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II.
Ed ora, passati due anni, sappiamo noi che dicano in realtà codeste fasce? e fu veramente la loro scoperta avvenimento grande e decisivo per la questione dell'italianità etrusca? Chi al principio del secolo avesse dovuto dar pegno, se prima si sarebbero comprese le scritture geroglifiche e cuneiformi, o le etrusche, certo l'avrebbe dato per queste, che già almeno su per giù si leggevano, perchè d'alfabeto quasi uguale all'antico latino, all'umbro, all'osco e al greco antico, laddove pur l'alfabeto era in quelle supremamente enimmatico. Ebbene! oggidì quelle si leggono e, per opinione di tutti, in molta parte s'intendono; le etrusche all'incontro si leggono bensì alquanto meglio, ma si disputa se s'intendano, e, per opinione dei più, specie d'oltr'Alpe, non s'intendono punto. Nè può far meraviglia: invero, prima della Mummia, i testi etruschi a noi pervenuti stavano bensì fra sei e settemila, ma di gran lunga i più o contenevano soltanto nomi propri, od erano di brevità disperante; facevano eccezione soltanto il cippo di Perugia con 24 linee e 22 semilinee e circa 130 parole, il piombo di Magliano con una settantina di queste, l'epitafio cornetano di Laris Pulena con nove linee, e pochi altri minori. Come mai pertanto, chi presumeva comprenderne alcun che, avrebbe potuto dimostrarlo con metodo rigoroso? come mai cavare da così fastosa miseria la grammatica e il dizionario di una lingua sconosciuta? come mai raccogliervi quei luminosi parallelismi, coll'aiuto dei quali la conghiettura suggerita da un luogo risulta provata da più altri? Ed ecco tutto ciò diventar possibile d'un tratto mercè del Krall e delle 231 linee con 1200 parole da lui regalate agli etruscologi; ed ecco perchè torni per questi la sua fatica di straordinaria importanza, e segni nella loro disciplina una nuova era.
All'opera si pose infatti senz'indugio, delle due scuole armeggianti, specie da vent'anni, nel campo etruscologico, quella colla quale io sto: e parvele senza più confermata dal nuovo testo la sua dottrina: che cioè l'etrusco fu lingua in tutto, o sopratutto, italica, e che i suoi monumenti letterari coll'aiuto del latino, dell'umbro, dell'osco e talvolta del greco, e a quando a quando eziandio delle altre favelle ariane, si possono omai dal più al meno, con discrezione, interpretare. Concentrata quindi sulla Mummia la poca luce di tutti i documenti prima conosciuti, e riverberato su questi il fascio luminoso del faro egiziano, raccogliemmo a piene mani esempi novelli di nominativi, accusativi, ablativi, locativi, genitivi, singolari e plurali, prettamente italici, identici, co' già avvertiti o solo diversi per giusti e facili mutamenti fonetici; raccogliemmo nuovi esempi di perfetto attivo alla terza persona del singolare, accompagnati dall'accusativo in -m che ne dipende, anch'essi rispettivamente identici o poco diversi; trovammo più esempi della terza plurale -sa prima ignota, perchè confusa fra le forme nominali, sicchè non pochi testi, già inesplicati, divennero chiari; incontrammo anche nelle fasce alquante parole schiette latine od umbre od osche, e molte più che, spiegate col soccorso di questi idiomi, davano al contesto senso plausibile; e proponemmo l'interpretazione di più frasi e linee, e finalmente di tutta intera l'ultima colonna a saggio del resto, che verrà poi. Insieme ci accadde avvertire, come tutte le linee della Mummia fossero versi, verisimilmente saturnii o di tipo saturnio; e fatta ragione delle molte incognite, che ancora avanzano, e ristudiate e confutate ad una ad una le antiche obiezioni pregiudiziali contro il metodo da noi adoperato e gli ottenuti risultamenti, concludemmo potersi con probabilità definire il contenuto del cimelio: un racconto verseggiato degli atti sacri celebrati, pel novilunio del mese Giovio1 nell'anno quinto o lustrale2, da un sodalizio funerario di gente umile e spuria, nelle are e statue e tempietti dei numerati sepolcri, onde componevasi il suo assai vasto sepolcreto.
