva, amata assai,

sparge in torno la sua ilarità.

E un’altra fine risata feminile s’accompagna,

e la bruna Signora alla terrazza

protende al capo aderto e leonino dell’animal la mano alla carezza

e dai grand’occhi chiari fugge le croci.

 

Spesso, dalla chitarra, nella notte, s’avvicendano a frotte

l’accordi, e, sulli arpeggi industriati,

incanta una ballata:

Luna sul Cimitero, Luna pallida,

nella Villa si pensa all’indomani;

nella Villa s’impreca ai Ciarlatani,

che tengono la piazza.

 

Luna piangente dietro i castagneti,

nella Villa si ama forse troppo

pel dolore dell’umili e l’angoscia

di chi troppo si scruta e da se stesso trae il critico verme

e dalla piaga il pruno avvelenato.

 

Luna errante ed instabile alle nuvole;

nella Villa un dolore si raffina

per non volere e voler troppo ancora;

e la fragile testa piccolina della Signora

è china e lagrimosa.

 

Luna d’incanto, sulla terra sacra

non risponde ai tuoi raggi una facella;

queste carcasse furono assai magre,

danno fuochi fatui.

 

Ma Luna irrequieta ai ministeri

delle stelle maligne e dei pensieri della torbida mente;

Luna, questa superbia alta e vermiglia

del gonfalone sopra alla terrazza

non vedi che assomiglia

all’anima entusiasta della Villa?

 

E, sul Cane che ascolta, ecco il Signore,

abbandonato lo strumento, tendere la mano,

le dita lunghe il vello intricando e arricciando,

distrattamente,

e coll’occhi lontani sognando;

o caccia lontana;

o lontana fantasima;

o l’occhi sognatori a seguir le fantasime impossibili!

Perché sa quanto e in vano

costrinse il suo capriccio alla ragione,

e quanto al sacrificio fu prigione,

senza gioia e senza amore,

spavaldo fior caduco,

pei rimpianti, alla inutile morte.

Silenziosamente la Signora lagrima e singhiozza

nella morbidità grigia dell’ora.

 

Sta, gemina Croce inanellata dalla ingenua corona;

bambinetta la Morte ci protende

dei gilii senza macchia e ci perdona

d’aver troppo indagato sulla Vita,

d’aver troppo preteso dalla Morte.

 

Croce massinma, esigua al Campo Santo;

quando t’hanno rizzata, hanno le porte della capanna chiuse per sempre,

e, sotto all’usciuolo, hanno riposto

per un ritorno che non venne mai la vecchia chiave.

Così, l’albero altiero che si vanta

della bandiera rossa

vedrà una breve fossa umida e bruna

e in vano attenderà sotto alla Luna

di pompeggiar nel pallio sanguinoso.

Croce di ferro, bene ed allora

ascolterai dei gemiti strazianti e le grida ed i pianti;

il Cane e la Signora

dispereran per questa vera cosa.


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