IntraText Indice | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText |
I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio
Ma, in sull’incominciare, quale povera e flaccida e mal coordinata letteratura si ebbe dinanzi! La ragione estetica d’Italia aveva subìto li ultimi oltraggi, prima e durante la rivoluzione; chi reggeva poi la somma della cosa pubblica era un soldato, o un funzionario; veniva dal campo di battaglia, o dall’uffici burocratici; vi portava troppo disordine, o troppo ordine; la nazione, intanto, aspirava ad un benessere reale, all’azione diretta dei muscoli, a fabricare dei congegni di scambio, a tracciare delle nuove vie commerciali, a completare i mezzi di una esistenza propria, a rivendicarsi dalla soggezione economica straniera, come si era fatta indipendente, ed, all’aspetto, intiera. Noi, in quei cinquant’anni di lotte, ci accontentavamo dell’arte fredda ed antica, delle memorie; i dotti, se amici della libertà, subito discesero dalle altezze formali per discorrere piano colla plebe, con parole plebee, perché comprendessero, perché, così, vi fosse la glossa immediata e feconda al pensiero; li altri, parrucconi, vecchie chioccie amorose, a covare il sacro fuoco nei bui dispensari delle biblioteche e dei musei, scandevano Ovidio, seduti al focolare e desideravano i Croati da per tutto, l’Indice colla Santa Inquisizione in ogni luogo.
Le piaggierie antipatiche e vili, le gelate instaurazioni della mitologia classica, le vampate nebulose di un romanticismo d’imprestito, avevano avuto fortuna, venivano anche ben pagate e protette dalle sette polizie d’Italia che facevan capo a Vienna ed a Roma. La musica non aveva saputo dare che una incerta melopea, presa ad imprestito da un’opera detta Dama Caritea, per accompagnare, nel 1831, un inno alla Libertà; nel 48, s’improvvisarono versi e suoni, sbadigli di vecchierella stanca di filare; Goffredo Mameli, giovanetto apollineo, tradusse il romanesimo iniziale nostro col romantico «elmo di Scipio» e lo sconciò, in una versiera da crociato, mentre Rouget de Lisle, in altra e quasi simile circostanza, aveva trovato una Marsigliese fatidica e potentissima. In quel tempo, in cui i patrioti di cuore avevano molto da fare, la letteratura rimaneva nelle mani delli indotti, o dei retori. Manzoni stesso, che dal 1796 al 1870, aveva visto, sotto i suoi occhi, conformarsi la patria, non aveva mai dettato il verso che santificasse o Mazzini, o Cavour, o Garibaldi, o Vittorio Emanuele; e della prudente riserva i preti gli sono tutt’ora grati, e lo hanno fatto, ironicamente, istitutore di nazionalità.
Il manzonianesimo aveva, sotto queste benedizioni, dilagato per le scuole ed i seminari. Tragedie, settenarii, romanzi, trattatelli, tutto derivava da quella fonte; oggi ancora se ne trova l’influenza in De Amicis, per l’una parte, per l’altra in Fogazzaro. Si lasciò che verso il 1860 la moda e la piaga andassero a decadere ed a incancrenire, balbettando senilmente, colli abatini rosminiani, affidatisi a scrivere in quel gergo le consolazioni e l’offertorio per le anime pie, ritornate all’ovile, dopo molto aver goduto, nel reprobo vagare, lungo le fiorite praterie della mondanità.
Guerrazzi, che fulminava instancabile, veniva lasciato in disparte dalla gente nuova, che gli sorrideva vicino e non comprendeva che mai volesse di più questo fegatoso quarantottista; ed egli infuriava, perché aveva più ragione delli altri ragazzetti consorteggianti. Moriva astioso, dopo di aver udito, su di una piazza della sua villa, suonar la marcia di Gabetti, commemorando non so che avvenimento aulico ed austriaco; rifuggendo nella morte, come in un riposo insuperabile, e gettandoci li ultimi sarcasmi disperati. La sua impetuosità di carattere e di letteratura ed il suo delirio di passione lo misero tra i dementi, suffragandone il giudizio la scienza antropologica: i suoi difetti erano sapientemente messi in mostra da chi sapeva farlo per proprio tornaconto; si tacevano volentieri le virtù prime, tra le quali la fierezza indomita ed il disprezzo per la mediocrità, un fragrante amore per tutta l’umanità e diffidenza per l’uomo.
