Gian Pietro Lucini
Prose e canzoni amare

Poesia

Istoria di Eva Biondina

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Istoria di Eva Biondina22

 

 

I

 

Il pianoforte di Biondina

si lamenta

 

Do, mi, fa, sol;

l’Augellin-bel-verde è un tristanzuol;

sol, fa, mi, do;

la Biondina si lagna

in cuffia rococò.

 

Re, mi, sol, la;

Biondina ha voce roca ed ha perduto,

a un primo bacio, la fresca ingenuità

del suo visino pallido;

sol, fa, re, mi;

l’Augellin-bel-verde, traditore, fuggì.

 

Or mai, senza speranza,

Biondina si dispera, piange senza perché;

sol, fa, mi, re;

(le trine ai manichini si sfìlacciano, ahimè!

la fiamma è troppo tenue per far bollire il the.)

 

Mi, re, fa, do;

stentato ritornello,

per quanto gema può suscitare il minore patetico?

«Volete?» «Oh no, mai più!»

(Un giojello è caduto dalla mano piccina;

di giorno la cucina sforma l’unghietta rosea;

di sera il the non bolle; divaga la Biondina).

 

Sciopera l’Ideale a Primavera

e non ascolta il saputo richiamo;

l’Augellin-bel-verde stende l’ali e remeggia lontano:

(ingrato, oh, sì! — il primo bacio suggellò le labra

come col fuoco e conturbò li occhi)

vola, svagato, perfido e prepotente

pei dorati castelli de’ vecchi ritornelli della leggenda:

vagola e si disperde, l’Augellin-bel-verde.

 

Sol, fa, mi, re;

il damo positivo è di da venire?

Le dita lusinghiere accarezzano in vano

le dentiere eburnee del cembalo?

«Dite, Biondina, insistere a sofrire perché?»

Fa, re, sol, mi.

«Biondina, sorridete: tornate a dire di sì.»

 

 

II

 

Letture di Eva Biondina

 

Oh, Signorina,

fragile compromesso d’isterismo,

riccioli, ciprie, battiste e trine, Eva bionda, Biondina,

riavvolta-discinta sulla chaise-longue,

stanca ed oppressa e vaneggiante:

la testa vi si inchina sul libro miniato

dai perfidi segni moderni e salaci,

sopra le pagine che vi fan vivere,

intensamente, un illustre peccato.

 

Oh, turbata Biondina,

qual estasi preziosa, quale fragranza deliziosa,

che si tramuta in sofrire,

leggere insieme e patire

e leggere sola e patire di più;

se tutti i sensi, se tutta l’anima

traboccan, s’arrestano ai pori,

si cristallizzano, percossi, frigidi,

vi imperlan di sudori!

Se vedete l’Imagine dalle torbide lettere

sorgere ed apparire, stamparsi sulle carte;

l’Imagine-Voi-Stessa,

supina sotto al bacio attossicato,

oh, quanto atroce e dolcissimo,

Succuba, di un amore inconsueto,

non ancora tentato.

 

Eva, storcetevi,

dentro la vampa interna e vorace:

il libro miniato è pur crudele ed esperto,

fragile compromesso d’isterismo, a suadervi il peccato,

ciprie, riccioli, cervello alla ventura:

così, vi assorba e vi consumi,

Voi, esalata in fiamme, gemebonda,

arsiccia ed umida,

come fanno le legna a poco, a poco,

converse in bragia corrusca e bionda, e presto in cenere.

III

 

Civetterie

 

Parlano: Il signor Adamo

ed Eva Biondina

 

«Buona sera, Biondina

«Buona sera, Signore

 

Via cittadina,

o sentiero campestre,

comunque, è un convegno che appresta la sera:

convegno biondo e anodino

assai sentimentale e molto astratto,

e, però, si riaccosti all’ospitale favola romantica,

se anche l’estetica indulge e consiglia

a foggiarsi una scena

tra l’oscura e serena illusione di un bosco.

