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Stavo, dunque, dopo aver trascorso per Le Laudi, ad accomiatarmi in sulla soglia dell’uscita, quando l’imprudenza di un buon giovane, che scande versi sulle nocche e scrive critiche sulle effemeridi, mi volle richiamare un passo indietro. Costui mi porgeva, a pag. 152 di «Lirica», fascicoli mensili in versi e prosa, Anno I. Fasc. IV84, di un suo saggio La libertà del verso, necessità di rivolgermi per sentirlo a dire chiaramente così: «Prendete, da un lato, un volume libertario qualsiasi, ad esempio La solita canzone di G. P. Lucini, e dall’altro, quella gran parte delle Laudi del D’Annunzio che è scritta in metri non tradizionali, e fate il confronto. Entrambe le opere, è vero, sono in ‘versi liberi’ ma se la prima non è per lo più, che prosetta ballonzolante, la seconda è quella poesia che è talvolta grande poesia. E ancora: prendete dello stesso D’Annunzio delle Laudi, quel che è in sonetti, in terzine, in quartine, in canzoni, e, insieme un libercolo qualunque, il primo che vi capiti, d’un versaiolo che rispetti la metrica, e fate il secondo confronto. L’abisso lo sentirete dopo due o tre versi, se non siete sordi e malandati». Ahimè! l’abisso esiste veramente nel cervello e nel ragionare del signor Onofri85, per cui non colla pretesa di fargli cambiar di parere, ma per la necessità di sviar li altri dalla sua strada e dal suo giudizio, affinché non capitino in peggio, mi trovo costretto a precedermi ed a ripetermi. A precedermi, perché più sotto, accennerò a quei motivi generali su cui poggia un’estetica del verso libero italiano, argomento di spettanza del secondo volume del Verso libero (1908): Applicazione alla Proposta: a ripetermi, perché ricorrerò alle nozioni di altre pagine mie, quando, invitato dall’Enquête internationale sur le «Vers Libre», 1909, non ho voluto starmene morto.
Rifletto, intanto, come nel dilagare dai versajuoli pseudo-liberi tra noi, sì che nella quantità fanno moda futurista, ed anche la critica rispettabile, di maschi e femine, per stare al corrente se ne preoccupa e ne sparla; a nessuno mai di costoro, femine e maschi, passò per l’anticamera del cervello il pensiero che l’umile sottoscritto fu precisamente il primo, il quale, in patria, ebbe l’audacia d’usare a tutte le occorrenze un suo verso, coniato da lui, fermato dalla sua cura, cesellato del suo bulino, che, per prender un nome qualsiasi nei repertorii gramaticali dei futuri pedanti, assunse con indifferenza quello di verso libero, già che lo si trovava bell’e coniato oltre il Frejus.
Son questi saputi d’ambo i sessi, che, ad esempio, parlando delle liriche di Paolo Buzzi, si rammentano dei nomi di Walt Whitman, di Verhaeren, di Gustave Kahn, tutta gente grandissima e forastiera, e non si accorgono che vi era qualche altro qui, proprio vicino a loro, che almeno per ben inteso nazionalismo, avrebbe potuto essere citato anche come istigatore dello stesso Buzzi; il quale, del resto, si dimentica di queste ed altre cose al proposito. Così hanno sbagliato e Ricciotto Canudo e Giovanni Borelli86, quando, per difetto di osservazione, hanno voluto proclamare il D’Annunzio annunziatore del verso libero italiano; e sbagliò solennemente lo stesso Buzzi, il quale, facendo un estratto del suo saggio, ultimo dei molti contenuti nell’Inchiesta, — sicché da questa spremuta nacque il suo da pag. 142 a pag. 148 di quel volumetto — per preporlo alla Antologia dei poeti futuristi (1912)87: sbagliò, perché trovò inutile rammentarsi di me e dell’opera mia, cui pure aveva citato nella prima lezione. Oh, futurismo ingenuo, che pedissequa e copia le vecchie e vomitose abitudini corrieriste! Forse che il silenzio annulla? Ma era necessario ingraziarsi, un’altra volta, il capo della banda che mal concordava con me; ed ai lacche del futuro, come ai valletti del presente è lecito disdirsi ed essere reticenti. Oh, futuristi, che avete fatto dei versi sbagliati — perché eravate incapaci di stenderne dei buoni — e queste cacofonie chiamaste versi liberi, per scriverne, veramente, non avete imparato da me? Oh, liricastri effimeri; e non vi pare che meno gonfia supponenza vi farebbe acquistare un grano di più di delicatezza e di quella probità necessaria, non solo pel denaro, ma anche nelle lettere!
Così, silenzio, credendo sepolta anche l’Academia mia anteriore alle Laudi, l’unico poema di quest’ultimo principio di secolo, che abbia richiamato ed il cielo e la terra e la passione e la storia a proprii testimoni e collaboratori, perché raccontino, cantando, la nascita sanguinosa della vita civile europea di cui siam tanto superbi, dico, la Rivoluzione francese, pel merito della quale noi non abbiamo più vergogna di chiamarci «Italiani». Vien voglia di gridar forte, per amor del prossimo: «Beware of Journalists» come se questi fossero altrettanti londonesi pick-pockets; mentre, non solo, non ci rubano nulla di tasca, ma ci riempiono di sane idee il cervello col loro silenzio e deserto, lasciandoci in pace a dipanare la bellissima e non mai esausta matassa della nostra fantasia e della nostra erudizione. Sicché, ben venga anche colui che vuol fare più di un giornalista per me e condanna senz’altro come «prosetta ballonzolante» la mia lirica, magnificando invece di «grande poesia» la d’annunziana. Amici miei; d’oggi in poi, al dir dell’Onofri, la banda del Tirazza sarà l’orchestra di Wagner.