Per il resto, vi era una frollezza, un’incuria, una disperante improprietà in tutto quanto si diceva e si scriveva, ed oltre la politica, giornalismo coraggioso, milizia e filosofia di ogni minuto, il nerbo del periodo italiano, il sapore italiano del nostro sermone, venivano affatturati dai cruscanti fiorentini, da quelli che lambiccavano, a tavolino, freddi e stitici le belle frasi senz’anima e senza coraggio. Troppo presto era cessata la ironia e la satira di Giuseppe Giusti; il quale, giovane ancora, vide l’Italia, sollevata, ritornare in servitù e l’Austria e i Principotti troppo lieti di una impensata vittoria. Cessò lo stridere acuto, perseverante della sua lima ad acuire i denti di acciajo sottili e mordenti delle facili canzoni venustissime; mancò la fervida imagine popolare e perfetta a rivestire l’impeto di una coscienza nobile, che aveva postillato la vanità, la vigliaccheria, la incoscienza di quanti, di molti italiani, rimutando casacca, si acconciavano a tutti i governi, trapassati in Toscana sotto la protezione leopoldina.
Le sfortune delle cospirazioni mazziniane erano sfruttate, con lenta astuzia, da Cavour; il «6 febbraio» milanese suscitava la reazione; si riparlò, dalla così detta gente per bene, di assassini e di pugnali, con orrore. Cesare Cantù, che avrebbe avuto l’imprudenza di lagnarsi con Guerrazzi, perché il nuovo regno non lo aveva insignito del laticlavio, sottoscriveva all’indirizzo di protesta e di scusa, che i feudatarii lombardi avevano compilato, per umiliarsi al duplice trono dell’aquila bicipite. Quindi, Mazzini, come letterato, era venuto in discredito; troppo vicino, troppo severo ed importuno, condannato dalle mille opportunità savoine e tedesche su ciò venute in accordo. E la sua prosa limpida, colorita e trasparente come un cristallo, il suo amore commovente e convincente, lo scalare sicuro delle idealità, verso l’avvenire, predestinando forma alla poesia ed alla musica, come filosofia di governo per una Italia una, destinazioni geniali di razze slave e romaniche nei Balcani, sembravano fantasie di allucinato e pretesti poco confessabili di settario deliberato alla guerra civile.
Coll’intervento armato, Francia, nel 59, ci soccorse nella miseria e fece peggiore la sciagura estetica. I nostri editori sottoscrissero dei contratti collettivi per importar traduzioni. Si incominciarono le Collane, i Florilegi romantici, per cui Dumas, Sue, Kératry, Silvandy, Alphonse Karr, Silvestre, Victor Hugo venivano ridotti, perdendo ogni grazia di stile e d’imagini, schiettezza d’eloquenza, col rimanere secco e legnoso di una favola, dell’intrigo, dell’apparato dramatico. E però, il portinaio li comprendeva e li leggeva, colla stessa facilità della dama del primo piano; letteratura popolare, guasta formalmente, ma dove permanevano delle idee e delle cognizioni oltre alle comuni, correnti, allora, in patria; sì che il nostro cervello veniva a concepire con maggiore ampiezza, ma con minore profondità. Furono molti li imitatori italiani di quei calchi stranieri e mal connessi. La fantasia veniva tenuta per mano dal gusto parigino; li zuavi ballarono il can-can colle belle milanesi; tutto ci venne d’oltre le Alpi, cappelli e galloni per le signore e per i cocchieri, chiodini fatti a macchina e vizio orizzontale e dispensiero, champagne e grisettes, trasformate in crestaine
procaci rondinelle della sera,
come Emilio Praga soleva cantarle; baldoria più chiassosa e petulanza militare, che tanto aveva indisposto il nostro Giovannin Bongee.
