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Sono lieto che mi sia dato, caro ed ottimo Marinetti, oggi, l’opportunità di valermi, come di una tribuna internazionale, di «Poesia», rispondendo alla inchiesta, che voi avete promosso tra i letterati europei, sul verso libero. Oltre a questo, per me, fu benigna e favorevole la presente circostanza, perché mi spinse a terminare un lavoro da tempo composto in mente, ma di giorno in giorno procrastinato, pensando che non ancora fosse attuale e di pratica utilità. Voi, in parte, avete letto quella mia Ragion poetica e programma del verso libero e l’avremmo destinato per «Poesia», se non fosse divenuto un piccolo trattato non del tutto ozioso. È sfrondando questo saggio di quanto si riferisce a filosofia, argomentazione, ricordi personali, indiscrezioni, incorse veloci pei campi prossimi della scienza e dell’altre arti che io sintetizzo questo breve concludere: ed è alla Ragion poetica, che rimando i curiosi se vorranno saperne di più ed anche i malevoli, se mi imputeranno di dogmatismo rivoluzionario, quando l’avrò, in breve, data fuori. Là vi leggeranno per disteso tutti i perché logici, tutti i motivi concatenati; là troveranno tutte le lente trasformazioni, da cui volle l’evoluzione passare, per giungere all’ultima nostra forma prosodica; e, se non li avrò convinti, cosa di cui dubito sempre, vedranno però che nulla ho lasciato da parte per farli convinti, sì che la mia coscienza si tiene paga contro la loro pervicacia conservatrice ed invincibile.
Ma sintomatico ed interessante è il vedere, per merito vostro, inscritte su «Poesia» le nuove discussioni e le battaglie cortesi sopra idee generali e concetti personali, sinceramente espresse. Gioveranno alla storia delle nostre lettere e diverranno norma positiva di una più onesta e leale considerazione della critica, intorno a quel verso considerato falso, eretico o pazzo dalle comuni convenzionalità conformiste. Se nessuno di noi si schiverà sfuggendo il pericolo del compromettersi, eludendo colle vaghe attestazioni di una embrionale dottrina e giuocando di frasi ironiche, o coprendosi di una facile arguzia, o rifiutando senz’altro di antivedere con audacia, per speculare sul presente, noi avremo raccolto un bel corpus di giudizii soggettivi, un bel granaio d’opinioni e di osservazioni a cui potremo ricorrere, in appresso, meritandosi, un volumetto così compilato, quel valore, che già fu, e meritamente, della Enquête sur l’Evolution littéraire dell’Huret; la quale rimane uno dei migliori documenti per lo studio delle moderne lettere francesi.
Avrà dunque l’inchiesta di «Poesia» il merito e l’efficacia di dare riconoscimento e storia, stato civile e brevetto di nobiltà, al «verso libero italiano»? Lo credo. Questa forma potrà di nuovo venir biasimata in contro a chi la vanta, ma non più negata. Ciò basta ad affermarne la sua reale ed ufficiale esistenza; da che si incammina ad essere annotata nella rubrica dei modi prosodici, e, domani, in appendice ai vecchi manuali; come avvenne testè per il verso carducciano, accolto presto nelle scuole, perché era un professore universitario che lo aveva composto.
Il «verso libero» viveva a parte; vive tuttora in disparte. «Gazzette letterarie», «Riviste di Giovani e per i Giovani» lo accettavano senza commenti e come una sfida. Era taciuto nel giro delle critiche autorevoli: qualcuno lo chiamò «la sbrigliatura definitiva incoraggiata dall’esempio francese»; per altri, tra cui il Lanzalone, ineffabile pedagogo moralissimo, il verso amorfo, innominato, destituito d’ogni fondamento di ritmica, ossia prosa spezzata in tante linee di lunghezza varia a secondo del capriccio dell’autore; per i moltissimi, una nuova aberrazione che imbastardiva il nostro italico Parnaso. Pochissimi, del resto, lo usano; quasi tutti ne ignorano l’esistenza. Otto o dieci geniali coraggiosi, o meno, si fan vanto di saperlo, perché indipendentemente l’uno dall’altro lo hanno per fatica e per esperienza propria composto. Perfezionato, è per loro lo strumento semplice ed elegante, elastico, preciso, sonoro e robusto, quasi perfetto e forse indefettibile, per cui la loro anima vibrante e lucida di sensazioni e di idee si trova, senza molto disperdersi e senza troppo smuntare, riflessa, compresa e concreta dentro la nobile spera del poema. Il pubblico grosso, la critica delle grosse «Riviste» si accorse di qualche cosa di simile, quando il D’Annunzio, che ha scorazzato, dal ritmo di Jacopone da Todi a quello del Moréas, senza cambiare mentalità od accattandola d’imprestito, volta per volta, secondo la moda dai rigattieri delle antologie contemporanee, mandò fuori Le Laudi, La Francesca, La Figlia di Jorio e che so io. I suoi turiferarii ammirano un «verso pseudo libero», esclamando al prodigio; ed affermarono ch’egli doveva esserne l’inventore in Italia. Ma se, come avvenne, gli si chiede il perché, l’inventore se ne schiva e vi risponde: «La questione del verso libero è molto grave e molto complessa. È troppo difficile cosa trattarla in venti righe. Mi proverò». Non si è provato. E bene, tutti coloro, tra i poeti, che inventarono qualche nuovo e personale strumento di manifestazione artistica e che coscientemente ne seppero il valore, da Orazio a Foscolo, dal Banville al Verlaine (il meno adatto a fare il critico dell’opera sua), da Walt Whitman a Carducci, scrissero in prosa od in versi un’Ars poetica di glossa al loro metodo, d’esegesi alla loro intenzione. Piccoli o grandi, artefici od artisti, che non lavorano d’imprestito e di mosaico, né per udita, né per richiesta dei salotti letterarii, in venti righe, od in cento pagine, si sono provati. Sinceramente dimostrarono, o dimostrano, le loro antipatie, le loro prevenzioni, il loro preferire ed il loro sentimento, per la semplice ragione che hanno «sentito quella o questa forma con ingenuità»; l’hanno praticata senza malizia d’imitazione, sapevano che posto le era destinato nella prosodia; ed, attualmente, che sia, ad esempio, il verso libero. Vi diranno che risponde ad un desiderio generale della mente moderna ed europea in questo punto di secolo; che è un indice della rivoluzione e della evoluzione compiutesi nella letteratura internazionale; un episodio di ciò che in Francia si chiamò decadentismo e simbolismo; un aspetto che assunse l’insurrezione sistematica contro il «principio d’autorità», in politica, nelle scienze e nelle arti. Per ciò ha i suoi rapporti colla filosofia e colla sociologia, come obbedisce alle leggi della biologia cosmica e della psicologia individuale. Certo, tutto questo, in venti righe, non si può dire; se ne può scrivere invece una Ragion poetica, alla quale rimandare il benevolo ed il malevolo, comunque, per meglio erudirvisi.