Io non glielo concedo, per quanto poco possa valere la mia opposizione; e, perché son fatto segno a condanna, prima di esser stata instruita la causa e di avermi inteso, non santifico col mio silenzio la cosa giudicata dall’Onofri, e voglio senz’altro, il contradittorio. Chiamo in sulla pedana di questo tribunale eccezionalissimo, almeno, come mallevadore di chi mi vuol perduto, lo stesso D’Annunzio; gli spicco citazione e bando. Vedete; egli non mi risponde; sembra non desideri impacciarsi, è latitante. Bisogna costringerlo a rispondere pregiudizialmente al: «Che cosa è il verso libero?» Se vi accontentate, vi scriverà due parole fuggendo!
Speravo di vedervi a Milano nel mio secondo soggiorno. Eravate assente ancora?
La questione del verso libero è molto grave e molto complessa. E troppo difficile cosa trattarla in venti righe.
Mi proverò.
Manderò anche un gruppo di versi inediti. Ma bisogna che abbiate un poco di pazienza.
Tornerò presto a Milano. Vi avvertirò.
Una cordiale stretta di mano, in gran fretta, dal vostro
Vi soddisfa? Che ne sapete più di prima? Ed io come faccio a combattere contro chi mi volta le spalle? E pure in ogni modo, D’Annunzio, per mallevare la sapienza e la rettitudine del mio giudice Onofri, deve rendere la sua risposta; e, se la sua bocca non la dice, la dovranno ripetere le sue opere, che furono sperate — colla tema che fossero marcie, come vecchie ed equivoche uova di nido — dalle lenti formidabili della critica altrui. E le domando: «Ha la coscienza D’Annunzio di quanto è verso libero? — Sa che cosa fa quando scrive quel suo verso libero? — Ed il suo è un verso libero?» — Giudice, Onofri non mi negherà i periti che, pur parlando bene del suo protetto, sono testi a mia difesa; i quali — non sarà la prima volta — quando saranno stati uditi, invertiranno affatto l’opinione pubblica a pro del già condannato; sì che, invocando il fatto nuovo, si dovrà rifare il dibattimento. Li errori giudiziarii non hanno incominciato colla sentenza che dannò Cristo alla croce, né termineranno colla spiccia fucilazione di Francisco Ferrer; ed il peggio non è mai riservato alla vittima vanamente sacrificata, ma al consesso che la condannò.
Venga Luigi Capuana, oggi, vecchio, ma più giovane del giovanotto mio giudice, e che si conservò alle lettere con freschissimo antivedere; tanto che, quando tutti i professori Rizzi ed i più piccoli Torelli Violler e li altri minimi scompisciatori in sulle pilette dell’acquasantino gridavano infamia a Carlo Dossi, egli ne predisse e gli affermò fama e gloria. Anche qui, in tema di verso libero, ne saprà più dell’Onofri, e può mettere pacificamente, senza alterare la verità, il mio nome in fila con quello del D’Annunzio, sulla stessa linea tipografica89.
Ho fatto io, il primo in Italia, il tentativo d’introdurre il semiritmo, e senza nessun’intenzione d’imitazione straniera. Nel 1883, quando, dapprima per parodia, ne diedi un saggio nel «Fanfulla della Domenica» e poi, sul serio, m’indussi a pubblicarne un volumetto (Milano, Fratelli Treves, 1888) non si parlava ancora di verso libero, almeno tra noi.
La mia opinione è che esso, adoprato con abilità, può contribuire a dar sveltezza e libertà alla forma poetica. Il D’Annunzio ne ha pubblicato splendidi esempi.
Il mio tentativo fu male accolto dai critici e dai poeti di allora. Uno di questi mi scrisse sdegnosamente: «Assai meglio di me, tu conosci i tempi e il paese; la ragione è tutta tua: a semiuomini, semiritmi».
Questa sentenza non mi ha distolto dal comporne qualche altro. E veggo, con un po’ di orgoglio, che poeti come il D’Annunzio, Giulio Orsini, Orvieto, Lucini ed altri non abbiano sdegnato di mettere una grande impronta d’arte nel semiritmo da me iniziato con perdonabile inesperienza.
Venga Domenico Oliva, il sapientone; che quand’era in sui verd’anni aveva piacere di barzellettare, oggi, lodato anche dall’ex di molte opinioni politiche Tomaso Monicelli, poco fortunato greppiajuolo e del socialismo e del nazionalismo: quel tal nazionalismo che non vuol dichiarare fallimento, marcio di dentro e di fuori, tutta chiacchiera e réclame, e che non sa ciò che si vuole, fuorché il sangue, come il barabba; che concepisce l’italianità come il libito di scannare tutti li altri che hanno dei dubbi sulla opportunità della guerra di Tripoli e sulle necessità di essere salesiano, almeno col di dietro del corpo. Venga Domenico Oliva, gran bacalare di critica del «Giornale d’Italia», pronto a firmare la risposta altisonante e vuota dei plurimi Corradini contro la Massoneria, insultata da loro, con bella commendatoria prestanza genovese. Egli vi dirà che di verso libero non vi ha traccia nelle Laudi, perché nomina i versi che le compongono colle solite voci retoriche con cui si indicano i consuetudinarii e vecchissimi.
Ma, se debbo stare a quello che si scrive e si dice, questo alternarsi nel D’Annunzio di vecchi e di nuovi modi, di disciplina rigidamente osservata e di ribellione quasi temeraria, non eccita nel pubblico e nella critica impressione alcuna: che sian questioni che hanno fatto il tempo loro? O siamo in un’età di transizione, in cui tutto s’accetta con apparente indifferenza, ma con reale dubbio intorno a quella che dev’essere la forma della nostra poesia adeguata allo spirito nuovo? Comunque, non è la larga e pieghevole strofe dell’ultimo carme d’annunziano costruita sulla base di novenarii, variamente accentati, che salgono talora al decasillabo o al quinario doppio, e digradano nel settenario, nel senario e nel quinario; non è questa specie di melopea, la quale è uscita armata dal cervello del poeta, che accende le dispute e convoca ad armeggiare amici e avversari: sulla magnificenza e sulla felicità esteriore di questa lirica, nessun dubbio.