Siamo in Città e pregiam le foreste

tra la morte e la nascita agreste

di molti fiori, di molte piante,

di molte speranze d’incerto sembiante.

Or, l’Interlocutori aman la poesia;

sfoggiano, al loro bisogno, recondita armonia;

confondono le lune chimiche edisoniane

colla luna che tarda a venir su,

dispensatrice delle sue virtù.

Se sorgerà, ci apparirà

falce slabrata volta a levante,

come è il costume di luna calante.

 

«Or voi amate uscire di sera, Biondina

 

«Sempre, Signore;

perché non lo farei?

Se il mio volto risplende

più della neve intatta

e mi rischiara i passi al camminare

 

«Luna voi siete?

Suscitate, o sperdete fantasime?

Ambra grigia, o cantaride, scusate

«Che fa? m’incanto alle stelle, vi pare

che non possa emularne la luce!

Se luna appajo, esse si ammutano

 

«Mi pare, Biondina, scusate

«Voi non l’ammettereste, Signore

«Se mi costringerete

«Speranze... desiderî

 

«Io vedo le speranze

a salir per la volta profonda e notturna:

sono fiammelle vagole e sbattono

come le ali d’una farfalla,

come il polso di un bimbo.

Salgono, salgono: si fanno strascici,

code corrusche, multicolori,

serpeggiano e lingueggian per il cielo;

si svolgono e scansan le stelle;

a volte, fumigan e s’intristiscono:

ma sempre camminano in su,

ritornano mai donde partirono.

Ci rubano dal cuore la certezza sognata

di una vita migliore, confortata

da un affetto sicuro, guardingo, sereno: ...

o voi, Biondina,... perché farmi parlare

 

«Sono vaghe e pur sacre speranze;

possono ritornare in sulla terra.

Ecco, le mie speranze, co’ miei desideri,

pigolan come uccelli tra le viti di Maggio,

stanno tra i fiori, si ingemman di colori,

amano la campagna,

il sole, la rugiada,

ed i bei dami senza conseguenza,

amano i gilii che adornan di ricami

la culla al neo-nato, s’egli dorme e sorride

 

«Desiderate, dunque!»

 

«Come la luna desidera!

Diffondermi nel ciel placidamente:

ella intende abbracciarsi col sole;

ma son vaghe e pur pazze speranze,

brevi speranze d’amore,

salir, protendendosi al giorno,

per la notte che incombe

 

«Decisamente, romantica in tutto!»

 

«Casalinga romantica, Signore:

il mio sole è comune, ma lucido:

dorata fiamma di petrolio mite

rigovernata ed inodora, ritta in mezzo alla tavola,

tra il vasellame polito, i nitidi argenti borghesi,

il fumo odoroso e cortese

del pranzo famigliare.

Amo l’atavica cena,

soffusa di tenera gioja,

condita dalle spezie obbligatorie,

ravvivata da baci e da malinconie.

Amo il pudico déshabillé

da cui tralucano le nudità,

tra le battiste e i merletti economici,

festino accomandato e maritale per la squisita intimità.

Io mi sento odorare

più di un canestro di fiori:

mi struggo dentro a li avari pudori

delle vesti assai troppo accollate

 

«Oh, Biondina, scusate,

non vi chiedo di più...

Vi par caritatevole offerire,

a chi non la può prendere, e si accende

di sete arroventata, una coppa di latte ghiacciato?

Oh, crudele Biondina, sorvolate

 

«A voi, caro Signore,

fare un passo di più.

La colomba precede il colombo

sulla rama più eccelsa;

tuba, cullata alla brezza,

circondata d’azzurro e di foresta;

tuba a richiamo... onesta...

Il vel mi si scompone in sul corsetto;

non avreste uno spillo da prestarmi

 

«Ho inteso bene, cara?

Una stella è caduta ai vostri piedi

forse non bene aggemminata al diaspro

della volta celeste, o pur travolta all’aspro bisogno della terra?