A tutto ciò la scuola avversaria non contrappose nè fatti, nè ragioni nuove; ma s'accontentò di proclamar prima che la Mummia dimostrava, con evidenza insuperabile, essere stato, secondo suona la sua dottrina, l'etrusco idioma dissimile da ogni altro antico o moderno, e che da quella pertanto ricevevano i fautori dell'italianità «il colpo mortale»; appresso, veduto che costoro mostravansi più vivi che mai, affermò illusorie le congruenze etrusco-italiche e le connesse interpretazioni; da ultimo sentenziò, che la persuasione dell'italianità, o come usa dire, il corssenianismo, era tanto quanto una malattia mentale, sicchè vano tornava discutere con chi, per sua malora, n'andasse affetto.
Sgraziatamente per noi, secondo già si accennò, inchinano tuttodì verso gli oppositori i più fra' filologi e storici, specie transalpini. E ciò per due motivi principalmente. Il primo è l'insuccesso fatale, onde si tocca più avanti, del Corssen, l'uomo che parve giustamente il più preparato a combattere la battaglia dell'italianità: insuccesso, che rese perciò acerbamente scettici gli studiosi serii contro chiunque presuma ricalcarne le orme e vincere la partita da lui perduta. Il secondo sta nell'indiscutibile valore da molti fra gli avversari dimostrato in territori contigui all'etrusco: valore, che ben ci guarderemo dal disconoscere noi, i quali da' loro libri, massime di quei dominii, tanto imparammo e impariamo. Sebbene adunque non ci manchi pure oltr'Alpe qualche caldo e valorosissimo alleato, e numerosi amici e patroni, fra caldi e tepidi, ci confortino in patria, ben potrebbe per ora giudicarsi ostinazione dissennata la pertinacia nostra, se buoni argomenti non rendessero tuttavia probabile, stare pur questa volta la verità dalla parte dei meno, destinati verisimilmente a diventar moltitudine in breve giro di tempo.
Anzitutto più volte, in questi anni, ora precorremmo agli oppositori, ora concorremmo con essoloro, nell' avvertire e documentare nuovi fatti: così, per esempio, quanto alla rappresentazione del suono F mediante la formola grafica VH, e all'esistenza del Q nelle più antiche iscrizioni etrusche. Ora, entrambi codesti fatti s'incontrano, ognun sa, eziandio nelle latine; e però due notevoli differenze, sino a poco ammesse fra le due lingue, si mutano in anelli preziosi che le rannodano, e provano esser buono, almeno in parte, anche a mente della scuola contraria, il nostro metodo, e la fede nell'italianità etrusca non averci resi per anco in ogni riguardo mentecatti.
Più volte inoltre di questi anni dovettero gli oppositori abbandonare opinioni da essi giurate ed rigiurate, per adottare le nostre. Così, per esempio, accettano essi omai che le voci etrusche suthi e ma non siano verbi e non significhino: «egli è,» sibbene ma un pronome, e suthi un nome per dire «sepolcro» (lat. sedes, celt. suide) accettano essi omai parimenti, per esempio, la piena sincerità del piombo di Magliano, con tanto sforzo da loro contr'a noi impugnata, primachè le Fasce risorgessero a rivendicarla, come confessano, con meridiana evidenza; e però qui ancora insieme confessano che, se in siffatte occasioni mentecatto vi fu, non fu sicuramente nel nostro drappello.
Agli oppositori nostri accadde altresì negli ultimi vent'anni di passare spontaneamente dall'una opinione all'opposta; e così, per esempio, accadde che nel 1881 il Pauli ci ammonisse, non doversi trarre alcuna deduzione a favor nostro da ciò che i due «più etruschi ed originari fra' prenomi etruschi,» cioè Arnth e Larth, «si appalesano senz'alcun dubbio per indogermanici», e nel 1866 dichiarasse di «non credere ora più affatto all'origine indogermanica di Arnth e Larth.»