Eccetera, eccetera... d’accordo, mio illustre Domenico Oliva, senza volerlo perito a difesa mia preziosissimo: egli parla di «novenari variamente accentati, che volgono talora al decasillabo o al quinario doppio [udite; udite! un novenario che sale al decasillabo, al quinario doppio: ma il novenario, se è novenario, ha nove sillabe; quando è salito al decasillabo non è che un decasillabo, il quale, alla sua volta, non è quinario doppio, perché numerando qualche volta le sillabe di un quinario doppio se ne possono trovare appena nove non succedendo l’elisione tra l’ultima sillaba in vocale del primo emistichio colla prima del secondo] e degradano nel settenario, nel senario, nel quinario», egli lascia da parte l’ottonario e quelli di uno e di due e di tre e di quattro piedi, versi, non critico, e non mi parla mai di verso libero. Ora, questo non è compreso, sia per accento, sia per misura sulla lista dell’Oliva, ed io m’inchino al suo giudizio: Proclama Domenico Oliva, il saputissimo, che non v’è traccia di versi liberi nelle Laudi d’annunziane. Corollario: Tutti i versi che compongono le Laudi sono consuetudinarii. Ergo: vediamo in che modo siano stati fucinati.
Competentissimo in materia mi pare il nostro Borgese; usando dei diritti legittimi della difesa, che non abusano come i poteri discrezionali del giudice, lo chiamo a deporre. Venga pur qui a rispondere su quanto ben sa, sui versi della Fiaccola e della Fedra, che usciti da un medesimo forno, comportano le medesime tare.
Per connessione e per analogia di causa, tanto il bene quanto il male ch’egli ne dirà, mi pare, che si possano attribuire anche ai versi liberi delle Laudi.
Sostanzialmente pensate in prosa, quantunque scritte, o, a dir meglio stampate in versi, sono tutte le tragedie dalla Fiaccola in poi. Nella Fiaccola, come nella Fedra, i settenari e gli endecasillabi sono sillabe ordinate a schiere di sette e di undici, arbitrariamente. Quasi ciaschedun verso finisce troppo tardi per il senso della prima proposizione, troppo presto per il senso della seconda. L’ultima parola sta per ragion di disciplina nel verso, quasi ansiosa di saltar nel secondo, mandando in malora la metrica e rendendo omaggio alla logica. Si prova un senso di fastidio, come quando, vestendoci in fretta, ci s’abbottona il primo bottone col secondo occhiello e si prosegue sbagliando, ed alla fine il vestito fa due goffe pieghe semiconiche, che c’imbarazzano gonfiandosi al più leggiero movimento. La Nave è tutta quanta in endecasillabi, centinaia dei quali finiscono in più, in ma, in né, in non: serie casuali di sillabe, intonate con un accento casuale, che potrebbero cedere il posto a una qualunque altra forma prosodica. Non è indispensabile che la struttura metrica risponda alla struttura del pensiero con la mirabile concordia della Figlia di Jorio; ma, quando costantemente le contraddice, è segno che la forma non s’addice al suo contenuto e non gli nacque gemella.
Il D’Annunzio trovò gli schemi estrinseci bell’e fatti nella Francesca da Rimini (endecasillabi misti a settenarii) e nel Canto di festa per calendimaggio (endecasillabo sociale, patriottico, profetico). Li impose per forza alle sue nuove tragedie, che li subirono di mala grazia90.
A fortiori, e, non diversamente, nel nostro caso: nelle Laudi questi difetti si riscontrano in maggior evidenza; qui, il pensiero, che riempie il verso d’annunziano, ed il verso stesso sono due cose distinte e differenti, anzi indifferenti l’una dall’altra, quasi nemiche.
Un vero poeta, che crea alla propria espressione l’armonia ed il tono necessarii alla più logica e più melodiosa poesia, ha insieme ed invece, col pensiero, il verso che lo manifesta; non dimostra penosamente questo brancolare tra piedi ed emistichi, cieco; non il ballonzolare uniforme e scolorito, in una media registrata e come imposta dalla forma occasionale, con cui si vestì il primo concetto, che sta pure a primo verso della poesia. Ciò significa, a mio parere, che D’Annunzio può sentire più o meno profondamente la musica verbale — notate intanto ch’egli è più un colorista che un sinfonista — ma, da questo sentimento non ha saputo creare il ritmo psichico, le cadenze logiche, non conchiudere in modo da non togliere al proprio pensiero la freschezza nativa e musicale, violentandola nel periodo prestabilito della strofe, con danno al buon senso, all’effetto, alla chiarezza. Egli è ancora nella prosodia, allo stato pre-wagneriano91, in cui le situazioni del dramma poetico erano spesso sacrificate alle esigenze del contrapunto scolastico; e perciò egli non può dire come Camille Mauclair92:
Ho sempre avuto l’istinto del verso libero: mi sembrò di botto, come il solo naturale. E fu la musica che mi spinse a scrivere dei versi ed a cercar d’ottenere, col mezzo delle sillabe, alcun poco della sua ritmica duttile e complessa.
