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Quelle injure?
Celle même qu’il souffre de sa propre créature
Il y a eu, un jour, une pauvre petite fête, dans
Ma il capriccioso autocrate si desta
e intorno volge la torva sembianza:
Madre, di troppo il tuo fremito avanza
il mio, che in faccia agli uomini s’arresta.
Ora che fa l’anima nostra, Donati? Combatte, spera, ma sofre. Triste virtù che ci dona la doppia e squisita sensazione delle cose e che, col lavoro continuo e quasi indipendente del cervello, ci fa scoprire nelle poche e gradite sensazioni un qualche cosa di morbido e di fuggevole che ne impaura. La tua anima poi insofferente alcune volte delle lotte diuturne e la raffinata tua coscienza (opera tua), che tende verso un’aurora indiscussa di tranquillità, come si possono comportare nelli attriti cotidiani, nella perdita giornaliera di speranze e nelle incalzanti disillusioni che ne circondano? Altre volte, io ho invocato sopra di te il sogno dall’ali azzurre ed opalizzate per fuggire con lui nel campo del futuro, dimentico di tutto; e voleva che ti venisse d’intorno coi sorrisi del poema d’amore, colla felicità che la terra di Brocelianda racchiude. Ma se tu comprendevi la magica potenza del migrare lontano dalle regioni ostili e fremevi di raggiungerle, perché ti arrestavi sospettoso e sentivi, non al tutto assorto, i gridi bassi e rochi della folla dentro alla palude? Oh, la tranquillità verso cui s’ispirano le tue rime è pur sempre un sogno ed il più squisito; ma temi forse di abusare di questo ideal liquore della dimenticanza allora che ritempra le fibre e fa credere all’uomo?
Anche in ogni grado che noi sorpassiamo, ascendendo all’incondizionata se pure oscura meta, ritroviamo nuove e maggiori asperità che pungono la nostra squisitezza: l’Ataraxia, il beato sdraiarsi in una serie di opportuni e facili godimenti, non è forse un infecondo egoismo od una tristizia, che si compiace dell’acclamante soferenza universale, un delitto che noi non possiamo di proposito avvicinare né sopportare? E così si vuole l’una cosa, mentre l’altra si abborre? Motivi dubbi e squilibrati. Ecco la terra un giardino, ecco l’uomo una creatura eletta, che sappia per dove vada, gustando le ricchezze che l’ora ed il luogo gli apparecchiano: ma nell’aspetto di coloro che ci stanno vicini, nelle brume che ci nascondono il raggiare dell’intime coscienze, nelli occhi pigri o feroci, nella natura stessa restia a concedere il bene dell’oggi per il meglio del domani, ecco fame di lupi insaziati ed ingordigie già gonfie di carni e d’oro; ed i pezzenti, là, in fondo ad ululare, a spingere, a proclamare la loro ragion d’essere, come una muta alla caccia e presta a mordere. Ci dobbiamo ricredere? Noi potremo forse dirci come William Morris nell’Earthly Paradise: «Sognatore di sogni nato lungi dal tempo della mia dilezione, perché mi sforzerò di raddrizzare quanto pencola e volge? Basta che il murmure del mio verso batta d’un’ala leggera contro la porta d’avorio, raccontando una fiaba che non sia importuna a coloro che vivono nei paesi del sogno, se pur cullati dal cantore di un giorno inerte».
O che dobbiamo frenarci dentro la nostra ispirazione? Non spereremo più? Perderemo la stessa fede in noi come già ci siamo rassegnati a non credere ad alcuno di coloro che ci avvicinano? Non siamo noi uomini? A che combattere? Quante chimere si svolgono allettatrici e pure insaziate della nostra fine? Ed il loro aspetto, alla prima veduta, non ci si presentò incuorante, pieno di cortesi e facili misteri? Ma ci accontentiamo del presente? O sacrificheremo alla sola idea come discepoli di Platone? Ecco adunque che ogni forma nel mondo è un modo del nostro pensiero, che solo questo avrà legge e diritto e gli soggetteremo qualunque parvenza di cosa sostanziale. Ipseismo fantastico e morboso. A meno che l’annihilizzazione di tutto se stesso si sia completata felicemente e che li occhi non riguardino che alle nubi e che le mani, scatenate, credano di posarsi sopra ad ogni cosa come sopra a degli arbusti fioriti. Quesiti enormi.
