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O imitatores, servum pecus, ut mihi saepe bilem, saepe iocum vestri movere tumultus! Libera per vacuum posui vestigia princeps, non aliena meo pressi pede. Qui sibi fìdit dux regit examen.
Si leggeva ne «La Ragione», che si stampava in Roma, giornale repubblicano, di sul numero del 27 giugno 1909:
Come dalle cento ed una così dette città d’Italia, anche da Roma, sere sono, la tournée Fumagalli-D’Annunzio passò, lustrando, a rappresentare spettacolo di fiera per teatri di fiera. All’«Argentina», convocò il Senato ed il popolo romano, perché si deliziassero, più o meno a seconda della delicatezza del gusto e della normale cultura archeologica di ciascuno, li spettatori. Il mimojambo-ippico-lirico-coreografico sfoggiò i muscoli glutei e callipigi di Gabriellino; il quale con evidente modernismo, forse imparato alla scuola del Ferrero, che si compiace di attuare con stile giornalistico l’antichità, espose se stesso sotto forma di Ippolito-Ganna, o Raicevich, prestanza di sport anglo-giapponese, invidia, ahimè! se lo sapessero, alli atleti cantati dal Pindaro, cui, per fortuna nostra, non assomiglia suo padre. E la Franchini, con molto consumo di energia nervosa, dettagliò il furore della Pasifaeja — un bel tipo, questa, di ossessa e di isterica, delizia numismatica per le ricerche della antropologia criminale; dentro cui un Charcot, oltre che ritrovare un esempio lucidissimo dell’atavismo degenerativo, riscontrerebbe la attitudine alla simulazione di reato e la ninfomania espettorata con grida, minaccie, pianto, maledizioni dalla sua bocca uterina rovesciata, tumultuosa ed intumidita che le serve d’organo di relazione per... la parola. A noi, che ammiriamo l’arte tragica e veramente eccezionale dell’attrice, duole che sin qui si impieghi in questi esperimenti degni di una clinica da manicomio; e, ove possiamo consigliarla, le diremmo: «Passate oltre volgetevi altrove».
Intanto, tutti i giornali della Penisola si sono interessati, da un 10 di aprile a tutt’oggi, alle gesta della rappresentazione e delle successive riprove. Critiche alte e basse ne proclamarono i meriti, ne dissero le deficienze; tutte le gazzette furono d’accordo ad indicare del secondo atto la scena, tra Fedra ed Ippolito, ottima e capitale sì da compensare la lunga noja e le riesposte conoscenze del teatro d’annunziano, l’Aedo, il Pirata fenicio, Gorgo, proxeneta per eccesso di buon cuore e forse per saffica servilità. Non diversa opinione è la nostra: di tutta la Fedra, più o meno «vertiginosa» ed «indimenticabile», questo è il passo migliore, il più ardente, il più appassionato; e ne andrebbe all’autore tutta la nostra lode, se l’ispirazione ed anche le parole, dal verso 2113 all’altro 2388, che racchiudono la scena in cui «con un misto di audacia e di spavento, la Cretese, piegandosi come per strisciargli contro le ginocchia, parla ad Ippolito in atto di circonvenirlo calda e roca»; — oh! specialmente «calda» e con molta espressione — fosse di pura fattura d’annunziana.
Chi è dunque l’autore originale del bel frammento lirico? Da chi l’Abruzzese tolse, colla solita disinvoltura, la ragione del breve successo del secondo atto? E perché va data lode ancora alla sacrosanta ignoranza de’ nostri gazzettieri di parata, che hanno accennato a tutte le Fedre, ripassate al vaglio della critica ufficiale ed eforetica, coturnate, imparruccate, greche, latine, francesi ed arcadicamente italiane, e non seppe indicare il nuovissimo e lungo plagio d’annunziano, tanto più che il suo depredato tornava ad essere uomo d’attualità, morendo con lungo strascico di necrologie e prolissa ricchezza di luoghi comuni? Charles Algernon Swinburne moriva in fatti nella sua villetta de’ Pini, presso Londra, a mezzo lo scorso aprile: tutta la stampa europea se ne era commossa, e lo aveva noverato tra i pochi, poeta ribelle, collaudato dal premio Nobel, con fortuna ed onore a stento inchinati su fronti repubblicane; ma di Charles Algernon Swinburne, autore di una scena lirica Phaedra, magnifica parente lussuriosa di Dolores e di Hermaphroditus e saccheggiato in modo da rendergli amorfa e sciatta la sua poesia, per scialacquarla e stemperarla, come una droga forte di cui si voglia far tisana emetica e nauseabonda, nessuno seppe e parlò. A me concorreva, in quei giorni, un lavoro promesso ai giovani della «Giovine Italia» di Ancona, cui regge, con audacia ed insistenza Oddo Marinelli, caro nome a noi tutti: ed a me, dopo d’averne ripassata l’opera, perché del cantore di Laus Veneris desiderava parlare non secondo il dettato dei Larousse e delle altre enciclopedie, speditiva incombenza di facilità, soccorse la lettura di Fedra; ed, oggi, ve ne voglio dare, come altrove avvisai, il commento ed il risultato.