L’Aleardi terminava di modulare li ultimi gorgheggi della sua infinita mestizia, disincantato, nella bionda vaporosità lunare del Mediterraneo, dentro cui viaggiavano le ombre ghibelline e sanguinanti delli Svevi, postremo trovatore romagnolo, come un Sordello dimenticatosi, nei secoli, a cantare, in mezzo il diecianovesimo. Prati si sdilinquiva, scioccamente azzurro, obliato dell’Alpe trentina che lo vide, non libera, a nascere e morire; aulico chitarrista per nozze principesche, quando rinverdiva la geneologia allobroga, per fasto di carrosselli e per utilità di prebende rimuneratrici ed assicurate. Ed avendo lasciata la cattedra a Bologna, e quella offerta al Carducci, con lui si congratulava perché aveva scritto qualche verso ch’egli stesso avrebbe facilmente firmato come suo. Enorme impudenza, scusata solo dalla irresponsabilità della sua vanagloria: al vaglio del tempo, i prossimi posteri lo hanno già sentenziato.
Ma, nella pace dubia, tormentosa di sommosse, sulla male cementata unità, da una gioventù, che intristiva nell’ozio, inacerbita, cominciò a vaporare un soffio di speranze inattese. Vi furono rimpianti impazienti nel vedere quanto diversa era, dalla sognata, la patria; lieviti di un repubblicanesimo aspro, sconfessioni di un lealismo non appagato: li stessi monarchici rifuggivano dalle ambizioni uccellanti del potere, e i conservatori si rinchiudevano in casa. Li altri tumultuarono fuori. Furono qui le prime espressioni dell’ironia e della esperienza acquistata; un imprestare dall’Heine, che scendeva dalla Germania acre ed attuale, bandito nei libri, dai compatrioti troppo rigidi per sapersi valere di quell’ebreo, mezzo convertito, ossessionato dal genio della rivoluzione francese. Boito, Praga si misero direttamente a distinguersi, a guardare più in là, a portare dei toni musicali nuovi, dei colori e delle sfumature inedite nella poesia, ad essere nostalgici di un qualche cosa di più saporito e di più diffuso ad un tempo; a sentirsi annojati ed incompresi, col bisogno di una plastica più robusta e di una più intima e più profonda concettosità.
Bardo, Cavallotti, di un’onda facile, non sempre purgata ma libera, di una eloquenza liberatrice e tribunizia, innamorato di bei casi eroici e passionali, dietro ai quali sformava il giusto intendere la vita pratica, con molti difetti letterarii, tutti scusati e resi quasi virtù per la franchezza del suo carattere, che li onestava d’azione, rispecchiava, nelle lettere, la foga, l’impeto, l’emulazione garibaldina e dispersiva: cominciava a cantare il culto alli eroi nostri, ad incidere, nella istoria, perennemente i loro nomi che stavano per essere dimenticati. — Tutti davano le diverse note, li spunti, donde sinfoniava lo stato d’animo dei contemporanei a mezzo il secolo XIX: morbosità respirata e ributtata di Baudelaire frainteso, prescienza di una disciplina sicura, di metodi scientifici e razionali; tutti formavano come un «Parnaso nazionale», mentre si aspettava un nostro e maggiore Leconte de Lisle, che avrebbe tutti oscurato col sorgere; li avrebbe riassunti, colla voce ampia, soffocato i mormorii, l’eco dei mottetti, la cadenza dell’ultima canzone; ricomponendo, una volta ancora, in forme pure e classiche, la poesia italiana al suo perché operante e generoso.
Il cantore di Satana si sostituì colla sua disciplina a tutti i tentativi. Se rappresentavano un desiderio di modernismo, una volontà di conoscere li uomini, le cose, la storia, non dentro le formole ed i paraventi della retorica, ma nella immediata essenza, stettero, come un fragile ponte d’assicelle, che divide nuove terre dalle troppo conosciute; come unione spontanea tra l’ultima fase del romanticismo, peggiorato in una scialba scolastica ed il fare spontaneo e rigoglioso del vero temperamento poetico; il quale vive la poesia, come la vita, e si compiace a distruggere i dispositivi della catedra, circonfusi di metafisica. Carducci annullò, col suo apparire, questi diversi fenomeni che servirono a condensare, per lui, materia e forma, ond’egli le trovasse al punto d’essere maneggiate dalla sua genialità. D’un balzo, ricorse, per compiere il rinnovamento, a quarant’anni prima, alli istitutori delle nostre lettere moderne, allorquando la possibilità di una specie d’indipendenza, concessaci dalle bajonette napoleoniche, ci dava agio a sperare ed a pensare italianamente: a Foscolo ed a Leopardi; al poeta dionisiaco ed al poeta apollineo, fregiate le tempie delli oscuri nenufari ipogei, che Persefone ritrovò sul greto d’Acheronte, rapita periodicamente, da sei mesi in sei mesi, dalla prateria di Ella: ai poeti dimenticati per paura di tiranni, astio di contemporanei, livore di indegni, ignoranza di popolo.