Nel verso libero, D’Annunzio dimora sotto la soggezione della antica disciplina. Non si è ancora persuaso che è una pura supposizione scolastica l’ammettere come undici, o sette, o cinque sillabe, accentate in dato modo formino una riga ritmica; e permane come una pura convenzionalità — portata dalla poca sensibilità dell’udito, dalla pigrizia, la quale suade a non faticare ed adotta il già giudicato dai vecchi — la credenza, che l’endecasillabo e li altri siano de’ bei versi: ve ne possono essere di bellissimi, colati in puro oro, da un getto unico d’entusiasmo, di venti sillabe e... di un monosillabo. Intanto, l’endecasillabo di cui fa pompa eccessiva è il meno musicabile, ché le note lo vestono male e ne sconciano l’armonia, se pretendono di sopraporglisi. Le coblas de sirventa e de ventana, provenzali e castigliane si adattano e stanno egregiamente in uno pseudo-ottonario, che ha sette o nove sillabe a piacere, e li accenti a capriccio. Leggetemi i falsissimi — secondo le regole — ottonarii del Romancero, quale polifonia fan risuonare e come logica! Scandete, con tutta precisione que’ bastardi delle Laudi — quelli che salgono o degradano come vuol la bella imagine del nostro eccellentissimo Oliva, e, o vadano in su, o vengano in giù, quale melopea stracca, uniforme, senza colorito. D’Annunzio è incapace di dissonanze logiche, perché non possiede il dominio dei centri inibitivi e della volontà; si lascia andare. Indi, perché, pur sollecito a gustare sottilissime armonie, padrone di una tecnica formale preziosa, non ha ancora potuto sfruttare, non conoscendoli ancora, tutti li aumenti verbali dell’incidente — come li chiama Paul Claudel, — tutto il concerto delle terminazioni di cui la nostra lingua è più d’ogni altra ricca per sfumature, per velature, per nebbiosità di suoni, di armonici, di allitterazioni, di assonanze, di dieresi, di crasi, di elisioni, e non sa utilizzarli al loro posto come conviensi. Il Pescarese è grasso e non muscoloso, è tumido e non ricco; manca della massima virtù di un poeta, che crea a se stesso il ritmo: cioè, della rima interiore, mi suggerisce un’altra volta Claudel93. E, come il suo pensiero non ha subito nessuna trasformazione per passare dal Piacere, ad esempio, alle Laudi; così la sua ritmica non ha mutato modo di presentarsi, per quanto appaja stampata sotto forme, per lui, insolite prima.
Un’altra volta gli fa difetto, nel getto del concepire, la naturale direttiva della volontà: sensibilità e pensiero non fanno in lui vita comune; entusiasmo e ragionamento si oppongono; questa fusione tra il sentire ed il volere, tra il potere ed il fare, che dà la misura del genio poetico e pur anche del puro giuoco genuino lirico, ma spontaneo, con esattezza di rapporti, che illustrano maggiormente la potenza e la limpidità delle emozioni provate, gli è affatto sconosciuta. Perciò deve ignorare la mecanica, come la teorica, del verso libero, che è: L’espressione verbale più musicalmente logica e naturale, con cui si manifesta il lirismo umano moderno.
Il poeta delle Laudi ha a sua disposizione due buoni occhi e due eccellenti orecchie, dono gratuito per risultati empirici; non ne tempera, né ne aumenta la virtù coi principii risultati dall’aver ben compreso ciò che si deve fare, col possedere la coscienza del come va fatto: orecchiante, si accontenta di quanto gli riesce; egli ha fretta di riuscire: qui, e in tutte le altre cose sue, vuol far vedere che è capace, alle mezzane colture, alle più piccole menti dei suoi Seid che lo circondano. Né come Henri Ghéon94, né come il sottoscritto — e lo vedrete — sa: «che ciascuna unità espressiva del pensiero, ciascuna unità logica del discorso crea un’unità ritmica nella strofe», unità che chiamasi verso, o sia la lunga parola concettuale e suggestiva, uscita dalla sensibilità del poeta e dal suo ragionamento insieme. Per determinarla, non bisogna subordinare la sensibilità ad un modo di pensare, né il pensiero ad un modo di esprimerlo ritmicamente, ambo arbitrarie imposizioni prestabilite; ma lasciar all’ordinata vita della sensazione, del pensiero e della musica la propria libertà, dentro cui si sono fusi nativamente, chimicamente, non sopraposti, non accetti, ma per natura.
Capita, quindi, di leggere dei versi liberi — e son tutti così — di questa fatta:
Sol una è la palma ch’io voglio
l’Universo! Non altra.
Solo questa ricever potrebbe
da te Odisseo
che a sé prega la morte nell’atto.
Ed io scriverei, non cambiando parole, non pensiero, sì bene forma ed armonia logica:
ch’io voglio da te, o vergine Nike,
l’Universo! Non altra.
Sol quella ricever potrebbe da te Odisseo,
che a sé prega la morte nell’atto.
Ancora:
fui...
Ah! quel «fui», che regge tutto il precedente, a capo:
Di congiungimento maestro fui;
non vi pare? Quale fatica sospendere il filo logico sul «maestro», che è in fin di verso, e significa una cadenza cioè un accordo completo, per poi ripetere, con un’arsi, «fui», logica e prosodica ad un tempo e così composta in aria, come un «producendo», mentre definisce il pensiero di cui è l’azione massima!
Così in quest’altro:
…ogni duolo
no: badate al magnifico verso, con tutta la mollezza disegnato nella sinuante onomatopeica, che ne riuscirebbe, se avesse scritto:
e via, via, per non postillare troppo d’esempi le pagine che già ne rigurgitano e per non fare il pedante.
Onde è lecito riassumere: Il così detto verso d’annunziano invece di essere più facile alla declamazione, e quindi più ripieno di musicalità; invece di aiutare la più diretta comprensione ed ubbidire alla logica stessa dei pensieri e della armonia, ostacola a tutto ciò; si rizza formidabile oscurità difficile; è un regresso non un progresso. Perché tutte le rivoluzioni non sono utili, anzi sono dannose, se non aumentano la chiarezza dei rapporti tra i fenomeni e tra li uomini, se non aggiungono maggiori terre al regno del buon senso; sì che non mi par fuor di casa l’arguzia discutibile di quell’antipatico Lanzalone95, quando, parlando della verseggiatura d’annunziana la rappresenta così:
Quel ramo del lago di Como, che
fra due catene non
interrotte di monti...
