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Ha credito e voga una facilità scolastica, colla quale professano glossatori spicci e conferenzieri d’università, che Ugo Foscolo sia stato poeta classico; e tutti la credono. Classico, nel modo col quale essi lo intendono, no; nel modo con cui io lo voglio, sì; né tanto meno possiamo concordarci. Classico significa, per me, chi crea ex novo, chi dà fuori, con un suo metodo, l’anima sua; chi interrompe una scuola e ne foggia un’altra, senza volerla, ha séguito e lo rifiuta; non è pedante; muove guerra ai pedanti34. Se, comunemente, classico sta in opposizione a barocco od a romantico, come vogliono esprimere glossatori e professori, questa è etichetta per cui differenziano, alla meglio, attitudini diverse ma non conviene col mio concetto. L’errore è banale; a questo pur troppo, oggi, per farsi comprendere bisogna accedere, indulgendo al luogo comune, perché si viene a considerare come fondamentale la forma e non la sostanza. La storia letteraria35, del resto, ha abusato di tali confusioni; al modo, con cui si presenta l’opera, attaglia il predicato e trascura il pensiero, la vita stessa, donde l’opera deriva.
Foscolo è classico per la manifestazione pura ed italianamente esatta della frase; ma il suo pensiero è riflesso della esistenza grandissima di un uomo eccezionale vissuto tra due secoli
l’un contro l’altro armato
in un’epoca di esplosione mirabile d’energia, impersonata dal Buonaparte; in un impeto di guerra e di rivoluzione; nel vampare dell’anima latina contro la feudalità, ultima vestigia della egemonia germanica sopra l’Europa; nella dispersione di mille forze individuali, nell’inizio di una fusione di gruppi etnici; nel flagrare di un puro concetto, non mai prima promosso alla luce dei secoli, quello di libertà d’uomo e di patria, di libera disposizione oltre e sopra le imposizioni imperiali e teocratiche. Egli raggiò, spirito incandescente, in questo gran moto; lo contemplò colla sua riflessione stoica e lo descrisse colla plastica determinata; ma non per questo è il classico voluto dalla scuola. Incomincia il vero romanticismo latino; quello che starà per essere anacquato dal Manzoni (e lo aveva sospettato e glielo avrebbe voluto proibire, se non fosse stato a Londra, e se qui l’altro non avesse avuto ajuti e protezioni); seppe quanto importi conservare carattere nazionale alla espressione, ma anche come si debba nutrire il pensiero di una nazione, di tutte le scoperte, di tutte le ricchezze umane, vengano d’ogni patria. Perché l’uomo di un’epoca, davanti alla filosofia, non si distingue in varie nazionalità, ma ne’ varî gradi di coltura e di intelligenza.
Foscolo è un individualista puro e ghibellino; in sintesi, è l’Unico: con ciò si accosta ai romantici rivoluzionarî; niun altro suddito più pericoloso ed indisciplinato ebbe Napoleone; il poeta non appartenne che a se stesso, e si ubbidì, qualche volta ribelle anche alla sua propria volontà:
(Di vizio ricco e di virtù dò lode
Alla ragion, ma corro ove al cuor piace.)
per soggiungere:
Meritamente però ch’io potei.
Gian Giacomo si rivolta in nome della sua sensibilità ferita, addolorata dalle angoscie del genere umano, a mezzo il XVIII secolo; Byron, imprecando, non bada che a se stesso, si pone sopra il codice, Lucifero rivoltato; Foscolo intende il dolore della patria italiana, l’accomuna al proprio: scatena l’impeto della propria inquietudine: interrompe l’epoca, contro la rivoluzione, contrastando all’Imperatore che se ne era fatto l’araldo armato, e contro la reazione, non piegando alli Austriaci di ritorno. Non avrebbe osservata che la sua propria legge dittatoriale, se avesse potuto rendere persuasi i concittadini a considerarlo più e meno di un letterato, cioè Poeta Re.