Leopardi veniva intanto vituperato giornalmente dalle beghe miserabili ed interessate di una famiglia bigotta ed avara, da un Ranieri, non so, se invidioso, o credulo troppo. Il suo pessimismo, il suo scoraggiamento, l’epicureismo voltosi, non nella serenità stoica, ma nella nera disperazione dell’esacerbato, consuonavano male alle orecchie di coloro che si confidavano nella divina provvidenza in ogni affare: la passionalità, lampeggiante di splendori greci, l’indagine disincantata della umanità, il disprezzo al pervenire, già che natura lo aveva posto in alto, e il non dover arrampicarsi, sudando, per giungervi, non erano esempi da porsi avanti in epoche di turpi mercati, di facili dimestichezze, di ben pagato servire. Foscolo era lo spauracchio, il cattivissimo maestro; il poeta che distruggeva la propria opera, colla propria vita; l’esagerato, il libertino, l’imprudente in ogni cosa: a Milano, si considerava con un odio speciale, per le calunnie del Confalonieri, il tacere remissivo del Pellico, la gelosia dei mariti: l’astio della nobiltà schiaffeggiata e della plebe scudisciata non potevano così presto dimenticare. E l’Austria, che aveva tentato col Ficquelmont, il Bellegarde ed il Bubna di comprarselo invano, aveva soffiato nelle ire meschine, gli faceva imputare una parte all’assassinio del Prina, tradimenti in Inghilterra, ferocia e scostumatezza. Per ciò si rese possibile, il mal gusto, lo sdilinguirsi, il distinguere arte da vita, azione da poesia, a sconvolgere, nell’estetica, caratteri, attitudini, generosità.
Il cantore delle Primavere elleniche ritornò a loro direttamente, come ai padri riconosciuti; riprese lo stesso ideale d’Alfieri, di Foscolo, di Leopardi, di Niccolini, di Guerrazzi, conclamò la grandezza reale e fittizia della vita antica; gettò a fondersi, nella fornace del suo entusiasmo, le memorie delli eroi e della patria, l’anima della Gloria, per estrarne l’arme battuta a difesa e ad offesa, perché l’Italia se ne vestisse. Brandendo un gonfalone, garriva la tenda rossa, nel sole, in faccia ai pigri; portava ricamato: coscienza e fiducia solida e feconda: culto del sentimento nazionale unitario: libera sincerità: poiché il suo vero era quanto sentiva sinceramente; né gli prevalsero, né lo rigovernarono consigli opportuni nel minuto che fugge, per contenerlo, per renderlo monumentale ed integro secondo un presupposto: non ha creduto di agire sempre ottimamente, ma non nascose mai il suo gesto.
«Quanto piacqui a me stesso (perdonatemi) quando mi accorsi, che la mia ostinazione classica era giusta avversione alla reazione letteraria e filosofica del 1815 e potei ragionarla colle dottrine e gli esempi di tanti illustri pensatori ed artisti; quando sentii, che i miei peccati di paganesimo li avevan già commessi, ma in quale altra splendida guisa!, molti dei più nobili ingegni ed animi d’Europa; che questo paganesimo, questo culto delle forme, altro, infine, non era, che l’amore della nobile natura, da cui la solitaria astrazione semitica aveva sì a lungo e con sì feroce dissidio alienato lo spirito dell’uomo: allora, quel primo e mal distinto sentimento di opposizione quasi scettica divenne concetto, ragione, affermazione; l’inno a Febo Apolline diventò l’Inno a Satana.»