La battagliera azione letteraria, che incominciò, dopo il 1870, a suscitare conflitti di teorie estetiche e di inconciliabili opposizioni di forma, culminata col nome di decadentismo e simbolismo, tra il 1885 ed il 1900 in Francia, ha un carattere internazionale. In Inghilterra, il poeta e pittore William Blake, intimo del Whitman, vi cantò i Canti dell’innocenza colla libertà di metri del vate di Paumanok, e lo Swinburne formale e classico, il più grande rappresentante del parnassianismo inglese, dedicò a questo «vero ed adorabile genio, a questo profondo e libero pensatore», un saggio critico lucidissimo e completo. Qui, vi furono Dante Gabriele Rossetti, Burne-Jones, William Morris, ed un vegliardo, più fresco e fragrante di un adolescente, Meredith: poi il Wilde ha sopportato, per la passione della nuova bellezza, il suo lento martirio equivoco. Qui, colli audaci inventori d’ogni e più complessa musica verbale non prima udita, non morì la forma tradizionale; e, di pari passo, vi furono, dal «Rhymers’ Club», propaggine della taverna del «Cheshire Cheese», famosa per i Johnson ed i Goldsmith, i giovani, che squillarono alla Rima l’inno vittorioso:
noi martelliamo la rima d’oro;
noi martelliamo il ritmo sonoro
In Germania, le canzoni del Nordsee di Heine, seguendo il Klopstock, che aveva richiesto della metrica latina altri modi nuovi, iniziarono un verso lirico, uscito dalla regola solita e comune: Gian Paolo Richter, Novalis, colla loro filosofia trascendentale, dànno un altro perché a fondamento della letteratura.
In Ungheria, è Madach, enorme come un Dante, colla sua Tragedia dell’Uomo.
In Russia, si chiamarono decadenti Minskij, Merežkovskij, K. Balmont, questi, a cui, oggi, Gorkij, il violento biblico ed i democratici socialisti rivoluzionarli stringono la mano, mentre che nella «Nuova Vita», soppressa dal governo dello Tsar, si alleavano direttamente coll’azione di piazza ed aggiungevano al carattere della letteratura russa il bisogno prepotente ed irrefrenato della libertà.
In Ispagna, Belkiss, regina di Saba, del Castro vi indica che la partecipazione a questo indirizzo vi fu consentita.
In Francia, bene o male, sanno tutti quale fu il suo successo. In Italia, vi furono delle scaramuccie provocate da qualche intelligenza più precoce e più inquieta delle altre; ma la pigrizia della critica, il nessun interesse del pubblico, la mancanza di quella atmosfera sociale e di quelli istituti politici che resero possibile il fiorire di tale tendenza altrove e l’eccessivo sospetto reciproco, la lasciarono svampare tra molto fumo di parole innocue e tra molte risate, riserbando, spero, decisioni vive e vigorose per un tempo meno manifatturiero e per una patria più libera.