Le stelle, in cortesia, vi vengono a inchinare;

ma il desiderio instabile si spegne,

prima che si depositi sui vostri piedi?

Biondina, non volete lasciarvi vedere,

ma vi è piacere che vi tocchi il collo

per raggiustarvi il fisciù?

Gretchen perfezionata,

Mefistofele canta, oggi, per voi, sostituito a Faust;

ed il bel fior cresciuto all’idealismo

sa prestarsi al richiamo,

se alletta sospettosa ape a scovarlo,

immancabile sposa, nel pungitopo matrimoniale

 

«Mi giudicate male.

Si crederebbe ch’io vi rincorra.

Se Gretchen sono, filo sedentaria

oro biondo di canapa nostrana,

lungo come le treccie che mi pesano al capo.

Assento al frullo del fuso e consento,

col tintinnire delle catenelle,

se argentee trillano e riscintillano nel movimento

gocciole di cinilia inanellate;

come confesso al battere del cuore

e attesto a voi che ho li occhi ceruli.

So preparar la zuppa coi cavoli dell’orto di famiglia,

dell’orto solatio e incipressato lungo il pendio del colle,

far pasticcini per i bambini e rosolarli al forno,

ripieni di composte d’albicocche fatte in casa;

industriare una medicazione,

suonare il piano, scialbare un acquarello;

so, col mio dolce, ch’è una promessa,

spalmare il mattarello della massaja,

perché non paja troppo il suo imperio.

Se ho rivelato al cuor vostro uno sdruscio,

perché, amico Signore,

con tutta ingenuità non rattopparlo

 

«Opportuna figura, se questa topica risoluzione,

come fa, s’interpone alla continuità,

e se ne duol natura che l’abborre:

ma è in me, o in voi, Biondina

 

«Per oggi non rispondo ai calembours;

senza amarezza, vi pare, Signore

 

«Già, la strada è più facile qui,

il mio sostegno più non vi giova;

è meglio rischiarata, è più frequente,

scivola in giù spianata,

verso la valle e lascia la montagna,

abbandona il sobborgo per le piazze corrusche di bacheche.

Quante tentazioni esposte in mostra!

Io vi ammiro, Biondina, che sapete

irrigidirvi, non cedere, impedire

alla golosità normale e feminile,

e superate con brivido più acuto

all’occhieggiare di tante ricchezze.

Ecco il pomo del Serpe, Eva-Biondina

 

«Non vi comprendo più, caro Signore.

Vi duole forse d’avere con me

sprecata questa sera

 

«Che dite mai! È troppo presto!»

«Tardi? presto? Perché?»

 

«La pescatrice affonda l’esca

se pur la pesca non le sorrida:

ma tempo migliore si schiara

subito dopo un fortunale. Ella, pescando, impara

 

«Cattivo. Io non intrico

reti astruse e sottili.

Filosofeggio per categoria, sopra il bene ed il male

 

«Il mio cammino si svolge da questo crocicchio

«Ci rivedremo

«Sicuramente. — Quante stelle, Biondina

 

«C’incontreremo, caro Signore;

ricorderemo; ...il fisciù mi si spunta di nuovo.

Che peccato, Signore, che voi siate svoltato

 

«Domani sera, volete, Biondina

 

«Ecco la Luna è ascesa in sulle nuvole;

ondeggia in cielo nella bordata

come una nave che ben armata

veleggi a diporto sul mare.

La raggiunge il mio sguardo a disturbarla;

le confida il mio cuore.

O, voi, già lontano Signore,

v’insegue e vi ferma per via,

vi regala insistente il mio pensiero,

il migliore profumo che acconsente

di un mio... bacio pudico, lontano Signore...!»

 

«Decisamente romantica in tutto.

Certamente, a domani, Biondina

 

Via cittadina,

o sentiero campestre,

comunque, è un convegno che appresta la sera;

s’avvicendan palestre foriere

di lotte gaje matrimoniali.