Cercate in tutta l’opera poetica del D’Annunzio una strofe che abbia questo movimento, a seguito di una logica così osservata:
si allacciano alle mani colle dita,
l’una abbandona all’altra
Trovatemi un verso d’annunziano che competa, modestamente, con questo:
S’arroca e rantola dentro le canne torte delle grotte:
e con quest’altri:
Rimbombano al boato caverne e corridoi
come se all’ecatombe muggissero i buoi di Proserpina;
cigolano sui cardini le porte,
si abbatton sulle soglie delli androni bui
al frenetico annuncio della Morte.
Prosetta ballonzolante, eh! giudice Onofri?
E pure, voglio lasciar parlare un altro sottile critico del Pescarese; quello, che, pur osteggiando, cerca di dotarlo di una certa quale intuizione, per cui, in una crisi della sua esistenza, ha avuto, annubilato, e per quanto in embrione, meno torbido e più concreto il concetto del verso libero, teorica, del resto, che, se non fosse stata un imparaticcio, appiccicato alla memoria con alquanto unguento linguino, gli avrebbe meglio reso nel fare. Venga Enrico Thovez96 deponga per me e cerchi di convincere altrui, che anche il suo autore era capace di sentire e di riproporsi, in ogni libertà, colla più larga presentazione di una lirica redenta, il suo proprio riflesso personale:
Gabriele d’Annunzio, nell’anno di grazia 1903, a quarant’anni, era stato preso da un improvviso bisogno di libertà ritmica e di nervosità espressiva. Egli, che in dieci volumi di liriche, aveva descritto fondo all’universo, che non aveva mostrato mai la più lieve inquietudine di non possedere lo strumento perfetto ed insuperabile dell’estrinsecazione lirica, sentì nascere, negli abissi della sua mente, un dubbio imperioso. E certo, come di ogni altro suo pensamento, che a nessuno tale dubbio fosse mai passato pel capo, lo espresse nelle forme solenni di un dialogo socratico con Giuseppe Giacosa; come se alla mente di quel morituro fosse per svelarsi più agevole la verità suprema sull’al di là delle forme ritmiche. «Eppure» egli disse all’amico improvvisato «la poesia, quella che vuol comprendere più d’anima e più d’universo, oggi, soffre della sua angustia metrica e cerca ansiosamente di rompere i vincoli secolari. Troppo le usate forme son povere di ritmo e irrigidite. Ma, se tu paragoni la più ricca stanza di una canzone petrarchesca, perfetta nella sua fronte e nella sua sirima, nei suoi piedi, nelle sue volte e nella sua chiave, se tu la paragoni a una strofe logaedica di Pindaro o a uno stasimon eschilèo, ti appare tutta la diversità che corre tra la dura constrizione del rimatore e la libera creazione ritmica del cantore. La strofe greca è una creatura vivente in cui pulsa la più sensibile vita che sia mai apparsa nell’aria. È difficile dir quale, tra le cose naturali, la eguagli nell’infinita delicatezza ed esattezza della contestatura. La misteriosa compenetrazione dei ritmi fluidi ti fa pensare talvolta al miracolo dell’arcobaleno, dove tu non sai scorgere il passaggio dall’uno all’altro colore, se bene tu senta nel tuo occhio la molteplicità della gioia. La stanza, al confronto, pur quella che a Dante intonava il Casella, non è se non un organo meccanico duramente articolato.
Se non che, dopo un cibreo male impastato di stroncature, di elogi, di ironie, di commiserazioni alla critica che non ha mai veduto bene ed una incensatina, la solita e necessaria, a se stesso, il Thovez lasciasi sfuggire il concetto principale della sua argomentazione, come per inavvertenza, e non può a meno di farsi sentire a lamentare:
Ma la facilità lo perde: un ritmo libero appunto perché libero, deve impeccabilmente reggersi nel ritmo interiore del sentimento, deve aderire ad esso in modo assoluto; nel D’Annunzio, invece, il ritmo, dopo un accordo giusto, diventa quasi sempre esterno, vive di per sé, obbliga il pensiero a diffondersi retoricamente per riempire gli schemi: ed allora ritmo e pensiero galoppano di fianco con un andare sconnesso [oh giudice Onofri ecco qui il caso topico di applicare la formola «prosetta ballonzolante»!] come due cavalli di una vettura che hanno rotto il passo ed aspreggiano tirelle e timone.
Non aveva già questo osservato prima nelle Tragedie il Borgese? Non vi ho io qui aggiunte quelle altre osservazioni che mi sembrano richieste dall’assunto? Il Thovez interza egregiamente: posso io concludere?
Se, dunque, leggiamo attentamente e soffermandoci in sosta alle opportunità che richiedono riflessioni, le Laudi, con buon acume e pazienza, noi sentiamo dentro quel rumore di piena orchestra, attraverso quel barbaglio di gibigianne e quello sventolar di panni vivacissimi, sommossi al soffio di una passione spesso limosinata, la fondamentale nota della sconcordanza tra quanto il poeta vuol dire e il modo con cui vien detto, tra la miseria di un pensiero spesso d’imprestito e la magniloquenza con cui lo esprime, tra la forza di un concetto balzatogli in mente per isbaglio e la secchezza legnosa con cui lo registra. Sì: le cose ch’egli canta così, dovevano essere cantate diversamente; perché se la poetica nuova ha qualche ragione di essere deve «per sua natura sopprimere le forme fisse, conferire all’idea-imagine il diritto di crearsi la sua forma speciale, sviluppandosi come un fiume si scava il suo letto»97. Inoltre, a nuova musica, se è possibile pensare a musica prima di sapere che cosa deve cantare, nuovo contenuto; e se il D’Annunzio si dà in braccio alla recentissima moda del verso libero, egli deve necessariamente riempirlo con dei modernissimi concetti98, con delle originali attestazioni della sua poetica attività, che sono ben lungi da essere uno suo attributo spontaneo e naturale.