Foscolo è disarmonico, mirabilmente; il suo carattere ha radici nella natura di due suoli, il greco ed il veneto; frondeggia per mezzo Europa, nutrito dalle Camene Fiesolane. Le sue Grazie non importano nulla dalla Mitologia classica: egli ne è il mitografo; usa di antichi nomi, ma vi simboleggia sotto attualità; il suo Mito è contemporaneo, è Tipo: tali furono l’Ortis e Didimo Chierico. Non si accontentò di delibare le apparenze e di renderle, di ascoltare i rumori della vita e di ridirne bellamente le voci, di veder fiori e foglie e di ridipingerli con grazia, aggruppati come voleva dalla sua fantasia: ma volle, oltre la rappresentazione chiara e palese, sapere le cause astratte, conoscere il mistero che ogni cosa racchiude dentro la sua più secreta fibra. La sua perspicuità non sopprime la sua profondità: tanto egli ha veduto in fondo ed è così limpida e sicura la sua percezione del fatto intimo ed ignoto, che, quando lo rappresenta, sembra a ciascuno di averlo già conosciuto come antica verità; mentr’egli, in quel contatto, che non è metafisico ma ipersensibile, si spaventa e si esalta dolorosamente della sua stessa potenza e si considera con ineffabile patema. Foscolo ha cercato ed ha trovato più di quanto gli potevano metter inanzi la semplice osservazione ed il puro piacere del bello. Il suo intendimento innamorato della formosità classica ebbe un altro bisogno che soddisfece. Venne in contatto e si assimilò, per fortunata prescienza, l’elemento astruso e misterioso delle sostanze e ne intravide le fervide passioni nelle energie e nei trapassi, fenomeni ideali, non so se più belli, ma certo di maggior valore. Di là tentò quella unione, la quale, se lo fece triste, lo regalò della possibilità di una grazia grandissima, questa, di renderlo persuaso del proprio poema come di un essere vivo, reale ed in funzione.
Egli desiderò di fecondare il tempo di se stesso e di adattare, al suo desiderio ardente, la realtà; non credè alli altri Dei, perché dentro si adorò36, amore, disperazione, orgasmo, coraggio, traviamenti: ed è un grande egoista, che riversa il superfluo delle proprie sensazioni in modo inimitabile, eccitando intorno corrispondenze, polarizzando a sé le attività migliori; suscitando azioni a paragone. S’io volessi ripetere l’errore del Barrès, direi che fu un professore d’energia senza saperlo: ma Napoleone, che lo aveva compreso, ne ebbe paura, testificando di averlo anche saputo distinguere sopra li altri e di tenerlo sospetto.
Ringiovanisce la tradizione romana, colla cavalleria nordica; ma corregge, colla romanità, Shakespeare e Macpherson, l’ironia francese e l’humour inglese, l’idealismo di Goethe: lirico, ammette l’impero incondizionato della sensibilità sopra la ragione, del senso sopra la legge, dell’uomo sopra li uomini; e la sua sognata republica è aristocratica-libertaria, come quella di Vittorio Alfieri, che non voleva accettate costituzioni di re, se incominciavano pigre democrazie, mediocrità numerose e trionfanti per il numero. Foscolo impacciò come cittadino il governo, che avrebbe voluto reggerlo; come amante le amiche, che avrebbero desiderato di fermarlo al loro fascino per sempre, e si trovavano non di meno liberate, s’egli le abbandonava; come letterato il critico, che non seppe mai intiero spiegarlo; come poeta la poesia stessa, a cui si era imposto come un despota, provocando una crisi tumida di mirabili risultati. Ha realizzato se stesso contro ogni ostacolo; fu un disordine, che, rivolgendosi rivoluzionariamente ai sentimenti ed alle idee del momento, sollecitò un’altra direzione all’arte, un altr’ordine massiccio poetico: senza Foscolo, non sarebbero stati possibili né Guerrazzi, né Mazzini; — per tornare, dopo trent’anni di palude neo-guelfo-romantica, alla vera destinazione di nostra poesia, Carducci gli s’invocò e corse a battagliare col suo patrocinio. — E, senza Carducci, noi pure non avremmo potuto esistere. — Colle Grazie ed i Sepolcri, col Jacopo Ortis, colla personificazione didimea, egli ha imposto la presente e moderna orientazione all’indole poetica italiana; dimostrò che si poteva essere, nella forma classico, romantico — cioè attuale ed avvenirista — nel pensiero, liberale ed aristocratico, — poeta e scettico, ammettendo dubio e fede, adorazione e bestemia: fu patetico di grandezza e di magniloquenza, scientifico, esatto, perpetuamente operante colla sequenza dell’opera sua. Foscolo ha in germe tutti li attributi del simbolismo italiano, avendone riassunti i motivi, come tante perle in una collana, lungo lo svolgersi della nostra lirica. Noi dobbiamo risalire a lui classico-romantico per trovare la nostra indicazione pura e diritta.