Ecco la luna è sorta

sopra ai comignoli, e sopra ai tetti;

è una falce sottile tra due corna,

— due denti di fumajuolo?

due cime d’alberelle? —

è qualche cosa come un Giorno di Nozze.

Ambra rosea s’accende, sull’ultimo lembo ricurvo,

come una gemma enorme di passione;

fresco rubino stilla da un orecchino

al lobo oscuro della bruna Notte:

poi vacilla, si scema, scompare:

e bavosa una nube di pece si oppone;

furiosa l’aggredisce,

l’arresta, l’azzanna, l’inghiotte

dentro le fauci avare.

 

IV

 

Rondini

 

Per ripolir la casina

rimasta chiusa moltanni,

— quattro finestre e un balconcino

rivolti al sole,

come boccucce brune di viole,

inghirlandate di vite, —

per preparare il nido alli Sposi

hanno distrutto i nidi alle Rondini.

 

Vennero e foraggiarono,

lustrando nei contorni,

sulla facciata bianca e ridipinta

— oh, come linda e civettuola,

tra i pampini sfoggiati e rinverditi! —

non trovaron le Rondini i nidi:

troveranno li Sposi

la camera nuziale della nonna,

le gialle ghirlande dell’impero

sopra il parato di crétonne-ponceau,

il copripiedi di seta cangiante

tagliato dalla gonna della prozia elegante,

che vide i balli del Beauharnais;

vi troveranno il talamo

fresco, ampio, rimboccato,

pei baci e per la prole

con una venerabile e tarlata culla a lato,

tarsia sfoggiata del Maggiolino.

 

Le Rondini passarono chiamandosi,

fosco lamento alato:

pigolii per il cielo intenerito; —

profumi per l’erbe smaltate: —

poi si raccolsero a stuolo

sopra il comignolo fuligginoso.

Avevan ritrovato le mura disfatte,

tra le palme dell’oasi, e, ad aspettarle intatte,

le nicchie polverose che guardano i nidi.

Avevan ritrovato camelli e santoni sul margine

delle sabbie infuocate ed infeconde.

 

Si erano riposate sulla cuba moresca e vetusta,

tra le pietre sconnesse,

dove avevan posato pei secoli

le defunte covate progenitrici;

a riudir al silenzio meridiano,

chiamare il muezzin la preghiera.

Trascorrevano in file, lontane,

avvolte nei cacik le carovane;

cavalcate ondeggiavano d’arabi

al volo dei bianchi bornus,

al lampo damascato di lunghe carabine.

Trovarono la Sfinge

più dell’altr’anno sfaldata,

severa, in cipiglio, ed annojata;

la Piramide bionda diroccata:

touristes d’ogni paese

mascherati all’inglese,

bourricos, asinari,

vegliardi, fellahs,

dinastia incretinita discesa dai Faraoni;

dei pastori anglicani;

la miss col velo azzurro:

il cielo in un susurro indefinito

di piccole vite comprese e sciorinate;

sapidi moscherini del fango del Nilo,

per l’inesausta prodigalità

del delta straripato.

Rinnovaron le congreghe alla sera,

alla luna rotonda,

sotto la cupola slabrata e tonda della moschea;

riabitar nei nidi della loro famiglia,

grigi e rappresi di densa fanghiglia ovattata,

e, nell’eterna indolenza orientale,

librarono di nuovo volanti libertà.

 

Oggi, nell’altra patria europea,

non trovan più i nidi sospesi,

tra trave e trave, sotto la gronda,

ma nuove pitture ed il sito

delle recenti verniciature.

Non più il silenzio augusto della valle,

nel sonno verde delle piante antiche.