Esumazione di alquanta eleganza, parmi divenga in moda, una rubrica di Reminiscenze e imitazioni nella letteratura italiana, durante la seconda metà del secolo XIX, tal quale la intitola nella sua «Critica» del 20 maggio 1909 Benedetto Croce. Opportunamente l’apre e incomincia D’Annunzio, il cui prodotto fu, anni addietro, prediletto terreno di caccia ai ricercatori di reminiscenze, imitazioni e plagi. Non io, effimeramente son preso dalla fregola d’imitare il Thovez, perché ne conosco le inutili fatiche alessandrine e l’utile indiretto che si arreca al criticato, quando, per costatare con documenti alla mano le ruberie, il lettore diligente accorre a comprarsi i volumi posti sotto la nostra censura. Ma, d’altra parte, non posso trattenermi da una certa soddisfazione, che, per quanto intima e racchiusa, ha bisogno di espandersi e di accampare le sue facili scoperte: soddisfazione di chi inventa e ritrova, sia che far l’una cosa o l’altra significa aumentare la propria potestà nel mondo fisico e morale proteso davanti a noi per la curiosa investigazione e la determinata volontà di possedere. Se dunque Benedetto Croce trova ottimo il tempo di ripubblicare, in bella nota, le accuse e le costatazioni della res furtiva rivelate, da Thovez ad Umberto Silvagni, e quest’ultimo, in Fedra svelata, il nuovo e il bello, le fonti e gli originali della tragedia, dall’«Avvenire d’Italia», Bologna 18 aprile 1909; a me sia concesso, da un foglio tutto rosso, a risposta ed in aiuto del primo pezzato bianco e giallo, ricordare una Phaedra inglese edulcorata e deturpata per le cure eccezionali dell’italianissimo poeta; e vediamola.
C. A. Swinburne, tra i primi poemi stampati nelle edizioni di Chatto and Windus (St. Martin’s Lane, London, W. C.) Poems and Ballads, first Series, (e costa nove scellini) include una Phaedra, da pagina 31 a pagina 38. Questa stessa, nella traduzione francese del Gabriel Mourey — Poèmes et Ballades de C. A. Swinburne, edizione Albert Savine — si contiene, nel volume da pagina 37 a pagina 46. La famosa scena dell’altra nostra Fedra, sta tra le pagine 148-165 del libro edito dai Fratelli Treves. In tutte e due le composizioni agunt et cantant: Ippolito, Fedra: nella inglese mormora in sordina e con parca notazione classica un «Coro delle donne di Trezene».
L’abilità del D’Annunzio fu somma nello smarcare dal suggello swinburghiano i versi di lui: cambia loro il posto, li anticipa, o li fa seguire interpolatamente; li confonde colla sua broda; li piega, li comprime, li schiaccia dentro le proprie cacofonie; li sforbicia e li torchia; ne ricava il sugo dentro un piattello già ingombro di roba altrui; ne condisce il suo intingolo come di un liebig e di fomenti caldi; lo ammanisce alla promiscua e melensa ignoranza delle piccionaje, delle platee e della gazzetteria nostrana, e se ne fa applaudire. Non importa: la colpa non è nostra; ma nostro sarebbe il delitto se non ci si trovasse capaci di avvalorare di documenti la asserzione, quindi, di mostrarsene responsabile. Ed eccoli.