L’anima emotiva e passionale dell’artista divaga senza una libera e franca uscita: vi si raggira, vi si perde: ultima fiaccola, ultimo faro, avvisando tra le tenebre, un riflesso debole dell’individual perché rispecchiato quasi in quella tersa vacuità del mistero. Pallidi, noi saremo esagitati come corde d’arpa nell’incombenza dell’uragano e risuoneremo di lamenti nostri, sintesi del lamentarsi universale come passi l’impeto della bufera sullo istrumento: la facoltà di fremere e di presentire ha solo prevalso in noi? E questo chiedere speranza alla luce non ci fa buio attorno? Ecuba sulle stragi eroiche, clamando a nuove pire ed a nuovi tumuli nell’aspre battaglie della vita, lo spirito poetico vaticina nuove sconfitte. E tutto il resto? L’anima si ripiega sopra se stessa, dubita dalla genialità all’amore.
Pessimismo, stanchezza del pensiero, ciò a cui Goncourt diede la triste formola: «Religion de la souffrance humaine», così che l’eccesso si produce in modo da accerchiare, dentro ferrei impedimenti, la funzione stessa dell’umanità. Chi vorrà illudersi ancora, dato che questo sia il solo vero, questo penare? escluso dalla speranza e riguardando l’oriente non dorato di aurore confortatrici, ma coperto di dense e livide nubi, preste nell’imminenza dell’uragano, converrà sopprimere la parte più squisita della materia, il cervello, in una crepuscolare e divinata religione di sconforto. Ritorniamo al mistero primordiale, poiché tutta la vita è un succedersi di enigma e delle invisibili forze ci trascinano senza scopo o per iscopi reconditi dove non vorremmo andare.
E tra fumi di aroma chiesastico un Nirvana sorge dalle grandi profondità mistiche od un’imagine eterea foggiandoci dei palazzi d’Acrasia, così che ripetesi, non chiamato, il sogno tra la voluttà e la superstizione:
a’ piè del Crocifisso e prego anch’io
devotamente, poi che un velo arcano
stende l’oblio sulle sofferte pene,
e mi fascia, e guarisce ogni ferita.
E ancor sospiro: Oh languide effusioni
dei sensi, oh ebbrezze maliose e folli
del piacere, onde scordasi la vita
in un sogno fantastico, ove i suoni
più grati e le soavità più molli
carezzano con ala indefinita
le voluttà dell’anima smarrita...
Perché, Donati, tu scaccerai l’idealità e la speranza dalla tua casa per ogni porta e per ogni finestra, ma non potrai fugarla da te.
Ed il Poeta riflette: Saggezza forse esiste nell’accontentarsi della miseria e da questa trarre il perché del vivere. Quale la pretensione di voler essere felice?
«Chi è dunque, mi domandai, colui che ti ha fatto dalla prima gioventù lamentare ed arrovellare e tormentare?
«Non per la parola: tu non sei felice? E perché questa mia persona, questo mio bel Signore, non è forse a sufficienza onorato, regalato, ben vestito, richiesto dovunque ad encomio? Sciocco! Quale atto di legislatore ti impone di essere felice?»24 Ma l’equilibrio dove trovare per questa concessione fatta alli altri ed a te stesso? Dove la conciliazione tra le nostre pene e le nostre gioie? o dovremo adattarsi ancora (una abdicazione?) ai due Demones, a quello religioso o a quello della voluttà? Quindi Pascal sorride: «Qui veut faire l’ange fait la bête». In quale Demonico consisteremo?