Quale trasformazione ha subito la vita ed il pensiero di D’Annunzio mentre scriveva le Laudi? Non credere più a Cristo, ma al Pan? Novità! Ma ciò aveva già fatto Pomponazzi. Che scerne intorno di trasformato l’occhio estetico di lui? La antica mitologia pagana coi nomi topici greci e funzionali, che tutti li innologi, da Orfeo a Callimaco, industriarono intorno alli attributi delle diverse divinità. Ed anche Carducci, per nominar l’ultimo, popolò di vecchi numi le sue barbare! Ed allora, a che prò impiegare mezzo astruso e disadatto per ripetere male, impropriamente il già detto? Quale fatica! Evitare l’inutile fatica! Lasciamo questo pluslavoro99, che non gli rende, a questo poeta che ama complicare tutto e ha paura della noja: povero poeta e filosofo, se non sa le gioje dell’annojarsi: si capisce perché non sarà mai un humorista. Musica nuova inutile, dunque, perché idee nuove, niente; che, s’egli si trova a posto nelle barbare di Canto Novo e le riempie a suo agio della sua facilità e lubricità di colorista, nelle Laudi libere, è tutto un eccesso che ballonzola in vesti troppo larghe, incomodamente; che si pigia e si deforma, in farsetti troppo succinti e stretti; da cui violacee escono, per lo sforzo, le estremità compresse, compromesse le loro funzioni.
Codesto poeta magnificatore dell’Energia è il più passivo dei versajuoli100; egli non sa sottrarsi al fascino di un ritmo iniziale che lo occupa al punto da ossessionarlo. Impostato nei primi versi di una poesia uno speciale valore ritmico, perché così voleva il suo pensiero iniziale manifestarsi musicalmente, in seguito non sa variarne l’accento, per quanto un altro pensiero accessorio voglia un’altra sua musica. Ed ecco che il primo ritmo, liberamente scelto, divenuto poi il dominante, veste anche il secondo concetto impropriamente: e così via si riammette l’arbitrarietà, che si aveva voluto bandire.
D’Annunzio è schiavo della facoltà prosodica impulsiva, e dimostra con ciò la sua forza d’inerzia mentale contro cui non sa reagire la sua volontà; il verso libero rende tiranno, tiranneggiato a sua posta, violentando la vita e la struttura stessa de’ pensieri poetici, in quanto questi hanno con sé, dalla nascita, la stessa musica con cui si fanno sentire. Di ciascuna idea, essendo imagine e ritmo, il poeta deve rispettare l’integrità; non può, col pretesto di una ortogonia elegante, imporre note già scritte: se lo vuole, ritorni al sonetto, alle quartine, alle ottave, a tutto il vecchio armamentario della retorica defunta; non dica di essersi redento, d’aver liberato alcun che. È il Poeta nativo colui che ha coscienza di se stesso e sa quanto fa, e subisce il ritmo delle sue idee, ed è capace di scriverle nella genuina notazione con cui gli si presentano; e non lo si farà mai diventare il deformatore della propria sensibilità, ché la sua volontà deve opporsi alla abitudine del suo mestiere, quando desidererebbe, per la piega scolastica ed i postuma retorici non ancora del tutto espulsi, opporsi all’indipendenza logica, alla verginità dell’inspirazione: deve impedire insomma, che le regole astratte dei gramatici, che insegnano di far più bello, ottundano od evirino la bellezza nata, spontanea, organicamente, da tutto il suo organismo. Deve ancora rappresentarsi, come gli è obbligo di vita, nell’opera, ma singolarmente solo, in offesa e difesa, determinatamente unico, senza pretesti a confusione, senza sottintesi a ripiego. Il Poeta è questo camminatore solitario, tra una densa folla che lo circonda, lo distingue, ma non lo approssima: qualunque sia la sua statura, il suo vestire, il suo andare, se voi gli passate vicino, dovete accorgerlo come diverso tra i mille dal modo con cui vi guarda. D’Annunzio guarda il suo pubblico, dentro cui si annega, colle pupille di un ciascuno che faccia il mercante o di vino, o di grano, o di chiacchiere; e nella calca, noi non lo riconosceremmo se non si avesse pagata la banda del Tirazza a codazzo, per suonargli la marcia e per attirar gente. Fate che que’ striduli ottoni cessino l’accompagnamento ai più disgustosi legni, e non tuoni più il tamburone; dove se l’è fumata l’Imaginifico abruzzese? Ma è qui, mutolo, mogio, curvo come un salice in riva ad un fiume; è qui, tutto umile ed in sé; come tutti, come niente.
Dopo ciò, giudice Onofri, dettate un’altra sentenza: ma perché non voglio che rimaniate privo di documenti — per quanto il grosso volume del verso libero vi possa servire — vi porgo le pagine dell’Enquête già citata, dalla 103 alla 130, che per economia di spazio non aggiungo. Con queste in mano, almeno imparerete, che, quando mi si domanda alcun che ed ho cognizioni sufficienti, non trovo mai la risposta «troppo difficile», e posseggo sempre a mia comodità del tempo per iscriverla. E voi leggetela.
Ho ricevuto le Sue «Revolverate» e le ho gustate molto — per quel molto, s’intende, che è concesso a me, — cosicché posso ben dire ch’esse mi son giunte quasi tutte in pieno petto.
Doppiamente ringraziandola, dunque, e per aver pensato a me, e per il godimento novissimo, La prego di accettare, quale modesto ricambio, un mio libretto di poesia che Le ho or ora spedito.
La corrispondenza sua non ebbe qui termine, prosegue a chiedermi:
Conosciuto il Suo indirizzo dal Marinetti, che ora è a Roma, mi prendo la libertà di scriverle.
Sto preparando i materiali per uno studio su «Precursori e iniziatori d’una poetica nuova», fra i quali, naturalmente, Ella sarà in prima linea; ma non m’è riuscito, almeno finora, di procurarmi i Suoi libri che mi mancano. Il Sandron di Palermo, richiesto della Prima ora dell’Accademia; ha risposto di rivolgersi alla sua figliale di Milano, la quale è muta come un pesce. Sistema di librai!