D’Annunzio incomincia le battute di Swinburne da lontano, da quando Fedra, come una damina isterica della cosmopolita società attuale, civetta coll’Aedo; perché è pur di bon-ton sollecitare la brachetta, platonicamente, al poeta del salotto per eccitarsi, quando si ha speranza quasi certa di positivo e massiccio abbraccio polposo da un ginnasta-cavallerizzo, come Ippolito. E Fedra, parlando di sé in terza persona, dice a pagina 97, verso 1329 e seguenti:
Dea non è quella; e pure è consanguinea
di Eterni. Non divina non umana
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
di sé, delle sue vene mescolate.
E perciò, sembra che deliri. Ma
dea non è quella.
Io non sono in conformità colli iddii. Sono loro parente, ho sangue strano in me... Le mie vene sono mescolate; e per questo, io mi arrovello ed inveisco contro la stessa mia carne.
Poi D’Annunzio fa un elegante ed audace salto di barriera e d’ostacolo, giuoco concesso a solidi garretti di polledro di ben quotato e nobiliare pedigree purissimo, scavalca e trabalza sopra l’Aedo, il Pirata fenicio, le Fanti, la nutrice Gorgo, là, dove «una luce d’oro s’aduna nel silenzio incupita dal bronzo dei cipressi, che la rallenta»; dove «vi è il fremito e l’anelito della Cretese involuta di carne come d’incendio». E la Fedra d’annunziana dice all’Ippolito:
. . . . . . . . . . . . . . . . Non io
ti sono madre. Non mi sei tu figlio,
no. Mescolato di sangue non sei
con Fedra. Ma il tuo sangue è contro il mio
nemico, vena contro vena. Ah no,
non d’amore materno t’amo. Inferma
sono, inferma di te,
sono insonne di te,
disperata di te che vivi, mentre
né ho bevanda alcuna che mi plachi,
ma tutta me consumo in ogni lagrima!
Io, che non sono dea ma consanguinea
degli Implacabili...
(perché concordi colla Fedra di Swinburne):
No, perché ti amo; così riapri, tu, le mani tue, ma io non ti lascerò più; tu sei dolce; tu non sei mio figlio, io sono la donna di tuo padre, ed io abrucio per te con sangue di sposa... il polso è pesante alle mie vene maritate; mi batte dentro tutto il volto; voglio morire sbramata completamente di te; il mio corpo è vuoto di piacere; io ne morrò; sono rovente di amore sin dentro le ossa: tu non partirai; ho il cuore malato; le mie pupille feriscono i miei occhi; ma tu non mangerai, né beverai, né dormirai, né dirai più parola, prima di avermi uccisa.
Quale magia di parole roventi, quale incalzar di passione qui; quale timido e convulso e convesso e concavo secentismo barocco in D’Annunzio!
Donde l’Ippolito di lui ordina:
Non t’accostare a me, tu che ti strisci
e che può mordere:
e l’altro semplice e composto, in un gesto sobrio di attico bassorilievo:
Che costei non pianga, non s’avvicini a me,
Ma Fedra, di molti padri e di D’Annunzio, lo riconosce:
tu sei come quel dio,
e come lui chiomato
e imberbe.
Similmente, l’altra di un padre solo, Swinburne:
tu sei muscoloso come sono li dei,
E quella gli si offre:
. . . . . . . . . . . . . . . e più
profondamente maculata io sono
costellata di stelle
indelebili, o tu che sei sì terso:
perché dentro mi stanno, più antichi
di me, la colpa e la divinità,
E l’altra:
Questo mio corpo val bene una pelle di bestia selvaggia od un vello, ed è più maculato di una pantera neonata;
mentre un falso Ippolito prega ancora:
. . . . . . . . . . . . . Lasciami.
Lascia ch’io parta, ch’io non oda più
che più non mi contamini del tuo
E l’altro, il vero:
Lasciami partire; distogli da me i tuoi occhi che fanno onta alli dei.
Ma Fedra demenzia; ha il sesso rosso e schiumante sulla bocca:
. . . . . . . . . . . . . . . No,
no, non ti lascerò se tu non adopri
la mannaja lunata dell’Amazzone.
. . . . . . . . . . . . . . Prendi,
la sagaci d’Antiope ed abbattimi.
. . . . . . Pronta, eccomi all’Ade;
che non dell’Ade, non delle tenarie
fauci sono i castighi più crudeli,
. . . . . . . . . . . .
. . . Ah sii dolce, poi che dolce sei.