In quello che circonfondeva il capo di letizia e di vigore alli eroi greci, nell’Insufflatore di Socrate, o nel genio latino della Gens? o nel Demonico Mephistopheles? Cui lo stesso Goethe trovò una negazione e quindi un ostacolo, non un aiuto, poi che quello si oppone e combatte alle idealità. «Il Demonico si manifesta invece», egli diceva nelle sue Conversazioni, «per mezzo di un’energia affatto positiva se bene questa non appaia alla intelligenza ed alla nostra ragione»25. Ed allora crediamo a delle spiritualità, fors’anche a delle forze che non hanno aspetto conosciuto per noi, che stanno fuori di noi, ma che ci dirigono. Occultismo?
Una nuova religione, una idealità che baci pazzamente un assurdo: «Ma quando si giunge a perscrutare nel fondo di tutte le cose e quindi a frugare tra i disvelati misteri dell’essenza, sovente si ritrova tutt’altra cosa di quanto ci si aspettava»26. E pure lo Spirito per eccellenza non è l’Uomo? E Cristo non fece per il primo raggiare quest’immensa verità? La fantasima ha preso corpo e l’atto umano, se abbia pure assunto dall’origine, questa triste virtù di fabricare nel vento palazzi di nebbia, non per ciò cessa di affaticarsi, di spingere, di rinnovare, perché la natura vuol muoversi, muovere, incitare, raggiungere una consistenza per materiare l’opera desiderata. Ora, Donati, se la Scienza e la Fede, partite da oppositi principi, giungono antagoniste a baciarsi in questa meta relativa, ciascuna d’esse ammettendo o il Mistero o l’Inconoscibile, dobbiamo noi credere inutile ogni nostro tentativo a salire?
I figli nostri ricevono da noi dei diritti, non dei doveri; pretendono una culla migliore, dell’aria più sana, dei fiori più lucenti. Non io indulgo alle parvenze che suscita il dogma religioso; e se Cristo appare a me una personificazione di divinità, è per questo a punto che si incarna in tutto l’uomo; se Fede ho accolto fermamente, non fu per assicurarmi di un assurdo teologico, ma per rendermi compartecipe ad un dovere inconscio e pur deliberato verso i venturi, verso i contemporanei più soferenti che mi stanno da torno. E tu stesso ne senti il bisogno:
Chi sa, chi sa che un’alba tutta d’oro
non sperda in me le fisime cui giova
dimenticare, ed a gagliarda prova
non cimenti il mio spirito rinato!
che tu rinnovi tutti
Così vedemmo un dì processionare a stuolo, dentro al nostro pensiero i rossi frati dell’entusiasmo, fissi i grandi occhi al volgere del sole e come affascinati: li vedemmo passare per l’inospiti campagne ed i piedi sanguinarsi ai rovi, mentre la fronte loro raggiava: e dicemmo tra noi: Infinita Pietà, amore profondo, Uomo o povero, o vagabondo, o pazzo, simiglianza nostra, o Re, o Mendicante, vivente specchio di me stesso: o Fratello, Fratello mio, che aspetti l’eterno e incondizionato riposo della tomba, ti potessi riscaldare contro il mio petto, ti potessi coprire colla mia persona ed asciugarti le lagrime, tutte le lagrime, e medicarti le ferite! Il rumore feroce ed insistente dell’esistenza non mi giunge or mai più stridente e disperato alle orecchie, odo dei mormorii, dei singulti, delle strida lontane, ma dolci e delle preghiere d’intenzionali forme verso ai cieli: e la terra si rinverde, dà fiori ancora, anche pendono grappoli dai tralci, anche germina il grano; e la terra è Madre. Non io son giunto al santuario del Dolore? Non io pervenni nelle profondità divine del Dolore?