Noi avremo, cioè il nostro simbolismo nazionale in ritardo, come abbiamo avuto il nostro romanticismo; allora solo sarà da noi possibile, che, per necessità di esistenza, venga anche ammesso, comunemente, come espressione lirica, il verso libero. Con ciò non voglio asserire che il simbolismo replichi il romanticismo, per quanto si accomuni con lui in alcuni elementi, specie nella cinetica rivoluzionaria. Anche il romanticismo incominciò colla filosofia ultra cattolica di De Maistre e coi gilii di Chateaubriand, ma terminò con Hugo repubblicano e Schopenhauer nihilista. Se il simbolismo ha prediletto, sui primi giorni, idealità cristiane, evanescenze idealistiche, metafisiche, il medioevo d’apparato, ha finito per riconoscere Nietzsche, pagano e distruttore, Stirner individualista anarchico, Blanqui comunardo e positivista; e di tutti questi ribelli ha fatto un pantheon di sue glorie, idealisti, ad un modo, nella ricerca dei fenomeni e nel pretendere la libertà per tutti. Se il romanticismo fu un’operante funzione guelfa, per cui furono possibili le aspirazioni verso l’indipendenza di popoli, razze e classi, secondo una legge comune, rispetto ad una religione atavica, così che religione ed assetto di patria venivano ad essere cementate: il simbolismo apporta un impeto ghibellino ed agnostico (misticismo scientifico), la presentazione dell’«io», che non pretende più una indipendenza, ma una libertà, non più una legge, ed una religione, concordate sui bisogni collettivi di tutte le altre unità; ma una sua legge, ed una sua individual religione. Perciò muove guerra e sommuove guerre tutt’intorno pel suo raggio d’influenza; si dimostra incondizionato dominatore, cioè stoicamente anarchico. (So che questo sunto è oscuro e troppo condensato. Ma vogliate ricorrere alla Ragion poetica piana ed aperta.)
Tali ed altre simili cose io potrei aggiungere in una discussione su temi generali; ma, nello stretto ambito di una inchiesta, mi fermerò ad una constatazione soggettiva, più utile e spoglia di divagazioni. E mi vi offro in esempio, per quanto valgo.
Ho usato, da giovanissimo, a dubitare dei maestri: volli maestra l’esperienza. Dal fatto che conosceva estraeva le leggi: ogni fatto rappresenta per me un tipo anomalo: la somma delle anomalie, coi loro rapporti, significa la vita; e la vita ha leggi generali, a punto differenziali, perché è sintesi, nello scambio e nel ricambio, delle anomalie che popolano lo spazio e che esistono nel tempo. Così non mi accontentai affatto di quelle definizioni che i lessici competenti ed i professori mi sciorinavano sopra «il concetto di Poesia». Per conto mio, sottoposi alla abituale dissociazione questo fenomeno d’intelligenza, questo modo di vivere del cervello umano, ed ai reagenti molto caustici della mia critica trovava che si scomponeva in due elementi primi e fondamentali: «Imagine» e «Musica», come l’acqua si dispone alla elettrolisi ne’ suoi due gas producenti, idrogeno ed ossigeno.
Tutto che in letteratura darà Musica ed Imagine, legate indissolubilmente, sì che l’una sia nell’altra compenetrata, ma non perda la sua natura, né si confonda; sì che l’altra vesta la prima, non con abiti posticci e comperati dal rigattiere, ma con giuste maglie e perfette guaine seriche e dorate, sarà Poesia. Non cerco misure prestabilite (versi), non sequenze numerate di misure (strofe), non assegnati circospetti e complicati modi di accento, di rime, di elisioni, di dieresi; ma è «verso, strofe, poema logico e naturale, poesia,» insomma, ciò che viene espresso con una ingenuità, o con una raffinatezza, in quel modo nativo e sonoro su cui la gamma risuoni e la plastica informi; ciò che rende un concetto ed un pensiero poetico in tutte le loro sfumature, in quel suono, ed in quel colore per cui hanno vita e vibrano personalmente le idee presentate; ciò, in cui si identifica l’indole personale ed agisce libero e cosciente il carattere del Poeta, svolgendo la sua manifestazione.
Ma nel far ciò, nel pensarlo e nello scriverlo, nel tentare un rinnovamento di tale valore estetico, non era mosso, né per moda; né per singolare mania, né per inquieto dilettantismo. Io sentiva di cooperare, colla mia opera e colla mia volontà, al bisogno che promanava dal tempo, alla necessità della mia aspirazione. Certo, in qualche modo era obbligato ad esprimere parole che riguardavano al divenire, non al presente immediato; ma colui che vuol essere attuale in qualche punto di vita, non può essere il contemporaneo, perché, nel momento stesso, nel quale egli pronuncia la sillaba, il fatto è già compiuto; e sta cadendo nel passato chi vuol essere semplicemente ligio ad una verità, oggi brillante, domani già annubilata, dopo domani tramontata per sempre. Io amo la verità, che, come le stelle, nascoste tuttora al telescopio e ricercate dal suo obbiettivo, esistono ma non sono ancora disegnate sulle carte del planisfero. Sarà prossimo il giorno in cui sorgeranno sull’orizzonte: e con più tardano a salire, con più duratura la loro permanenza.
Così, dalla adolescenza in poi, mentre bizzarramente mi erudiva da me stesso e mi rivolgeva alla sanzione ufficiale delli esami governativi, più per averne un documento, che per valermene poi, sin dal 1885, una specie di verso libero mi si presentò successivamente nelle ricerche e nell’ondeggiare delle mie inquietudini, formandosi e sviluppandosi lentamente, sotto una fatica di lima, sotto la costanza del mio richiedere. Mi reggeva una sottile coscienza poetica: dopo di aver sperimentato tutti i mezzi prosodici, cui la tradizione e la retorica mi porgevano, molteplici e nobilissimi, non mi sentiva abbastanza rivestito da quei paludamenti d’apparato e rifiutava d’uscire con quelli abiti, improvvisamente mascherato. E se ciò ch’io voleva e sospettava nell’indole stessa della nostra lingua e secondo l’abitudine della nostra poetica, veniva allora trovato ed esercitato già presso di noi singolarmente, od oltr’Alpe, per identico sentimento, non seppi: dopo appresi e paragonai. Quando, infatti, nel 1888 uscivano i Semiritmi di Luigi Capuana, a cui ben volontieri accordo la priorità, io aveva già composto, in parte, ciò che in quel tempo chiamava Armonie sinfoniche, ignorando il nome di Semiritmi e di Rythmes pittoresques (Maria Krysinska).