Per cui Egli è Genio. Giunse al vertice di una fase biologica e mentale illustre; si affaccia alla storia sotto le attribuzioni di una divinità umana; Eroe, nel senso di Carlyle, uomo che si è superato. Trasse ogni cosa da se stesso, dalla propria natura; perché il gesto proprio della genialità è il cercare volontario di un modo diverso di realizzazione; e, tutto quanto si impiega a questo scopo, esprime le migliori attitudini umane. Egli è poeta grande, che si foggia i mezzi donde possa rifulgere la sua personalità: eccolo antinomista nato, vivendo ed operando, non secondo le regole, ma nell’eccezione, sorretto dal dono doloroso e meraviglioso, il Genio su cui si appoggia. — Il genio è una montagna che sorge ad un tratto, in rasa pianura: interrompe l’orizzontalità. Espone al sole, d’ogni parte, un aspetto nuovo, perché lo illumini e lo baci: l’ombra segue, nel giorno, il giro del sole, e, sul piano, segna e dispone la sua oscurità, percorrendolo tutto col viaggio dell’astro. Il genio dà ombra sopra ogni luogo, non dimentica mai il suo ufficio: offusca la tabella d’avanzamento già predisposta nelle anticamere e nelle segreterie delle Academie e dei Ministeri, sconvolgendo le norme burocratiche, che i professori d’estetica impongono alla gerarchia letteraria. — Per lui si compiono, nella sostanza e nella forma, rimaneggiamenti di tale profondità e di tale valore, che nessuna moda, nessuna singolare mania di dilettantismo sono capaci di permettersi; perché, mentre sovvertono, hanno profonda radice nel carattere della stirpe, da cui l’artista scaturisce, nella necessità del tempo e dell’ambiente che lo circondano.
Così Foscolo determinò e scoperse un’altra via alla metrica: anch’egli, rivoltosi alle fonti, ridusse l’endecasillabo sciolto, verso di carmi, verso lirico e l’impiegò, spogliandolo di tutti li attributi didattici e narrativi, aggiungendogli il fascino delle espressioni passionali della sensibilità. Canto ritmico, è più sonoro della strofa rimata, si adatta, si snoda, si sdraja, si attorce, si sviluppa e s’avviluppa sopra il pensiero genuino; tutto è completo ed esposto intatto, come una rosa viva appare dietro la chiostra di cristallo di rocca, che la serba e la protegge fresca e colorita. Con ciò egli aveva abolito i modi pigri e sonanti, come le campanelle appese alli angoli biscornuti de’ tetti di majolica delle pagode chinesi, che squillano giorno e notte se la brezza, passando, le scuote; così, aveva messo tutto l’animo suo37 nel suo verso, condannando armonie pleonastiche, vani suoni per orecchie indotte e facilmente accontentate.