Freme la terra e brilla di rugiada
ogni fior variopinto o foglia verde;
......................
confuso ai canti umani in lontananza.
Ma è forse l’alba che la pia speranza
di tante anime afflitte al fin matura?
Oh, è dunque sorto il giorno, alma Natura,
che amor pel mondo gli uomini conduce?
L’ottimismo di Hegel, amico, che ha dato la spinta ad una umana filosofia, l’ottimismo a cui Pangloss, come impose Voltaire, consacrò il sal samosatense della sua ironia, non può morire; noi non ne possiamo sperdere il lievito e la semente in questi tempi che ci paiono insofferenti di gravi aspettazioni, quando negli occhi dei miserabili discopriamo reconditi principi di salute. E tu, idealista, a che inalzi lo sguardo se temi di tutto? Giova far parte nella propria mente ai motivi scoraggianti che ti vorrebbero ridurre alla indifferenza, ed ostare ai subdoli principii che transitoriamente portano il deserto dentro di noi.
Perché:
Io non sogno, non amo, non ho fede,
né curo opra terrena al ben feconda
o fantastiche idee di savio asceta?
perché:
Il mio pensier che il dubbio offusca e perde
t’insulta, o eterna e perfida lusinga?
perché:
Non so, non so com’io scettico a quanto
è sogno e febbre agli uomini che guardo
impassibile in lotte ardue perire?
Meglio vagare per le verginità del tuo Cuore sincero, meglio nell’Incanto soffermarsi un cotal poco, e qui sentire di vivere.
Non senti? dalla terra una sottile
fragranza esala e induce a sensi miti.
Così non solo fra li umani pencoli indeciso tra un entusiasmo ed una critica, tra il fare ed il rattenersi: ma non si deve accogliere la vita come fine a se stesso, più tosto come un mezzo nel quale si coordini un mondo di idee e di creazioni in rapporto all’eterna meta: e qui Bellezza e Bontà sovrane; quindi in questa personale e squisita altezza educarci, come preziosissimo e fragrante fiore, la Carità; dono gratuito, semplice, senza intenzioni, senza perché e liliale e fermo e per questo Carità assoluta. «La vie, qui est un acte de foi, puisque l’homme est incapable de vérifier les notions sur lesquelles s’appuie son existence même quotidienne, est aussi un acte de charité, puisqu’elle est un échange perpétuel de notions, de sentiments entre les hommes et entre l’homme et le reste de la nature»27.
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Così passano li amori, li sdegni, le promesse, le illusioni, le credenze nelle Ballate tue: da un intimo combattimento ricercasti le note gravi e meste; per una intima ragione rivolgesti la sguardo ai primissimi e t’innamorasti di Cino e di Poliziano. Significando te stesso, hai fatto getto delle superfluità verbali, poi che era tuo scopo il raggiungere la massima evidenza plastica colla più semplice delle forme. Ed accogliesti dalla classicità quanto lo studio ti faceva ricordare, l’armonia del pensiero enucleando dentro la prosodia dei precursori; ma ne sfuggisti il ristretto cerchio, che ostacola alla vivacità delle forme e delle imagini, nelle quali si compiace il nostro spirito moderno, quando, poeta ricercatore di squisitezze, non volevi che la regola ed il numero impedissero all’arditezza dell’eloquio od alla novità del concetto.