Il giardinetto è rimondato

dalle gramigne tenaci e parassite;

la ghiaia è lucida;

s’adagiano i rosai sopra ai sostegni;

han seminato legumi e violaciocche

l’acqua ha ridato l’anima liquida alla fontana

che s’era inaridita;

han restaurato il gallo rosso e verde alla meridiana

in mezzo ai segni gialli dello zodiaco; —

la vecchia Colomba rialza la persiana

della sala da pranzo e guarda affaccendata sulla via.

 

Rondini, li Uomini, se fanno il nido,

distruggono il nido alli uccelli;

saccheggian la natura per la famiglia futura

in questa società meticolosa;

l’oriente vi riserba molle e barbaro

casa e pastura; l’igiene qui vi abborre,

sparge disinfettanti a prevenzione,

estirpa dalla vita, illogicamente,

ogni putrefazione.

 

Oggi, a covar la vita di un bambolo europeo,

pelurie di cigni, battiste aracnidi,

carne d’alberi annosi, polpe di frutti,

cristalli di miniere, tutto il verziere in fiore,

spoglie e messe del mare e del campo;

delicatezze, svenimenti e feste,

cerimonie e intervento della burocrazia;

lavoro e sudore del padre,

un grido disperato, lagrime e sangue di madre.

 

Attende li ospiti la bianca casina;

fuga quindi le Rondini.

La vecchia Colomba, in cucina,

attizza vampe nel vespero:

riflettonsi, nel rame delle pentole,

alacri fiamme alla cena.

Il girarrosto ad orologeria

scocca i minuti dell’ora culinaria,

tra l’odor delle spezie svampate dal dispensino,

rosola, in sulle brace, il paffuto cappone,

batte col cuor della vecchia Colomba,

si specchia nel lucido ottone

dei candelieri incisi di una greca,

ripete il suo lento torneo

nel luminello della casseruola a bugne del pasticcio;

frigge e schioppetta,

imbalsama di salvia rosolata

fragranze al ben venuto della Sposa aspettata.

 

Quindi, la sonagliera scroscia sull’erta,

ne segna, a pause, le svolte e le ansanti salite;

sgrana il suo tintinnio d’argento e di cristallo,

dentro la polvere, sopra le ramore

basse e fruscianti nel ballo

della brezza leggera che corre al tramonto.

 

La corriera che rotola e romba,

coi vetri che fremono,

massiccia e sgangherata centenaria,

con le tre buone rozze,

spelate, soffianti, a guidaleschi,

s’arresta alla porta.

Precipita lesta,

dalla portiera sconnessa e spalancata,

batuffolo vivo di riccioli biondi,

di moire clair-de-lune,

con mille veli, con lungo strascico,

la nuova Signora:

traversa la via, imbuca l’androne,

cometa che guizza, dal folto, a un burrone

di nuvole a nuvole in cielo;

la segue il Signore commosso e sudato.

 

«Buon giorno, Colomba

mormora la vocina

tumida di sorrisi e di malinconia.

Colomba si schiva impacciata alle soglie:

«Buon , Signoria

Sfoggia la riverenza dismodata

e s’inchina e l’accoglie.

 

Sventola allegra una bandiera di fumo

dorata ciarpa di fata,

dall’antico comignolo ringiovanito;

si svolge, lentamente, nell’aria pura e serena,

a fugare, coll’ultimo raggio di sole,

speranze di Rondini in pena:

«Via, dalla ringhiera del curvo balconcino,

pettegole, ciarliere, irrequiete e troppo mattiniere:

alla mattina conviene lasciar riposare li Sposi

 

Ora cala la sera;

e va sospesa col fumo una prescienza oscura.

Il bacio scocca la rivelazione?

Stride la Rondine in cerca del nido

angosciata e sorpresa:

e col pianto e col riso

s’autentica d’amore la Natura.

 

V

 

Sera di Nozze.

 

Parlano: Il Signor Adamo,

quel Signore commosso e sudato,

e: Eva Biondina.

Ma non si comprendono.

 

Il Vespero ha indugiato.