Similmente, non mi era nota l’ultima appellazione di «Verso libero», che oggi adotto per maggior chiarezza; ma aveva prodotto, in massima, quel mezzo letterario che si riconosce sotto questi diversi nomi, a volta a volta, e che rappresentava il mio rude primo sforzo di liberazione contro la prosodia consuetudinaria.
Se il ricordo non mi inganna, poco dopo, Ada Negri nell’altro volume di versi Tempeste, tentò una volta sola col Senza ritmo una dolcissima sinfonia armonica di parole e di pensieri, con un risultato così perspicuo, che, né prima, né dopo, la sua poesia baldanzosa e selvaggia, ottenne mai più; e, nel 1892, Alberto Sormani, troppo giovane pianto dalla critica dell’arte nostra, novissimo filosofo di integrazione moderna, cantava un’Ultima passeggiata: ed ancora risuona:
Mi è dolce e triste prima di partire,
in una giornata così desolatamente melanconica,
di ripassare, a passo lento e pensieroso,
i luoghi del dolore immenso, i luoghi dei ricordi,
In seguito, prima che comparissero le Laudi d’annunziane, un completo e pregevole volume di versi liberi si affermava coi Dialoghi d’esteta (1899) di Romolo Quaglino; dove senza smancerie, senza irritamenti, senza caprioleggiare funambolico, la nuova prosodia aveva già raggiunto un tale grado di sicurezza quali altrove invano lo si cercherebbe nei tentativi. E questi esempi sono, a mio parere, oggi, capitali, nello stabilire fin d’allora una esistenza vitale e longeva a quanto i superficiali gratificano di un candido disprezzo alla Homais.
Fu dunque anche per me questa forma: anzi, se non apparve pubblicamente prima («Domenica letteraria») del 1896, chi mi conobbe, sapeva che, per lunghi anni, dubitoso del suo valore, l’aveva secretamente elaborata, coprendomi in precedenza, come di uno schermo, col Libro delle figurazioni ideali, in giusti versi tradizionali, per non incorrere nella facile accusa d’ignorare la prosodia.
Quindi, padrone di altro metro complicato e sottile, che pretende maestria d’uso, di osservazione, di traduzione immediata, quasi cinematografica, ho potuto tentare, con Dadi e le maschere, La pifferata, e col resto, l’aperto esperimento e pubblico del mio verso libero. Oggi ne conosco il valore effettivo, le ambagi e le equivoche promesse; ne so i secreti e le difficoltà e l’arte per cui, se non vi stancate, lo raggiungete dominandolo. Il verso libero deve ondeggiare, seguendo tutte le emozioni del poeta, apportandovi quelle diversità di ritmo e d’armonia le quali meglio convengono ai diversi concetti che manifesta. Nessuna regola rigorosa gli deve impedire lo sviluppo, nessuna barriera arrestarlo nell’onda sonora, nel plastico movimento. Idealmente, il verso libero si realizzerà perfetto in una lingua dove la cadenza delle parole sarà fortemente segnata dall’accento tonico, dove l’accento logico del periodo coinciderà coll’accento verbale. Ed è il caso della lingua italiana, tra le altre d’Europa: per cui, nello sviluppo della sua lirica accettò, d’istinto, nativamente, questa forma prosodica, senza darne il nome, passando dalla metrica latina, gradatamente, ancora alla prisca accentuazione del Carmen fratrum arvalium, delle comedie plautiane e del verso saturnio, per ricongiungersi colle strofe del latino mistico, ripresentatisi nelle Laudi trecentesche e nelle Farse cavajole dopo l’intermezzo provenzaleggiato romanico e longobardico dei nostri trovatori, Sordello e Bertrando in sino a Dante.
Tutto ciò è dato dalla natura stessa della lingua italiana, dalla sua essenza costante, sì che ha forza d’espansione e di vitalità senza pari, ritemprandosi alle fonti vive del popolo, della tradizione e della dottrina, arricchendosi di organismi nuovi e freschi, fossero pure stranieri, coll’adattarli a sé in un fervido processo d’assimilazione. Carducci, nel presentare la prima volta le sue Odi barbare, nel 1877, avvisava: «Che se a Catullo e ad Orazio fu lecito dedurre i metri della lirica eolia nella lingua romana, se Dante poté arricchire di care rime provenzali la poesia toscana; se di strofe francesi la arricchiscono il Chiabrera ed il Rinuccini, io dovrei, secondo ragione, poter sperare, che, di ciò che a quei grandi poeti ed a quei rimatori citati fu lode, a me si desse almeno il perdono».
E sono il Frugoni ed il Metastasio, che ritornano ai Greci per imitarne i ritmi composti e polimorfì; è ancora l’Ugolino Bucciola faentino, che canta Le ricoglitrici di fiori. È Niccolò Soldanieri da Firenze, che rima I Cacciatori della volpe, mirabile esempio di snellezza, di vivacità, di conseguita e logica armonia, dove il buon gusto non si cura di strofe, di quantità di versi, di genere di versi, ma aggiunge verso a verso, come sembra alla ragion poetica di quel poema ed incomincia quella forma che i pedanti chiamano «selva», il Redi volle «ditirambo», illustrandola da principe munifico col Bacco in Toscana e colla Arianna.