Qui era il Genio, nel predominio e nella costanza di questa idea personale, insistenza di una determinata volontà operante, ipertrofia cronica dell’attenzione38, atto diretto e formale della forza psichica. — L’attenzione, in fatti, coll’arrestare il mecanismo fisiologico, ed impedire la dispersione delle energie in una serie di movimenti reali, sollecitati dalle sensazioni, mette da parte questo risparmio e lo rivolge a profitto di una più lucida ed intensa percezione; non lascia disperdere, nell’atmosfera e nell’ambiente, le onde nervose sovrabondanti, ma le coordina, le avvia e le aggruppa, riserva e nerbo, trasformandole39 in aumenti concettivi, mentr’erano destinate a sciuparsi in impulsi d’emotività. — Ora, il Genio poetico, che è un serbatojo di forza psichica40, è tale perché capace di massima attenzione: coordina in sé i due cardini, genesi e divenire, crea personificazioni vitali, e per ciò, si assorbe in sé e nel suo pensiero; si projetta ne’ suoi diversi attributi, ente41 gnostico e fatidico, distinguendosi misteriosamente, come la divinità; diventa esorcista, scongiuratore, taumaturgo e profetico. Egli sembra inerte42 a contemplarsi; è fermo in fatti come una fiaccola incandescente, là dove non aliti brezza: ma ciascuno sa come la fiamma dia ai nostri sensi l’aspetto ed il risultato di una energia, luce e calore, immensa e vertiginosa vibrazione, fremito incalcolabile, apparente riposo, sotto forma di stella d’oro, fissa nella oscurità.
Così Foscolo: completo e denso nello stile, è inteso come classico da chi guarda alla superficie e non approfonda: gnostico si riversa e si riproduce in successive incarnazioni: profetico racchiude ed indica quanto avverrà, si assicura l’avvenire, cui già determina e comanda: trimurti e trinità; da qui rimane imminente sopra la direzione della poetica e del nostro modo di operare; Unico, i suoi aspetti si riassumono in Didimo. L’Anima di Ugo Foscolo è didimea, a sua imagine e simiglianza (come quella di Byron si riflette in Harold): noi sofriamo di un eterno poetico didimeo. La funzione del Profeta Minimo è antichissima; discende da Luciano, alessandrinamente; pervase le lettere italiane dal Pecorone di Ser Giovanni Fiorentino alla Hypercalypsis; è un’altra faccia del prodotto di evoluzione, del vertice illustre mentale che si espone, composto sul maritaggio fecondo di due antinomie, dove li opposti vennero a conciliarsi. Nel Foscolo, il sintomo del tipo incomincia col Jacopo Ortis.
Repubblicano, romanico, in sul finire del settecento, veniva contagiato da un soffio d’aria gelida, spirata dal Nord, e verso il 1800 apparvero le Ultime lettere di Jacopo Ortis. Tentativi sentimentali alla Crébillon colla saggia Albrizzi, tentativi sentimentali alla Petrarca colla candida giovanetta Roncioni, l’idillio di Pisa, bastarono a farlo persuaso di un dolore e di una necessità d’amare infelicemente. Ma l’Arese, Aspasia e sapiente distributrice di piaceri, lo pone a contatto col prototipo, Werther. Tra furie d’amore, languide tregue di voluttà, tempeste di gelosia, rimpianti lontani e vani per l’Isabellina non dimenticata, ma trascurata, giocondità di letto e salaci parole afrodisiache e consolatrici, Antonietta Fagnani gli traduce li spasimi delle lettere goethiane, bilanciati sulle placide e morbide contemplazioni di Carlotta. Così gli si vien dismagando il romanticismo che già gli fremeva nell’anima innominato, ma partecipato, donde si rivela; e ad un tratto accorge Isabellina43 calco di sua Teresa e se stesso trasformato nell’Ortis più vero e vivente. — Un Petracci cantante, Francesco Arese Lucini cognato, troppo assidui in torno alla incostante contessa, lo fanno decadere dal seggio occupato esclusivamente: in buon punto è chiamato all’esilio mascherato dall’onorevole impresa sulla spiaggia di Calais, coll’esercito italiano di osservazione; — e Foscolo si abitua a chiamarsi Ortis, suo nome nelle lettere alle amiche, segno del suo carattere.