Le Rondini, argute Sartine,

han sforbiciato, volando,

colle cesoje dell’ali nere

dentro le sete azzurre e porporine,

gonnelle e falpalà per ricoprire le nudità,

troppo evidenti del Cielo.

— Quel tondo balconcino si protende,

come desiderando, all’infinito:

inghirlandato di vite passo alle belle fiorenti

rose in vestaglie orientali affacciate,

con trine verdi alle sottane,

con variopinti ventagli sfarfallanti

in un profumo muschiato crepuscolare,

e rosse e gialle e chiare.

— Viene sospesa la voce lontana nell’aria

rauca e dolce di un campanile:

si anima un casolare sull’opposta pendice

con due fiammelle pallide:

l’azzurro peregrino s’abbioscia dietro i colli:

tornan le Rondini sopra al comignolo:

la casina si ammuta, si spegne il focolare.

— Vengon li Sposi a tentare

reciproche confidenze permalose

tra i viticci, le grappe di fresco fiorite,

le magnifiche rose voluttuose. —

 

«Siedimi presso e ascolta;...»

«Lasciami un’ora ancora,

libera e tutta mia e solitaria e pura

per amar l’infinito insospettato:

poi tu mi impiagherai colla tua volontà;

lasciami amare il sogno sopra la realtà

 

«Siedimi presso e ascolta;

quanto incomincia da questa sera

ti è sconosciuto, ti si rivela

tragico e oscuro, ma è una sincera

corrispondenza di cui t’assicuro

 

«Questa è l’ultima volta

questa è l’ultima sera

ch’io dispongo per me?

Questo è pur l’ultimo istante

in cui mi possa odorare fresca, intatta e difesa,

come un fiore si odora alla brezza,

se ritorna impregnata di polline

a sfiorarlo di un’altra carezza?

Fragile e inconscia feminilità,

starò per sempre aggiogata al trionfo

della fredda ragione positiva,

come la Vergine bionda e passiva

 

«Ora ti vestirai del mio spirito ardente.

Tu ti raddoppierai armata e corazzata in contro all’avvenire.

La legge di natura comanda il sacrificio rituale

della vittima prona sull’ara del talamo:

l’estetica d’amore si compiace e prepara

messa cruenta alla verginità;

se spicco un fiore novello dal cespo

la ferita ne autentica l’ingenuità.

Sempre una croce rossa sul labaro accampa

ogni e qualunque salvazione;

e sulle arrese tristi della vita,

dal cuor della sconfitta, trombetta una vittoria

e la bocca commossa che piange

anche osanna, tra le angoscie, alla gloria.

Son li innocenti che espiano

tutti i dolori del mondo.

E tu sarai colei che mi redime

col martirio d’amore dalle scorie melmose del passato

 

«Tanta potenza di carità

tu mi richiedi, tu vuoi ch’io sparga

senza conoscerti, senza saperti?

Ti ho scorto un poco a balenare

come una stella inquieta;

ti ho rilevato strano ed ambiguo,

dentro le cifre solite delle attenzioni convenzionali,

dentro l’intrico dello zodiaco matrimoniale.

Mi hai tu guardata nelli occhi a fondo?

So certamente il colore io de’ tuoi?»

 

«Eccoti tutte e due le mie mani.

Ho molta esperienza;

diffido della scienza che si impara sui libri.

Ho ceduto all’inganno e al capriccio

dell’ora morbida che ci affattura,

e vi cederò ancora.

Passò l’aurora di lucide porpore

squillando fanfare ambiziose,

e mi ha ingannato; ripasserà ancora.

Sfumarono i crepuscoli violacei

in altre sere, come queste tenere,

teneramente verdi e costellate;

ed ho creduto ad altre strane verginità;

ho pianto e ho amato, e mi hanno ingannato,

come sempre, così.

Ora vorrei tutto scordare;

vorrei tornare a credere come un bimbo innocente alla tua beltà

 

«Amico, non è tutto.

Qualche cosa ti turba ed insiste

in fondo al tuo cuore; rivela,

se vuoi ch’io venga a te,

senza li stimoli di morbidi perché.