Tranquillamente classico, modesto rivolo dalli Appennini tuoi scaturito di roccia silvestre e verde; o fremente e spumante alla china, romantico ruscello tra le scheggiate asperità; o lago alla pianura, specchio alle nubi ed all’ale delli uccelli; o stagno caro alle canne ed ai cigni, padre di nebbie mattinali e di brume al crepuscolo, largo di ninfee e di simbolici nenufari; la tua vena si distende, si protende lucida, si nasconde sotto alli alberi, oscura a volta, a volta minacciosa ed ardita di spuma e d’archi baleni. Il viaggiatore, che passerà per le tue contrade, udrà l’onda cantante come una musica secreta ed avrà il fascino delle belle ed azzurre distese: poi si riposerà del cammino sotto i salici, od, in alto, alla sorgente, ove è la libera ingenuità di un intimo sentire e la favella pargoletta d’amore. È per questo che sudi sulle rime: nello Artefice invochi i giorni sonanti d’opere dentro alla officina, i giorni passati, orgogliosamente nobile d’onde assurgesti; e rimpiangi
turbinare di macchine e il rombante
frastuon dei magli, nell’ampia officina
rinvigorivi il sangue!
Ma il cesello del verso e della rima e l’affaticato studio, se più graditi al cuore ed alla intelligenza, come più ostili al mondo, come non larghi di soddisfazioni! Oh il verso fossile che non assume la impronta sperata; il verso etico che muore a pena nato: perciò ami l’Arte e non ne disperi, ma ne sofri: ed è per questo, che in una generazione di pesante e briaco realismo, vuoi trovare sapor nuovo alle parole, né ti accontenti delle cose che hai vicino e cerchi dentro di queste un senso più profondo di sintesi superiore: così, nella semplicità ansiosa di possenti aspirazioni, volgi ad una grandezza e ad una bellezza invidiabili, assetato di sconosciute vibrazioni e di oscure risposte. Di tal modo, tra la plastica e la suggestione scegli la tua via e rifletti l’anima tua, e mentre coltivi l’armonia delle cose e le tangibili forme, con accenni velati susciti un’altra armonia, certo a me più cara, astrusa, e nella quale discorri dei tuoi sentimenti.
Ecco la tua idealità: nell’intimo tuo sorvegliarti, e non fuori del mondo presente vanno i tuoi pensieri; sofferenze e lotte si accomunano a tutti e noi poeti, come già ti avvisai, più acerbamente le sopportiamo, le presentiamo; più limpidamente le diamo fuori, Missione divina. Lo psicologo banale e da piazza, colla falsa lustra di una autorità scientifica, può sorridere e biasimarci. «Della poesia che ti scruta nell’animo, della clinica in versi?» E crollerà le spalle sdegnoso: egli non si accorge che non siamo l’indagatori convenzionali di un cerchio ristretto di plateali abitudini, ma che ci siamo inalzati alla veggente perspicacità fonte del desiderio comune, dilezione d’ogni cuore che spera. L’anima tua e la nostra assumono la irritabile tenerezza di tutte le anime sorelle; se queste si tacciano ed ascoltino, non perciò sfuggono a comprenderci, e li atti comuni giudicano con un’indulgenza ed un simpatico amore. Una forma ammirabile, che trae da Filosofia, ci fu l’educatrice, quindi la forza nel sofrire, nell’amare e nel credere; e raggian qui, come argento eletto e candide colombe a volo, i pudori sinceri che velano la profondità delle angoscie e delle disperazioni, quali tutti abbiamo sopportato, ed or care ad essere involute di veli e vestite nei pallidi numeri delle Ballate archetipe.
Sorge dalla individualità lo specchio che non mentisce le ansie dell’ora presente. Ascolta: «La poesia compone in se stessa e nella propria l’essenza individuale dei molti che ci stanno vicino: nessuno mai poté sottrarsi alle modalità del tempo nel quale visse: non è canto isolato e sopra acuto quello d’un poeta che si lagna delle cose sue». Ancora: «La poésie est le réel absolu. Ceci est le noyau de ma philosophie. Plus une chose est poétique, plus elle est réelle. Plus un poème est personnel, local, temporel, propre, plus il est près du centre de la poésie. Il faut qu’un poème soit absolument inépuisable, comme un homme et une bonne maxime. — La poésie lyrique est le choeur dans le drame de la vie du monde. Les poètes lyriques forment un choeur composé de jeunesse et de vieillesse, de joie, de pitié et de sagesse»28.