Ecco: io ho, di Suo Il verso libero, che ho già letto, e del quale attendo il 2° volume, le Revolverate e il Carme d’angoscia e di speranza, gentilmente offertimi da Lei.
Ora desidererei ch’Ella mi informasse del come potrò procacciarmi: Le figurazioni ideali, Le imagini terrene, I monologhi e l’intermezzo delle maschere, La prima ora, Per una vecchia croce di ferro, Elogio a Varazze e le sue Sue «prose principali».
Qualunque sia il modo col quale potrò averli (sia comprandoli, sia togliendoli in prestito da altri o da Lei stesso, sia ch’Ella possa indicarmi altri mezzi), La prego di un cenno di risposta che mi valga allo scopo.
Quando pubblicherà il secondo volume del Verso Libero? Mi scusi del disturbo, e voglia gradire l’espressione di tutta la mia simpatia e della mia ammirazione. Suo
Via Borgognona, 38 Roma
E qui io era, vedeste, «tra i precursori ed iniziatori di una poetica nuova», ed il giovanotto mi mandava l’espressione della «sua simpatia e della sua ammirazione», come fosse l’oro, l’incenso e la mirra dei tre Re Magi al Bambino Gesù.
Accontentato che fu, in quanto lo potei, n’ebbi il ringraziamento di pragmatica: leggete:
Grazie di cuore a Lei pel cortese invio del libro, dell’opuscolo e dei due articoli, e grazie per la Sua lettera preziosa di notizie, nonché per la promessa del volume sul Dossi.
è finalmente arrivato La prima ora dell’Accademia, ed ho già ordinato dal Baldini e Castoldi Le figurazioni ideali e il Gian Pietro da Core.
Insieme con questa per Lei, spedisco una lettera al Donati nella quale lo prego di prestarmi I drammi delle Maschere, Per una vecchia croce di ferro e Ai mani gloriosi di G. Carducci, assicurandolo della conservazione e restituzione scrupolose.
Desidererei ancora ch’Ella scrivesse al Marinetti che mi mandi La solita canzone. Io l’ho conosciuto qui a Roma di sfuggita ed ho avuto appena il tempo di domandargli qualche notizia su Lei, senza punto accennargli ad altro.
I materiali che sto preparando e sceverando sono numerosi e disparati per lingua, stile, importanza storica ecc.; non so, quindi, per quando potrò concludere in un libro il frutto di questa fatica a cui attendo lentamente e nelle soste del mio lavoro poetico, ma è certo che l’opera Sua, in un modo o nell’altro, si deve cominciare a sbarazzare dal pesante silenzio dal calunnioso umorismo di cui l’hanno circuita i tardigradi elefanti e le capriolanti scimmiette della critica in uso; e s’ha da prendere in considerazione seriamente, sia che se ne concluda lode sia biasimo.
Ed ora mi scusi di tutto il disturbo che Le ho procacciato e si degni di gradire la mia stima e la mia sincera simpatia.
Che ve ne pare? Non vi è qualche cosa che stuona tra: «l’opera sua in un modo o nell’altro si deve sbarazzare dal pesante silenzio e del calunnioso umorismo in cui l’hanno circuita i tardigradi elefanti e le capriolanti scimmiette della critica in uso (!) e s’ha da prendere in considerazione, sia che se ne concluda lode o biasimo» ed il giudizio di lui definitivo: «prosetta ballonzolante»? Questo non è calunnioso umorismo di capriolanti scimmiette?
Non insisto: oh gioventù, che bevi acqua di Lete a colazione ed a pranzo; non bisogna far subito vedere di saper tanto, bene, in modo assoluto: oh, gioventù siate, se non più morigerata, più prudente: Nisi casti, saltem cauti. Alcune parole di cui vi fregiaste, con troppo entusiasmo irriflessivo, vi postillano con ipoteca il futuro: lo so, è moda oggi, è da saggio di disdirsi, ed io approvo; ma quando collo smentirsi non si torni indietro; nel caso contrario mi sembra la confessione della propria menzogna, o della sopravenuta imbecillità. Perché, via, tiratela come volete; vi è una bella differenza come opera, come vita, come carattere, tra me e D’Annunzio; e la differenza è a tutto mio vantaggio. Il signor Onofri pregia più le Laudi della mia Solita Canzone? Padronissimo. Ha tanto però in mano, dopo quello che ha scritto a me nelle sue lettere, di chiamar «prosetta ballonzolante» i miei versi? È ciò che gli chiedo; e lo invito a pubblicare ed a scrivere — se non l’ha ancora scritto quel suo studio: «Precursori ed iniziatori d’una poetica nuova» tra i quali, naturalmente, io avrei dovuto trovarmi in «prima linea». — Su via, giovanotto, all’opera; faccia vedere al culto ed all’inclita, alle balie ed ai mocciosi, ai truffaldini ed alli impostori della giovanissima letteratura, ch’io ho torto; si faccia onore, egregio signor Onofri. Costa così poco il parlar male di ciò che non si può comprendere!
«Io non scrivo più versi da parecchi anni: tuttavia sento in me che, se ne scrivessi ancora, sarei tratto per un naturale impulso a seguire linee ideali di musica che mi allontanerebbero dagli schemi metrici modellati in altri secoli. Mi ricorderei, cioè, inconsciamente di aver teso l’orecchio a melodie ampie e solenni, o nervose e spezzate, di Beethoven, a molteplici avvolgimenti del genio armonico di Wagner: impressioni dello spirito tanto profonde in noi, tanto da noi indivisibili, quanto ignote ai creatori del nostro classico verso nei loro tempi lontani. Musicale è l’atmosfera nella quale il nostro tempo nasce, vive, si conforta e sogna. Noi non ci possiamo sempre tradurre nelle forme di parecchi secoli addietro: e sarebbe una puerilità il farlo per ostinazione e per ostentazione.