Vi è inoltre un’altra necessità fisiologica: i nostri sensi, che sono acutissimi e sensibilissimi, che accettano tutte le luci e vibrano alle più leggiere sfumature delle ombre, accolgono pure tutti i suoni delle gamme, e i più acuti ed i più profondi, ed i più morbidi e i più secchi, e i semitoni ed i soffii del suono: hanno acquistato una maggiore resistenza all’urto delle sensazioni. Chi prima sentiva a disagio il crescendo rossiniano della Calunnia, oggi applaude alla Marcia funebre del Siegfrid, alle sonorità eccezionali delle Walkirie.
Tra l’Arcadelte quattrocentesco ed il Wagner vi è tutta una serie di aumenti sonori nella musica. Il clavicembalo sospira a presso il piano-forte di ultima fattura berlinese; le gavotte di Jommelli vengono cantate in piena orchestra, non sul quartetto d’archi classico. Anticamente, la musica stava alla poesia, come la rima alla melopea; il sonetto alle cadenze; la strofe ad una precisa, esatta, matematica melodia: attualmente la musica è armonia; armonia la lirica. Il poeta deve intendere la ragione del verso come i Rosa-Croce l’ordine del cosmos, istituito sopra una grande armonica diffusa nell’immenso equilibrio. Ne esce uno sviluppo possente, una fuga tonalizzata dal genio stesso. I gorgheggi zuccherati, i trilli delle rime, i capricci delle fioriture, che sacrificano pensieri e stile non fanno più per lui. Egli detta a se stesso la regola che serve per questo poema, che non può servire per l’altro. Giambi, epodi, dattili, spondei, le catalessi, sono formole scolastiche da doversi imparare, da sapersi usare, come il musicista si vale dei tempi, delle sue divisioni, delle figure, delli sviluppi scientifici ma non è detto che tutta la poesia sia qui in queste forme, come la musica non consiste nel saper scrivere grammaticalmente bene un rondò. Vi sono delle unità, parole, accenti, cadenze, note invariate; ma queste a secondo del loro posto si influenzano ed acquistano delle armonie speciali. Nel poeta nascono queste armonie col pensiero di cui rappresentano l’essenza. Il pensiero è il corpo nudo, l’armonia lo ricopre nel modo logico, individuo, assolutamente.
Il bisogno di libertà indiscussa e di integrazione continua. Il poeta deve foggiare a se stesso uno strumento che non lo tradisca: limpido e come nasce, il pensiero, deve essere nella forma che lo fa evidente; bisogna cercare un mezzo in cui non si disperda, né si confonda: bisogna che la veste, la tangibilità, non infagotti, non renda pesante, non faccia o troppo piccolo o troppo grande la nostra sensazione. La sensazione deve essere tradotta ingenuamente, perfettamente. Per non altri perché Leopardi si costrusse la sua «canzone»; Foscolo reclamò il «carme». Non sono bizzarrie d’artisti, ma necessità: a queste necessità l’organismo della lingua italiana si è prestato egregiamente, anzi se ne avvantaggiò; poco fa accolse ad encomio l’impronta carducciana; e le sue saffiche minori, le sue alcaiche, i suoi asclepiadei, i distici, li troviamo parte egregia della prosodia nostra. Per quale ragione rifiuterà il verso libero? L’evoluzione della lirica deve giungere a questo risultato: i pedanti debbono inchinarsi davanti alla vita operosa e ricchissima del linguaggio, che i loro impedimenti retorici e dogmatici non potranno mai arrestare; dovranno accettare anche il verso libero. L’iniziale, il più nobile ed anche tenuto calcolo del tempo il più perfetto tentativo di questo genere, ce lo mostrava Niccolò Tommaseo, pedante anch’egli a richiesta, ma di grande ingegno, di profonda coltura, di sottilissimo buon gusto. Nel 1842, stampando per la prima volta una raccolta di Canti popolari greci, tradotti, egli ne disponeva la traduzione interlineare, cercando un’armonia italiana corrispondente all’originale e non usando versi classici: avemmo per mirabile risultato, colli altri, questo esempio:
Ed egli stesso annotava: «Raccoglie imagini degne della infante innocenza: allori, dolci acque e fiori. Il suono è un incanto». — E si riflette nella traduzione.
Su quest’orma perché non rimettere i piedi? Perché le cosidette antologie non riportano questa viva parte dell’arte letteraria nostra? — Oggi, poi, a che volerci proibire la ventura di un verso libero? E quale è quella legge di natura che ce lo vieta? E perché rime, endecasillabi, ed il resto? E perché non la libertà del ritmo? I pedanti non rispondono, o rispondono male.