La sua volontà fissa la persona letteraria, che continua a vivere oltre e fuori del romanzo per virtù spontanea; Ortis non è più una maschera, è un distinto e speciale organismo attivo; è il risultato di una finzione geniale e di una esistenza, un vero uomo. Foscolo-Ortis, ricomposto, materiato, determinato, è il poeta ed il poema, il padre e la creatura; ha fremiti ed impazienze italiche, disdegni improvvisi, pudori, rimorsi, disperazioni, angoscie, miscredenze romantiche. Quando la patria schiava, l’amata perduta, Napoleone trionfatore ed arbitro a dettar da Campoformio baratti di popolo lo esasperano, il tædium vitæ di Petronio e di Seneca l’assale; l’Ortis si uccide; Foscolo furoreggia e maledice. — Rimproverato dell’esempio funesto, che il suicidio indicava ai giovani scoraggiati, Foscolo rispondeva che il sopprimersi rappresentava una valvola di sicurezza per la società, ed era l’ultimo rifugio onesto per l’uomo che volesse permanere libero. Jacopo designava lo stato d’animo di una collettività: Rousseau calvinista mistico, oriundo parigino, da Ginevra, veniva a ritrovarsi col pagano italiota, nutrito sulle spiaggie del Jonio, tra l’eloquio greco ed il veneto, ricomposto a Venezia nella latinità; ma per incontrarlo aveva dovuto essere distillato dalla critica e dalla metafisica tedesca. A traverso la frase, che Goethe olimpico e sereno consigliere aulico a Weimar, aveva scritta per svago e per provarsi della sua virtuosità sentimentale, l’Emile e la Eloïse mormoravano le loro melanconie e declamavano i loro affanni: il giovanetto italiano di quella loro passione (Sehnsucht) e di quel dolore del secolo (Weltschmerz) tanto si incingeva da morirne. Foscolo, nella passione, aveva rinsaldato i due principî, faceva nascere, per noi, il nostro Euforione, che solo e dopo, a contrapasso di Byron, Goethe avrebbe veduto comporsi da Elena e da Faust: ma quella crisi, trionfata a dominazione verso il 1830, era stata già stabilita trent’anni prima nella nostra letteratura, gradino ad un’altra figurazione più completa, che avrebbe dovuto sorpassare anche la possibilità del romanticismo, in una espressione più geniale e determinata.
Una seconda volta lo Zacintio s’imbatte con un’altra anima del Nord, mesta, delicatissima, prima alimentata di speranze, poi afflitta e disincantata; sorriso pallido e doloroso, accento purgato da una arguta proprietà di lingua e da una sottile percezione d’innominate sfumature sentimentali. Ed è con Sterne, ironia e sarcasmo, riavvolti in una urbanità fredda e dignitosa; è, colla distinzione garbata ma piena di riserve anglosassoni, a Calais, a Boulogne, lungo le coste della Manica. Sofia e Fanny, le due bionde signore del tempo, l’una francese, l’altra inglese, si avvicendano nel suo cuore: il Viaggio sentimentale gli espone le sue pagine; eccolo Didimo Chierico44 a tradurre, la seconda incarnazione del Jacopo Ortis.
In tanto Foscolo patisce del doppio amore e del pessimismo estetico del pastore anglicano; ne riveste i periodi col più puro italiano e lo commenta colla storia inquieta di quei giorni: Didimo Chierico si innesta su tutta l’opera. Un terzo Foscolo si chiamerà così, lo vorrà fratello, lo invidierà di rimaner fuori dalli attentati cotidiani. Anche avrebbe dovuto esser Foscolo-Ortis-Didimo il protagonista del romanzo ultimo, di cui non si hanno che delle note di capitoli e marginalia, se necessità di vivere con fatiche letterarie, giorno per giorno, la quasi cecità, la morte sopravenuta, invece di questo abbozzo, ci avessero potuto tramandare le pagine complete, alla cui mancanza soccorrono in parte quelle del Gazzettino del bel mondo, matura e solida espressione didimea, attuazione formale del carattere descritto nella: Notizia intorno a Didimo Chierico, stampata in calce al volumetto intitolato: «Viaggio sentimentale» di Yorick, versione di Didimo, a Pisa, MDCCCXIII.