«Del resto, la fortuna di una forma — a parte la sua fatalità che ho già detto — dipende dall’importanza delle cose che in essa sono espresse. L’importanza del temperamento poetico di Carducci fu la fortuna delle Odi barbare, le quali vinsero una battaglia che più volte era già stata combattuta invano da uomini troppo deboli perché si ascoltassero come poeti. Le forme, senza pienezza di sostanze, sono desiderii e istinti. La poesia compie storicamente il suo rinnovamento all’apparire dell’uomo. Quando il maggior poeta di una generazione canterà in versi liberi nessuno contrasterà più a questo svolgimento ormai naturale ed ineluttabile dell’espressione poetica».
Osservazione: Ma non vedete che anche oggi, dopo che il così detto maggior poeta italiano usò del verso libero, questa forma è tuttora contrastata? Ciò significa che: o il D’Annunzio non è il maggior poeta italiano, o che il suo verso libero non è il vero verso libero, o che, pur esistendo un grande poeta che canti in versi liberi, li Italiani non l’hanno ancora riconosciuto. Non vi pare?
Per ciò non sarà certo a D’Annunzio, che, per esempio, Mistral potrà inviare l’elogio che già scrisse a Paul Fort: «Caro grande Poeta: comprendo che dopo i sette ed otto secoli, che hanno logorato le formule ritmiche e rimiche della poesia francese, voi ne sentiate la sazietà, come davanti a rime frequentissimamente impiegate, e che la vostra libera idea abbia cercato, liberamente, una forma nuova, ben più vasta e sotto il vostro esclusivo dominio».
Per l’Abruzzese, anche la forma nuova, qualora sia stato capace di produrla, diventa dispotica sul proprio creatore, ed, uscita da lui, gli si fa padrona.
«Profanes et pédants croient et proclament un peu dédaigneusement que toutes ces questions de rythme ne sont guère que simples jeux de rhétorique. Ai-je besoin de vous dire que pour moi, comme pour tous ceux qui font des vers ou les aiment, elles touchent à l’essence même de la Poésie? Le rythme est une loi universelle, autant que la logique; c’est même une loi, peut-être, plus ample, plus intime, plus réelle encore que celle-ci... C’est une des modalités principales du Nombre, et, pourtant, de l’Être... Soit qu’il se manifeste par les pulsations du sang dans le artères, ou par le mouvement des flots sous l’influence de la lune, ou par la trépidation bruyante et âpre des machines en quelque usine colossale, il y a toujours en lui quelque chose de sacré, de mystérieux, de magique... Et l’on comprend bien, en vérité, comment, voulant représenter sous une forme sensible l’ensemble des lois qui régissent la marche des mondes, le philosophe grec l’ait défini un rythme serein et sublime, créant cette idée qui est en même temps une des plus belles images de l’Antiquité: l’Harmonie des Sphères.
«Passant de la poésie humaine, il est évident, et l’histoire de la littérature est là pour le démontrer, que chaque fois qu’une trasformation notable se produit dans le sentiment poétique de l’humanité, on voit apparaître à peu près simultanément une innovation quelconque dans la structure du vers. De semblables innovations portent par conséquent en elles mêmes leurs titres de légitimité du moment où elles correspondent à un sentiment généralisé, et qu’un ou plusieurs grands poètes les fixent, les imposent par la force de leur génie et la plasticité de leur art. Quant au vers libre, il me semble plutôt qu’il en est encore à l’état d’ébauche et qu’il n’a pu trouver sa forme definitive, son équilibre vital et parfait».
Il principio è esatto: l’intensità della rivoluzione, che portò la lirica contro il Carme dei Sepolcri, perché si foggiassero li Inni Sacri del Manzoni, è identica a quella che spinse Carducci alle Odi Barbare contro li Inni, e le Revolverate contro le Odi. Ma, se voi chiamate D’Annunzio a darvi ragione di tutto ciò ed anche delle sue Laudi, egli non ne trova e tace. Perché? È logico che così si comporti: nella sua poesia stessa ne troverete i motivi. A questa non chiedete né idealità, né metodi, né filosofia, né una ragione di vita; più tosto vi dirà con disordine emotivo: «Qui sono i risultati dell’udire, del vedere, del toccare, dell’operare, non della funzione cerebrale non la dejezione-idea». Il suo cervello è, più che stitico, occluso.
Ma voi mi direte: «Non è forse compito della lirica l’esprimere la passione del poeta, sinceramente? — Ed allora in quel suo stato di eccitazione, di vaticinio, di lucidezza anche morbosa, come volete che intervenga la fredda volontà, il meticoloso ragionamento a ripolire, a castigare, a correggere?» — «Giusto» rispondo io: «ma voi dimenticate che la poesia non è un fenomeno di pura emozione, ma precisamente psichico; e che non si guida la poesia sulla magnificata intuizione bergsoniana, che è la facilità filosofica di tutti quelli che non hanno mai avuto od hanno perso la facoltà di ragionare; ma bisogna, che, per esser tale, intervenga, colla ispirazione, la disciplina autoctona, o nata insieme all’orgasmo, del modo con cui si deve dire ciò che si dice; dell’ordine logico poetico, che ha la sua armonia, anzi è tutta l’armonia, quando si tratta di lirica; della sensibilissima volontà, che fa da registratrice ed avvisa il poeta, senza sforzo e pena, della necessità di mutare tono e registro in sulle variazioni del pensiero di lui. Codesta volontà manca in D’Annunzio, e nei suoi momenti lirici; ciò che abbiamo veduto e vedremo, perché egli non domina il mondo, ma ne è dominato; non fa il mondo espressione della sua coscienza, ma la sua coscienza è il riflesso del mondo; non è quindi mai attivo, ma passivo; è un maschio-feminino, come direbbe Weininger, con quel suo lucido disprezzo misogino».
Perciò piace il Pescarese alle signore, che vi riscontrano le loro inutili malvagità, essendo egli sempre Talanta.