Il verso libero, questa «lunga parola poetica», è l’ultimo anello aggiunto alla catena dell’evoluzione lirica: l’ultimo e provvisorio anello, perché nulla è definitivo e l’aver finito, il credere d’essere nella perfezione, per tutto ciò che è umano, non esiste; tutto è divenire, πάντα ρἓι. — Il verso libero è autorizzato dalla tradizione e dalla natura italiana; non deriva minimamente, come credono i superficiali, dal vers libre francese; è «lui» distinto, personalizzato, nazionale. In ogni allinea rappresenta un’unità di misura armonica speciale; concorre nella strofe (o periodo poetico) di un numero irregolare di allinee, per racchiudere un concetto pieno, intero, definito, idea informata ed espressa nel suo tono musicale e nel suo reale o virtuale aspetto plastico e cinetico. Il fondamento di tale musica verbale rimane sempre l’«accento» italiano, foneticamente battuto sopra parole italiane; e qui la «metrica» non prende il posto della «prosodia», né tenta di soverchiarla colla semplice ed esteriore superficialità dell’aspetto grafico, come appare nelle barbare carducciane. Sfuggirà quanto lo può rendere povero ed amorfo.
Tutti i mezzi passati e presenti di sonorità, di differenziazione, deve accogliere. Dalle Farse cavajole, la rima d’emistichio; dalle ballate, i falsi ottonari; le rime; le assonanze dalla poesia popolare; il contratempo, la dissonanza dal gusto personale dell’artista. Il suo apparire non significa povertà di sentimento musicale; come il contrapunto wagneriano raccoglie tutti i mezzi e tutti i motivi, per poter tutto dire, per risuonare come un’orchestra; è ingenuo e squisitissimo, scientifico e plebeo; entusiasmo e riflessione. Il suo accento, «l’arsi e la tesi», rispondono alla logica; si flette con un accordo completo in una cadenza normale dove termina il pensiero espresso; sarà di difficile lettura; non tutti lo sapranno svolgere e scandere; Foscolo ha detto: «La natura fa i poeti ed i lettori dei poeti».
Su questo verso poetarono l’anima complessa dei popoli colla Bibbia, colla Hedda; da questo verso raccolsero i grammatici l’esametro epico delli aedi vaganti dell’Odysseo e d’Ilio; risuonò il vario canzoniere millenario del folk-lore; Walt Whitman, Heine, Laforgue, Gustave Kahn vi infusero l’anima loro. Li imitatori, li istrioni della poesia, vi hanno costrutto i più ridicoli grotteschi ch’io conosca. Così si sostiene non con mottetti e scambietti di parole, ricciolini petrarcheschi e marinisti; ma sul muscolo e sullo scheletro di pensieri grandi, nobili, personali, non oziosi. Non può convenire ai piccolini rimeggiatori di ballatelle sentimentali, di quartine erotiche e passionate; alli scolari di qualunque scuola. Per ciò non può venire accolto anche dai più giovani dalla facile rima, quando si trovano davanti a questo corsiero non facile a governarsi, di lunga lena, infido, non ligio al numero snelletto e lascivetto, ma fedele alle idee. È così facile scrivere in versi! La retorica aggiunge tutto quanto manca alla mente: assegna accenti prestabiliti, indica rime, quantità di linee, ed il rimario suggerisce i concetti. Con qualche abilità melodica si potrà riuscire a cosettine piacevoli, piacevolmente udite a cantare con voce di baritono tenorile nelle radunate intellettuali. Ed è logico che lo si chiami sbrigliatura, anarchia d’anarchici insofferenti in tutto, l’ultimo strazio della nostra poesia nazionale, quando dei poveretti non hanno il piacere, per mancanza d’organi maschili, di far veramente all’amore colle Muse e si accontentano di carezze anodine che ingannano, ma che saranno sempre sterili.
È forse troppo presto il parlar oggi in Italia di verso libero e l’usarlo: ripeto, manca la partecipazione di un pubblico, non dico numeroso ma esiguo, però intelligente per suffragarlo, non colla voga, ma colla sincera educazione. Vi manca quell’atmosfera d’arte liberata e di liberi reggimenti senza i quali il tentativo, per quanto egregio, cade a vuoto. Da noi vi sono generi commerciali non letteratura; ricalcatori non poeti; permane l’ossequio alla classe che paga e compra; quindi si adula al grosso mal gusto; non vi sono buone conoscenze, ma soggezione alla ferula del professore; non animo per rompere in battaglia contro la consuetudine. Noi tolleriamo l’abituale oziosità della critica, la freddissima indifferenza, l’ignoranza ridicola, il piccolo successo mercantile. E le voci, che inalzano ai fastigi effimeri or questo or quello colle smodate variazioni della rinomea, sono l’indice di un contagio morale, tanto più maligno in quanto è ben coltivato dai pochi che se ne valgono. Il verso libero, per fortuna sua, non è ancora venuto di moda, né lo diventerà facilmente.
Sbocciano i ritmi dalla frase densa dell’armonia del mondo,
germinano colla idea; svolgansi li inni in faccia all’avvenire.
Per la grande dolcezza della vita, e per il pianto,
e nel riposo, e per la morte, e per l’anima nostra, e per la carne,
dal cuor gonfio ed intento, ecco, il mio canto nuovo.
Sfugge, per sua natura, dallo scandere, un dì perpetuato
dal genio italico, sopra la rima antica,
puro e nativo; oh, inconsciamente puro!
per sgranarsi, di sotto alle volte del cielo immenso della Patria,
già deviato dalle consuetudini oziose,
per altre armonie,
unico e posseduto dalla mia volontà.
Domanda troppo alla facoltà d’inventare. Integra un’Ars poetica. Viélé Griffin nei Cygnes:
Au chant perpétué vers lui de ce doux mètre,
Né de mes doigts inconscients et qui dévie,
Malgré le vaste bruit des siècles, pour soumettre
Au rêve de mon coeur le rêve de ma vie.