T’ho veduto. Poi fendimi con tutta
la tua forza, poi trattami qual fiera
perseguitata dai tuoi cani, trattami
qual preda raggiunta. Siimi dolce!
No, non ti lascerò e non potrai respirare finché tu non mi abbia uccisa... La morte non è come te, per quanto li uomini la stimino la più cattiva delle dee... — Che farai tu? Sarai tu peggiore della morte? Sia almeno il più dolce come questa è la più amara e la più implacabile delle divinità! Voglio forse troppo? Io non ti comando che di essermi senza pietà. Trattami come le belve di cui i tuoi cani sono avidi.
Ora, se l’ultima Fedra vuol raccontare il ritorno dalla avventura di Creta e l’abbandono di Arianna nell’isola deserta, tradimento dell’irriconoscente Teseo, descrive il mare e l’impreca:
. . . . . . . . . . Ah, non groppo
di turbini, non gurgite, non sirte,
non perdimento alcuno era in quel mare?
Non cozzo che frangesse la carena?
che sol rendesse bianco ossame al lido?
Ripropone i versi di Swinburne:
Non vi erano potenti turbini dentro il mare concavo, per afferrare, giù, nel loro becco, nel loro fianco, non vento alcuno per attirare nei suoi denti e nella sua capigliatura, nessun banco di sabbia, nessun bassofondo, nessun gurgite, donde i flutti, che si combattono, rigettino spoglie e schiume, dentro cui si torcano, in vortice, le bianche ossa, come un fuoco che si imbianca mentre si inalza?
Comunque, chiameranno tutte e due Ippolito:
. . . . . . . . . Ma ti lasciò per madre
nomi d’acciajo, di cui ha la proprietà del battesimo il poeta inglese.
Comunque, tutti e due chiederanno al giovanetto frigido, guerriero e feroce la morte benigna per una sua ferita e lo imploreranno della strage, poiché loro recusa l’abbraccio.
. . . . . . . . . Sì, tra l’omero e la gola
colpiscimi. Con tutta la tua forza
fendimi, sino alla cintura, ch’io
ti mostri il cuor fumante arso di te,
sì, colpiscimi, fiero della brama
mostruosa — colpiscimi —
non esitare, per la pura Artemide
che t’incorona, per la santità
della dea che tu veneri raccolta
la tua mannaja e fendimi! — perché
ben io son quella che gridavi, sono
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Vibra la tua spada, qui, tra la cintura e il seno... perché come mia madre sono assillata ed accesa e sopra alle mie guancie ho la stessa rossa malattia;... colpiscimi come una preda; t’imploro per la santa e fredda corona verde e per il diadema delle foglie d’Artemide;... affonda la spada sino alla impugnatura, sono la figlia di Pasifae,... sono la donna di Teseo.
Quindi ambo freneticano ed eruttano l’ultima maledizione, l’esorcismo alli Dei onde, tosto, scoscenda sopra Ippolito la strage; preghiera solenne tra i singulti d’amore, odio implorato esiziale ai Superi, verso cui l’insaziata ingordigia delli inguini feminili slabra tumida e protesa invano, all’urto del maschio che fugge:
. . . . . . . No, non posso. Te lo dico.
Ippolito, non odi? con la voce
di sotterra, non odi? con la voce
che non è mia ma dell’inferna Erinni.
Se ti è cara la luce (e già i cavalli
del mio Sole percuotono lo spazio
se ti è dolce la vita, or tu mi devi
abbattere sul tuo cammino ed oltre
indietro e andare alla tua lotta e vincere.
Ma non sperare di vivere, di vincere
se non mi abbatti.
Ma tu sei peggiore; da te con un soffio ritorna indietro sulle mie labra la mia preghiera e le schiaffeggia dileggiando. Che posso io dirti? Obbligarti a farmi del bene uccidendomi? — Scansati, guardati; io te lo dico; sii prudente; riguarda in mezzo ai tuoi piedi per timore che un’insidia non li afferri, per quanto la terra appaja sicura.