Ed ancora, come dice la saggezza orientale: «Ciascun uomo è assolutamente a se stesso la Via, la Verità, la Vita». L’opera nostra adunque, quando si persuade nel lievito fermentato delle passioni individuali, delle aspirazioni, dei sogni personali e tutto questo racchiude in una sintesi, non è più mostra di gretto soggettivismo, non particolarità effimera di psicologia sopra un ente privo di rapporti col mondo; ma una variazione elaborata sulla eterna sinfonia; né il pianto d’amore o le imprecazioni d’odio possono avere un valore isolato e virtuale, ma più tosto risentiranno dalli universali e sfuggiranno alla critica, perché lo stesso critico deve confessarsi, che in quelle contingenze, egualmente ha soferto. Il poeta è fatto centro del movimento cosmico, lo dirige, lo assorbe, lo attrae; e le significazioni delle sue Donne divengono la Diotima, la Beatrice, la bionda fanciulla dalle treccie spioventi di Rossetti, la Salambo, la Margherita, la Gioconda, la Porzia, come la tua Sofia, alla quale dedichi la parte più odorosa, se pur leggera, dell’anima tua; onde non si attenua a divenire una creatura del nostro tempo, ma sta in tutti i tempi, sotto a qualunque cielo, in ogni contingenza, e Donna, e Simbolo, e Filosofia, e Voluttà.
Da qui l’amor tuo per la Ballata italica: essa ti parlava con insistenza, e, sciolti i veli, ti mostrava le maliose sue bellezze. Ti appariva sotto lume nuovo, quasi i secoli trascorsi le avessero aggiunto prestigio d’incanti, e, prendendoti per le mani, ti precedeva nelle anfrattuosità silenziose e pudiche dei cuori sensibili. Già fu un indagare nelle coscienze candide, se pure astruse, dei precursori; già apparve ingenua tra il popolo innamorato di sole e di forme; ora, più grave, pensa. Era il suo canto nelle vegliate ore notturne un ricercarti le fibre in tumulto e d’ora in ora ti apriva l’incommensurati spazi dell’imaginare: fluida, si rappresentava a te, spirito e parvenza assai più sostanziale di qualunque materiato aspetto. Così, all’ottimista per impero di volontà, Emerson, e coll’attratto nella monade eterna dell’eterno volere, dell’eterno sapere (se pure inconscio del suo valore), Ruysbroeck l’Ammirabile, una significazione d’anima veniva a intrattenersi; con te la proiezione della tua coscienza dissolveva o proponeva i quesiti: «Et c’est pourquoi le moment est peut-être venu de se poser quelques questions nouvelles. Qu’arriverait-il, par exemple, si notre âme devenait visible tout à coup et qu’elle dût s’avancer au milieu de ses soeurs assemblées, dépouillée de ses voiles, mais chargée de ses pensées le plus mistérieux de sa vie que rien ne pouvait exprimer?
«De quoi rougirait-elle? Que voudrait-elle cacher? Irait-elle comme une femme pudique jeter le long manteau de ses cheveux sur les péchés sans nombre de la chair?»29.
Che se tu riflettevi, e, dentro pensoso di meraviglie e di aspettazioni, fremevi e titubavi tra un’audace risposta che distruggesse ed un languido assentire che sfuggisse al dolore della ostile verità nel mondo; scaturivano da se stesse le rime e la mano le fermava inconscia forse sulle carte, mentre tu parlavi col Sosia tuo, antagonista, carnefice goloso del tuo sacrificio.