Racconta alla tua sposa

l’acre inganno del mondo che persiste

nel rauco della voce, nell’ironia d’uno sguardo,

nel goffo salutare, nel ricusare la mano,

nel sorriso accennato a fìor di labra,

nella tua reticenza, nella tua cortesia

che mal s’affida alla mia;

amico, non è tutto; numera alla tua sposa

le cicatrici, le ferite che sanguinano ancora,

rischiarale la via precedendo

nel pugno la lanterna generosa della tua probità.

Io sono, vedi, la rugiadosa pervinca senza nome;

incomincio da qui la peregrinazione,

se tu mi condurrai, amico ricco d’istoria,

a visitare le anime delli uomini e delle cose

 

(Che dice l’ambiguo sorriso,

che imperla le parole,

se svolge Biondina la trama

dell’avventure subdole?

A che le reti capziose,

che tesson le labra e le cilia,

se ridono denti di perle,

se sgusciano sguardi a promessa,

se il lampo del sorriso

rischiara e invermiglia la bocca,

riaccende dalle palpebre

l’oro di un desiderio?)

 

«Oh, il resto! dei sogni sfumati.

Il sogno è quanto occorra per vivere la vita

con minor odio, con maggior piacere:

è sogno il velo che copre ed espone

alla ribalta della passione

il corpo di Venere ignudo e costumato,

fasciandogli d’azzurro le macchie villose e salaci

che vi suggella l’animalità.

Di sotto ai veli strologai Venere:

l’ho scambiata per stella intermittente,

un Gran Mogol disposto in sullo scrigno

del cielo spalancato ad ogni cupidigia:

e la volli strappare di su

per cucirla alli stracci mascherati di una vecchia Bohême,

tra i seni flosci di Mimi Pinson:

ma vi punsi le dita e mi abruciai.

Pericoloso acrobatismo, temeraria ginnastica di lirica;

si ricusaron l’ali al vento critico della modernità.

Onde scopersi, in serie, dalla ufficiale cosmogonia

assegnati ai divani de’ salotti per bene,

li spunti regolari della palinodia,

del dolce viver borghese in pose oneste,

giovanette indecise e promettenti,

per essere allevate alla parata matrimoniale;

finsi d’accontentarmi;

per sopperire al vuoto delle vane blandizie,

rifeci un paesaggio in casa mia

all’ultime baccanti;

e mi son persuaso che tutto s’assomiglia;

e ritornai tra voi, dove ben si sbadiglia,

mascherando la noja colla mano,

per riverir l’industre ciarlatano della opinione pubblica...

Cara, sognai la realtà;

son ritornato in porto

 

«Dopo tanto viaggio rinfrancare il coraggio

per un’altra e più lunga navigazione?

Questo il ritorno e la partenza questa,

nello stesso momento, in questa sera?

Amico, a me, che hai tu lasciato

 

«Cara, il piacere d’avermi per interprete;

traduco i geroglifici del sogno nella lingua comune

 

«Ahimè, sognare... dimenticarmi

di quest’ora terrena che scocca,

che mi comanda e mi rimbrotta

il mio dovere e mi costringe baci sulla bocca.

Le tue mani mi abruciano le mie;

lasciale libere esposte alla notte

 

«Guardami sempre, affidati.

Mi suggeriscono le tue pupille;

non chiudere delli occhi i rosei calici;

accogli le metafore e non prendere freddo.

La sera è umida

 

«Vorrei riabbracciar tutto il Cielo

in questa immensa serenità di stelle

e gelare con quelle;

vorrei passeggiare i ghiacciai

della celeste Esperide selvaggia

 

«Vorrei portarti con me

d’estate a Saint-Moritz, d’inverno in Riviera;

vorrei potermi con te affidare

al ventre imbottito e lucente

dei bianchi paquebots della Navigazione Generale;

vorrei fare crociere sul mare

in lussuoso yacht privato e snello

per l’isole di Xeres,

pei palmizî d’Algeri, per le vigne di Malaga,

libero come l’aria, ciarliero come un fringuello

 

«La Terra è assai lontana;

il Cielo è più vicino!»