Didimo infine: Uomo e Tipo eroico, temprato dalla passione, dalla esperienza, dalla ragione; turgido di classiche discipline, saggiate coll’atto e colla scienza, la filosofia e la letteratura del Nord: Didimo è lo stipite maggiore e più distintamente designato nella istoria delle lettere nostre; a cui abbiamo la superbia di raccomandarci, da cui pretendiamo discendere. La nostra dottrina, l’opera nostra sono didimee: noi vi ripetiamo, con elementi contemporanei, la formazione del nostro carattere. Egli da Young, da Pope, da Sterne, da Shakespeare e dalla vita, attinge melanconia e amarezza pe’ Sepolcri; le Grazie fece vivere napoleonicamente, per trapassi dramatici; e quando sferrò un’ultima ingiuria a Milano, contro la sua nobiltà corrotta e vile, la sua plebe spagnolescamente tranquilla e campanilista; contro la corte vicereale, l’Academia gretta, i pedanti feroci ed ignoranti, i gazzettieri d’ogni moralità e senza moralità, i parassiti del Regno Italico, volle accostarsi al chierico giovanetto definitivamente persona, dotato d’animo profetico, per fargli dettare l’Hypercalipseos liber singularis, dove, l’odio, l’amore, lo sdegno, il disprezzo foscoliano traboccheranno; libretto di esilio, stampato a Lipsia e mandato fuori colla falsa data di Pisa, in cento quattro esemplari, donati per nobile e legittimo sfogo della sua passione. Ed il resto di Didimo Chierico tacque per sempre nel Romanzo a brani e lacerato, termine reticente de’ suoi ultimi anni.
Chi è dunque?45
Teneva irremovibilmente strani sistemi; e parevano nati con esso: non solo non li smentiva co’ fatti; ma come fossero assiomi, proponevali senza prove. (...) Vestiva da prete 46; non però assunse gli ordini sacri, e si faceva chiamare Didimo di nome e Chierico di cognome; ma gli rincresceva sentirsi dar dell’abate. (...) Fuor dell’uso de’ preti compiacevasi della compagnia degli uomini militari. (...)
Celebrava Don Chisciotte come beatissimo, perché s’illudeva di gloria scevra d’invidia, e d’amore scevro di gelosia. Cacciava i gatti perché gli parevano più taciturni degli altri animali; li lodava non di meno perché si giovano della società come i cani, e della libertà come i gufi. Teneva gli accattoni per più eloquenti di Cicerone nella parte della perorazione, e periti fisionomi assai più di Lavater. Non credeva che chi abita accanto a un macellaro, o su le piazze de’ patiboli fosse persona da fidarsene. Credeva nell’ispirazione profetica, anzi presumeva di saperne le fonti. Incolpava il berretto, la vesta da camera e le pantofole de’ mariti della prima infedeltà delle mogli. (...) quanto alle scienze ed alle arti asseriva: che le scienze erano una serie di proposizioni, le quali avevano bisogno di dimostrazioni apparentemente evidenti ma sostanzialmente incerte, perché le si fondavano spesso sopra un principio ideale: che la geometria, non applicabile alle arti, era una galleria di scarne definizioni: e che, malgrado l’algebra, resterà scienza imperfetta e per lo più inutile, fìnché non sia conosciuto il sistema incomprensibile dell’Universo. L’umana ragione, diceva Didimo, si travaglia in mere astrazioni; piglia le mosse, e senza avvedersi, ha principio dal nulla e dopo lunghissimo viaggio ritorna ad occhi aperti e atterriti nel nulla: e al nostro intelletto la Sostanza della natura ed il Nulla furono, sono e saranno sinonimi. Bensì le Arti non solo imitano ed abbelliscono le Apparenze della Natura, ma possono insieme farle rivivere agli occhi di chi le vede o vanissime o fredde; e de’ poeti de’ quali mi vo’ ricordando a ogni tratto, porto meco una galleria di quadri i quali mi fanno osservare le parti più