Per lui è l’estasi che Isolda anelante singhiozza:
Nel flutto ondeggiante
di un oceano di beatitudini,
dell’onde e dei vapori imbalsamati,
Tutti i Beckmesser, come un giorno ad Hans Sachs, hanno tentato di riderci in faccia, accostumati al facile canone fondamentale e cercando di allontanare da loro il rinnovamento. È come se avessero tentato di impedire in Aprile la Primavera. Essi hanno avuto la prescienza di una prossima fine ingloriosa. Il verso libero «elimina dalla letteratura li eccellenti poeti mediocri, troppo ripullulati sulle facili pendici del Parnaso», ripete Viélé Griffin; sì che oggi è necessario aver ingegno o non esistere come poeta. E il Moréas, alli intervistatori della «Littérature contemporaine» (1905), insisteva come vent’anni prima: «Ciò che legittima il verso libero è il cattivo uso che molti dei nostri poeti anteriori hanno fatto prima del verso tradizionale»: ed Henri de Régnier li informava: «Credo che oggi il verso libero sia costituito come strumento. Il suo avvenire dipende dai poeti». E non saranno li «snobs» dell’ultima ora che lo metteranno a male; non si piega alla violenza od al capriccio delli impudenti brutali, né alle flaccide carezze delli imitatori. Poggia su cima acuta, vi si bilancia. La brezza leggiera di un volo di colomba gli turba l’equilibrio. Trabocca dall’uno o dall’altra parte, scoscende e precipita verso il ridicolo o verso la deformità. Ciò che temeva Luigi Capuana:
Perché gli scimiottini dell’arte
non san distinguere il bene dal male
e vorran, forse, ora svagolarsi
non fu ancora permesso. I piccoli scrittorelli si esercitano in altro campo. Hanno spento di presta morte il bozzetto rusticano dilagato di sotto ad un calco spugnoso, dall’arte grande e severa del Verga, poi, riscompisciarono la pornografia senza scopo di una Argia Sbolenfi, dopo d’aver risciacquato dozzinalmente Postuma. Quindi sul verso barbaro si esperimentarono variazioni scolastiche, che più hanno infastidito il nobile rappresentante di una generazione più generosa dell’ultima, che non l’inettitudine delle critiche. E vi furono dei farmacisti senza diploma, che ci apprestarono delle tisane oppiate e nauseose copiando, colla solita ipocrisia, uno svampato Fogazzaro: come l’erotismo inquieto ed instabile del D’Annunzio, eccitò la foja a farci sciorinare iperuomini da un soldo, che han trombettato da Dostoevskij a Nietzsche, senza sapere di contradirsi. Più recenti sono i pulcini nati jeri, che corrono dietro la chioccia, che razzola lontano e chiama; i Pascoliani, colle lagrime famigliari non mai asciutte all’angolo dell’occhio; arcadi di campagne corrotte dal miasma e dalla pellagra, intenti ad udire gorgheggio di fringuello, gracidar di rana, speranze vocate dalla precoce senilità in cerca di un vago ideale egoistico di pace, di amore e di benessere mediocre, che è una vigliaccheria.
Emerson, che fu molta parte di pensiero nell’opera del Whitman, si doleva: «I nostri poeti sono delli uomini di ingegno che cantano; non figli della natura. Per essi l’argomento è cosa secondaria; è la finitezza del verso la principale. — Non imitate mai — siate voi stesso». Onde l’altro, nelle Foglie d’erba: «Il grande poeta non fa parte del coro... non è fuorviato da regole, governa. L’universo ha un solo grande amante perfetto. È il grande poeta. — Il grande poeta non moralizza — non applica dogmi — non fa scuola, perché conosce ottimamente l’animo umano. Il quale ha l’immenso orgoglio di non accettar mai lezioni da chi si sia, o deduzione alcuna, se non gli sgorghino, per loro stesse, dentro».
Con ciò non chiamatemi, e con lui, che ne avrei piacere, paradossale, né nemico di un dogmatismo per rifabbricarne un altro, subito dopo. Viva il verso libero, colla rima e l’ottava ed il sonetto; la fine di una forma letteraria non è data dal dotto sedentario, ma dalla disoccupazione nella quale il popolo la lascia cadere obliata. Carducci ne addottrina: «A certi termini di civiltà, a certe età dei popoli, in tutti i paesi, certe produzioni cessano, certe facoltà organiche non operano più». Noi avremo delli organi parassitarii senza funzione, un puro lusso, una pura ricchezza fastosa e pesante: con questi paludamenti d’apparato non andremo più per le vie. Ma, d’altra parte, non è il glottologo, il sapiente, od il critico che possa dire: «arrestati!» alla tensione di un muscolo, alla funzione di una lingua. La decadenza non si impone per sillogismo; come il delitto o le virtù non si fanno abortire; né si sollecitano nell’uomo per disposizion di legge. I nostri verdetti, le nostre sanzioni s’aggirano arbitrariamente, per lusso ideologico, sul vivo, sulla carne, sulla energia della natura. Il nostro progresso è nell’avvicinarsi ad essa, nel camminare con lei, nel conoscerla e nel sentirsi una sua emanazione: per l’artista, la perfezione della forma è l’aspetto conoscibile del mistero armonico del mondo; è l’attestazione della sua scoperta, è l’espressione del suo amore. Il progresso, che non ammette i dogmi, ma una scala di verità una all’altra superiore per posizione, non ci può pervertire. In fondo, colla dimostrazione che il Codice, qualunque codice e la Bibbia, qualunque bibbia sono delli elementi «sociali antinaturali», il progresso ci libera dalla perversità, che non è data dall’essere noi animali, ma dalla falsa persuasione nel non volerlo essere. Così la lirica è la più alta espressione dell’uomo, dell’uomo senz’altro: — s’egli si aggiunge delli aggettivi, si diminuisce. Il suo grido d’amore, d’angoscia, di meraviglia, di pietà è la partecipazione canora di passione della sua vita, alla vita del mondo.