Avrò io la sbadata malagrazia di affermare che il D’Annunzio abbia torto e con ciò dimostri la sua poca probità letteraria? Ch’egli manchi di quella ingegnosità così cara e così pratica oggi giorno? Ch’egli non sappia sottomettere la propria produzione alla richiesta della follaccia, che oggi gli rimane tuttora in torno? Ma io non dirò mai tutte queste corbellerie: anzi, ammiro il suo stomaco di struzzo, che, letterariamente e contro suo genio, trangugia tutti questi ciotoli plebei e scabri, perché, nel minor tempo possibile, sopra reminiscenze, ricalchi e traduzioni, colla minor spesa cerebrale, col minimo mezzo dell’amanuense, egli possa scodellare alle platee italiane la sua derrata bollita, pepata, ammanita secondo le ultime ricette della più bassa culinaria dramatica. Egli fa ottimamente.
Egli procede per affari commerciali interessanti allo studio della filosofia; egli è il piccolo Barnum dai casotti di tela ed assicelle, in cui — proclama la grida ed il buttafuori pagliaccio, in sull’entrata — voi vedrete la viva e reale presenza della bestia che mangia l’uomo vivo: ed è una pulce. Sacra pulce di letteratura, piccolo insetto parassita dell’opera altrui. Ed in giro a questo ruffianesimo, a questo novissimo succhionismo — come in giro e sopra alle cambiali semplicemente nominali delli uomini politici, che non le pagano mai e perpetuamente le rinnovano, per ufficiosa ed ufficiale bontà del governo; cambiali che rappresentano il saldo del voto e l’accondiscendenza alla truffa legale: — ed intorno a questa simulata e vuota sonorità di lirica e di gesti, speculano i critici del giornale che ha peso, tutti li infusori dei mille corrieri e corrierini della sera e della mattina; tutti i resocontisti che si atteggiano a vice Ojetti ed a vice Barzini provinciali; tutti i miseri corifei, che battono la gran cassa per rumore; tutti li astuti che sovreccitano, colle notizie a spizzico, la balorda curiosità dei citrulli e titillano, colle indiscrezioni, la matrice della bas-bleu; tutti li imbecilli che fanno la coda della monarchia e della letteratura e che si scompisciano sotto, santamente, per la commozione.
E vi è il coro, la strofe, l’antistrofe, l’epodo; e si rispondono a battuta: e tutta Italia echeggia di ragli d’asino; e tutta Europa ci beffa. Perché nostra è colpa, nostra è vergogna; nostra l’ignoranza, questa, autoctona ed epidemica. La critica che è il gendarme dell’opera altrui e che deve avvisare e denunciare alla opinione pubblica il furto consumato e produttivo del baro di letteratura; la critica si ammuta, ha paura, ha pudore... o forse concorre al guadagno. Ed a ciascuno è lecito fare il brigante, in arte, e violare i confini ed il domicilio, e pirateggiare sui mari della stretta proprietà allodiale del pensiero; e nessuno se ne preoccupa ed accusa. Che anzi si dice: «Come è furbo; che ingegno; che praticità, quante cose conosce e come le impiega a suo luogo!» Certo, egli ha ragione, il D’Annunzio; sono io che ho torto e lo confesso.
Io, che lo vado prendendo sul serio, perché vedo ancora in lui, sotto tutte le degenerazioni della moda, dell’interesse, della vorace sua esistenza, ancora, dell’ingegno: meglio gli si addicono invece le parodie e le caricature, meglio il sarcasmo, che balza ridendo, meglio il grottesco, il dileggio spicciolo, la irriverente contumelia. Inchinare su di lui la critica appassionata e sincera è cattiva azione: questa, che deve essere una ragione sociale di norma onesta e bella — questa, che crede e deve rivolgersi come pretesto ad un autore, perché l’arte dell’epoca ed il suo pubblico vengano giudicati; questa, la mia, è inutile e fuor di posto. La nostra piccola Bisanzio ha la poesia che le conviene: il giro è vizioso e concentrico: costume, grettezza d’animo, concorrono a fare del misero caso D’Annunzio un caso nazionale; noi abbiamo torto marcio. La rigatteria letteraria d’annunziana è l’indice estetico della nazione, come il parlamentarismo attuale è giolittiano ed è l’esponente della moralità politica e privata della monarchia: che volete di più? Noi abbiamo torto.
Benedetto Croce ha concluso testè, nel suo articolo della «Critica»: Reminiscenze ed imitazioni col bel ottonario dei Trionfi carnascialeschi:
Lo ripeto con lui, mentre gli invio fraternamente quest’altro contributo, che non esagera, per un possibile e completo lessico: Delle fonti d’annunziane: in cui, tutto D’Annunzio immerso, è solubile completamente e non si ritrova più.