belle e più animate degli originali47 che trovo su la mia strada: ed io spesso li trapasserei senza accorgermi ch’e’ mi stanno tra’ piedi per avvertirmi con mille nuove sensazioni ch’io vivo. E però Didimo sosteneva che le arti possono più che le scienze far men inutile e più gradito il vero a’ mortali; e che la vera sapienza consiste nel giovarsi di quelle poche verità che sono certissime a’ sensi; perché o sono dedotte da una serie lunghissima di fatti, o sono sì pronte che non danno bisogno di dimostrazioni scientifiche. (...) Il peggio è viver troppo. — A chi gli offeriva amicizia lasciava intendere che la colla cordiale, per cui l’uomo s’attacca all’altro, l’aveva già data a que’ pochi ch’erano giunti innanzi. (...) Quanto all’ingegno non credo che la natura l’avesse moltissimo prediletto, né poco. Ma l’aveva temprato in guisa da non potersi imbevere degli altrui insegnamenti; e quel tanto che produceva da sé, aveva certa novità che allettava, e la primitiva ruvidezza che offende. Quindi derivava in esso per avventura quell’esprimere in modo tutto suo le cose comuni; e la propensione di censurare i metodi delle nostre scuole. Inoltre sembravami ch’egli sentisse non so qual dissonanza nell’armonia delle cose del mondo: non però lo diceva.
Tale si presentava, in sul principio del XIX secolo, la specialissima genialità alacre di sentimenti, ardente e volontaria, l’eterno poetico didimeo. A lui i giovani della giovane letteratura, coscienti o no, si ricongiungono sopra le fluttuazioni dell’epoca, in sul principio del XX, due termini a saldarsi filosoficamente, il primo sul tempo napoleonico, l’altro sull’inizio, per altre avventure fisiche e morali, di un’altra ora rivoluzionaria, terminando un ciclo, incominciandone un altro. Per l’anima didimea si accostano l’indicare e il suggerire di Mallarmé, alla plastica carducciana: quanto Foscolo dice intorno a Didimo, Didimo ripete a noi in nome di Foscolo. Si aumentano lo sviluppo e lo scopo nella determinazione presente; la ragione delle lettere italiane è riposta di nuovo sopra quelle indicazioni, con queste s’avvia l’opera di vita riaccesa e riconfortata dal Carducci. Tutti noi fremiamo, rispondendo alle due voci, perché risvegliarono l’eco dell’antica nostra coscienza, refrattaria all’equivoco e deliberata verso la vera realtà e si eccitano le risposte della novissima volontà, ad emulazione della loro, pretendendo ad un’altra manifestazione, onde risuoni nel timbro unico della sua sostanza temprata in guisa da non potersi imbevere delle altrui influenze.
L’anima didimea48 ripalpita in noi; ciascuno di noi fa propria la profession di fede: bene, un secolo prima, il grandissimo stipite ci aveva vaticinati. E noi, prodotto di una evoluzione estetica e morale, ultime ragioni vive ed asserenti nella serie biologica delle lettere nazionali, non vogliamo apparire come funghi velenosi, erotti dalla putredine decadente, quando crescemmo al fomento della più vigorosa insistenza poetica moderna. Da Foscolo a noi, si testifica la nostra nazionalità, si disegna la nostra nascita. Col proclamare il suo nome, confondiamo tutti i maligni apprezzamenti della critica, debelliamo il sospetto di una impotenza, avvalorata da coloro a cui giova la favola, perché le loro imbecillità stampate, le loro sciocchezze dipinte o scolpite tengano il mercato a maggior richiesta, ma a scherno e contro la dignità ed il merito dell’artista sincero, gagliardo e determinato. Noi ci siamo fatti incontro a tutti questi truffatori della fede pubblica, e diciamo loro, finalmente ed a viso aperto, senza paure, sfidando il ricatto, le insidie e le minaccie:
«Basta!»