Su questo non consiglio, né condanno. Per vent’anni ho proseguito, senza debolezze, senza rimpianti, senza defezioni, la strada aspra ch’io mi era segnato a traverso la foresta selvaggia; e, per il mio bisogno, se non vi ho tracciato una via imperiale, serpeggia comodamente per me, un ameno sentiero di montagna. Oggi torno a professare li stessi principii, come quando incominciai ed ho l’orgoglio di una coscienza intatta e ferma e la superbia di aver preveduto. Delle voci giovani sento vicino ripetere, con altre parole, lo stesso motivo, ancora embrionale, ma sincero ed intenso. L’altra generazione che ci segue è più alacre, pretende di più, ci incalza e ci vuol sorpassare; ha fretta di mettersi in mostra, ma confonde volentieri, perché è più facile, il successo col merito. Svampato l’impeto, saziato l’appetito, si fermerà a meditare: dopo, colle forze rinnovate ed allenate dalla avventura, potrà scoprire e divulgare altre verità forse opposte alle nostre e più utili. Non me ne dolgo: l’opera loro non può distruggere la nostra: la continuerà.
Alcuni adolescenti generosi si sono accostumati a chiamarmi «maestro»: ed ho paura di questo onore, perché, tra noi italiani, si fregiano calvizie e barbe canute, ed io mi sorprendo tuttora nello specchio, che raramente mi consiglia, con barba e capelli oscuri e pieni. Il mio vezzo di guardare avanti sempre, mi svia le occhiate da quanto mi seguita; e la speranza mi sostiene oltre il merito. Però, non ho mai pronunciato verdetto definitivo, che lascio ai preti ed ai legislatori. Tutto quanto si dice e si spera, non può essere che provvisorio; è nella attualità un anello di congiunzione a ricollegare il trascorso, col divenire. Altri, ch’io osteggio, furono jeri combattuti sull’iniziare di una loro verità, che sembrò eresia ed è oggi sorpassata; domani avrò io stesso torto. E tutte le volgari contingenze di supremazia e di stabilità, che formano il fondamento e la delizia delle religioni e delle scienze metafisiche, non entrano nelle mie persuasioni. L’ideale umano d’arte è nel cammino indefinito. Nessuno può gridare l’ultima parola di «Fine»: e se credete che vi siano una dottrina ed un sistema perfetti ed assoluti, le troverete nell’assurdo, che è un modo negativo di vivere.
Oggi, quando le dinamo sono gonfie di energia elettrica, trasformazione della forza di una cascata, e dànno luce, fondono metalli; e vi è un entelekeja tangibile nell’atomo del radium, che è la condensazione delli elettroni irradianti; oggi, al fumo delle officine e delle vaporiere, alle idealità libertarie, allo sforzo generoso delle ricchezze della mente e dei forzieri, alla grande inquietudine egoistica ed imperialista dei popoli ed alla cosciente generosità, al sacrificio divino del singolo per una conquista di scienza e di libertà; oggi, risuona, consuona e dà il metro il verso libero.
Domani, conquistata e sicura la viabilità aerea, confusa la morte colla vita, fusi in una grande famiglia li uomini in pienissima libertà, l’espressione della lirica sarà la semplice parola comune e famigliare d’affetto e d’amore, la sicura parola mistica, riconfortata dalla simpatia universale; perché l’uomo avrà consacrato a se stesso la sua eterna divinità e non potrà più temere di sé, dei fratelli, di quanto sta sopra il firmamento e sotto dentro le viscere fucinanti della Terra. La poesia sarà imperialmente sovrana, l’accento consueto della famiglia redenta dalla ossessione del dio e dei padroni per sé ed al proprio destino.
Ecco, in breve, troppo in breve per la vastità del soggetto e per la sua importanza, qualche periodo di risposta alla vostra inchiesta. Compiacetevi, caro ed ottimo Marinetti, di aggiungerla, per quanto valore abbia, alle altre che uomini letterati illustri e più noti di me si sono affrettati di darvi sull’argomento. Se vi ho parlato un po’ troppo di me, incolpatene la materia. Desidero, nella grande ignoranza, forse da me meritata, che molti hanno sulle cose mie, ch’essi sappiano come io abbia preceduto anche in questo chi va per la maggiore. Non domando ostentazioni d’etichetta a mio riguardo, perché i motivi araldici del protocollo male consuonano in casa mia; non ho maggiordomo, lacché, diplomatico, che me li faceva valere, né lo vorrei. Ma è bene, qualche volta, svestire la modestia, che è una cattiva maschera all’orgoglio e lo immiserisce senza ragione: così il tacere od il sorridere non vengono presi dai superficiali senza quel condimento d’ironia che tonalizza espressivamente il sorriso ed il silenzio. — A voi, mio buon amico, salute ed augurii. Vostro.