Ma, Donati, per l’altri, come saranno le strofe tue? Io forse le interpretai, commosso dalla mia lunga, né ancora cessata passione. Non più per l’incanti annunciatori delle notti fiorentine sorge una nubilare fantasima contro alla luna, avida di luce, avida di ricongiungersi colla luce; né codesta forma di canto appare ai nostri occhi, che hanno perduto la virtù di scrutare tra le cose del cielo. Se avvengono, di tratto in tratto, tali prodigi, smuntano o scompaiono prima che noi li possiamo afferrare. Triste, però io vidi e assorbii di tutta la mia persona una visione di due Donne l’una bianca e l’altra bruna a procedere per una ascesa, alla sommità della quale raggiava un tempio d’oro, e scoversi morti e morienti lungo la via, tra i fiori e l’erbe delle siepi. Fatali camminavano entrambe e novellavano di profonde cose. Ma, poco fa, come io racchiudeva dentro alla mente ed andavo rivolgendo il perché delle tue ritmiche soferenze, e, nell’ora meditativa, considerava la loro opportunità, eccomi un’altra né più gaia apparizione.
Prima, mi si stese davanti una salita senza traccia di viale; dell’erbe e dei boschetti di lauro non fioriti; poi, sorsero delle camelie frigidissime, come in una diritta siepe a limitare una via che non era; poi, spuntarono delle viole qua e là timide e scarse. Ed il luogo si popolò. Passò Amore con l’ali di fuoco, facendo atto di silenzio col dito sulla bocca, e dietro si traeva con l’altra mano e guidava una citareda dalle candide ali: «Or tu puoi cantare», egli le domandava, «bianca creatura di più bianche penne, la fiamma delle mie pupille e le sfolgoranti mie piume di porpora?» Ed andarono oltre e sparirono. Sulla china batteva un languido sole che si velò ancora alla scomparsa delle due persone.
Era uno di quei giorni malati che intendono ad una lenta germinazione d’erbe, ma che non profittano ai fiori. Quindi, Ella apparve. Di lontano furono bigie le sue lunghe gonne; ma, come si avanzava, mi accorsi che mutavano colore e si intonavano al pallido verde della regione; onde fiorirono splendidi luccichii di broccato e si rivelarono tra i velluti smeraldini della tunica oro e gemme e le treccie corruscarono di metalli violenti. Mormorii delicati e misteriosi, come alla primavera, quando l’insetti susurrano passione alle foglie; ma il cielo chiuso. Ella tutta prossima mi stava: ma perché velata? Ma perché sulla tunica violacee bende e sotto violaceo strascico, come per lutto di vergine, e la corona in mano, inutile, senza gemme e quasi obliata? Cantava? Mormorava (io non udiva quanto dicesse): e seguitò il cammino sul prato tra i lauri non fioriti, spingendo lo sguardo alle frigide camelie ed alle viole paurose. Ma allora sostò: abbandonò la diritta via e vagò dentro alle foglie rugiadose, sparsa la caudata profluenza dei veli sopra le creature tenerelle di natura, e, chinandosi, ricercava e raccoglieva i fiori. Ora ciascuno de’ suoi atti mi sembrava un riflesso di passione pensierosa e diceva di incanti melanconici s’Ella, quasi un gilio chinato sullo stelo, piegava la testa sull’omero. Quali fiori raccoglieva? Camelie e viole, e ne componeva ghirlanda. Ma...; ed io m’accorsi che le sue mani erano tinte di sangue e che gocciavan sangue i gambi mozzi, lagrime le sue cilia. Così trascorse, quando esigua, ancor bigia, ancor china, d’un subito la vidi rialzarsi e protendere le braccia all’alto. Le nebbie squarciaronsi e le mani ed il capo aderto attinsero in un modesto riso di gloria un raggio di sole a consacrazione. Codesto raggio veniva d’Oriente, tra i zaffiri lucidi e le rose, araldi, sul caldo cammino.
E tutto fu buio; ciò è, Donati, io mi vidi freddo nella fredda età presente, tra li agghiacciati contemporanei che ridono delle profezie e che si impaurano del gesto verso una Carità, verso una Verità nuova, verso il Principio di una foriera Rimutazione.