 

«Cara, ti pare?

Bada, la camicietta traforata

regge assai poco all’umido;

la rugiada è insidiosa;

copriti, cara, ti raffredderai.

Del resto, dentro al lessico fornito dalla mia erudizione

ripescherò i miraggi delle antiche favole,

li servirò al dessert.

Non dubitare, trarrò profitto dalla letteratura

perché tu possa dimenticare

la cotidiana banalità della borghese risciacquatura

 

«Ecco, piovono stelle

«Piovono baci ancora!»

«Lasciami amar le stelle

«E allo sposo acconsenti

 

«Se la tua bocca mente

il dolce supplicar delle pupille

 

«Prenderai freddo, cara

 

«Lasciami ancora un’ora

libera e tutta pura

silenziosa e mia per amar l’infinito

 

«Ma domani sarai e più casta e più pura

«Che è mai la castità

«Non essere bugiarda

«Che la sincerità

 

«Oh, la sincerità

è l’ultima nozione che s’impara

alla scuola di vita,

l’ultima furberia e la maggiore

dell’uomo pratico:

dovrebbessere, pare, la dote più preziosa

della sposa amorosa:

è l’ultima parola vittoriosa

che riscatta il peccato e l’adulterio,...

quella che invano ti ha fatto imparare la madre...»

 

«Oggi, nel delle Nozze

strologare nel bujo avvenire?...

Accendi i lumi: le stelle impallidiscono:

hai ragione son troppo scoperta

per offerirmi al Cielo come amante.

Il suo bacio gelato mi estenua

 

«Or siam tornati in porto.

Rammenti le promesse?

La zuppa di cavoli freschi,

verdi, teneri, bianchi,

arricciolati e crespi

come una gorgerina abbaziale

d’ampie foglie insaldate ed incannettate

come enormi collari spagnoleschi,

economici cavoli dell’orto famigliare?

I pasticcini che si indorano al forno,

farciti d’albicocche; e il suggestivo déshabillé

di merletti e battiste a buon prezzo,

tenero aperitivo dalla cena al talamo,

alla lussuria permessa,

protocollati pretesti e perché?

Termineremo col conoscerci a fondo:

saprai tutta la casa del marito,

le sue migliori abitudini,

lo zigaro e il tabacco preferito,

il vino che desidera,

l’arrosto che gusta di più.

Egli ti parlerà di Budda e di Cagliostro senza distinzione;

cuoceranno al tegame i maccheroni,

e, mentre scalcherà una pernice,

scanderà in versi d’oro le virtù dell’Araba Fenice

 

«Per tanto poco lasciare la notte!

Domani un’ora ancora libera e tutta mia

per amar l’infinito e l’impossibile

 

«Rifacciamoci semplici

di un egoismo roseo di fanciulla!

Vieni, ci immolla la rugiada, cara:

il cielo, le stelle, la luna

sciupate finzioni retoriche!

Colomba, ora ci ha acceso la lampada;

turgida, dentro il globo d’alabastro,

consentirà benigna a’ tuoi pudori.

Biondina, rientriamo;

di sera è nocivo l’olezzo dei fiori

 

Sono in fatti tornate persuase

a riposar sopra al comignolo

le Rondini tenaci all’abitudine:

nel cavo delle tegole comincieranno domani i nidi.

Tacciono e sognano covate prolifiche.

Il gelsomino di notte sviene per l’eccessivo profumo.

Le fogliole più tenere, glauche sensitive,

si raggricciano pavide alla brezza.

Rabbrividisce la nuca di Biondina

sotto ai riccioli biondi elettrizzati

alla più lunga e più intensa carezza.





22 Da La solita canzone del Melibeo.



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