Elia Lattes
L'italianità nella lingua etrusca

III.

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III.

 

V'ha poi il capitolo spiacevolissimo delle omissioni così frequenti negli scritti etruscologici dei nostri avversari: le quali giungono sì oltre, che, per esempio, il Pauli parla a lungo nel suo ultimo libro, dei Tirreni e dei Pelasgi, senza ricordar mai Edoardo Meyer, oggigiorno la prima autorità, per comune consenso, in siffatta materia: e vi approva l'arianità dei Liguri, senz'accennare niente meno che all'ampia difesa da ultimo fattane, contro le sue precedenti opinioni, dal Müllenhoff. Similmente il Pauli, a proposito del già menzionato etr. VH per F, non solo tace del nostro così onorevole incontro, ed anzi della nostra priorità, ma conserva un suo enimmatico vhelequ, e omette notare come si fosse da tempo mostrato, e poco prima ripetuto, trattarsi di stavhel equ per stafel eku o ecu, ossia lat. stabilis eqo o eco, pel posteriore e normale ego. Inoltre nella stessa occasione omette il Pauli di aggiungere ai nostri comuni esemplari pel Q etrusco, quello assai importante, e già a tale proposito da noi raccolto, di Cenqunas allato a Cencunia. Ancora il Pauli ebbe testè a ripetere che gli Etruschi, unici in Italia e fuori, aggiunsero in fine alle parole un -m congiuntivo alla maniera del lat. que: ora, non solo omette egli di accennare ai fatti replicatamente allegati contro quella immaginaria particola, ma studia appena due delle 44 nuove voci in -m offerte dalla Mummia; e delle due, una (cisum) confessa di non intendere affatto, senza toccare tuttavia della dichiarazione da noi proposta, sicura, direi, nella sua evidenza, come si mostra qui appresso: dell'altra poi (marem) incompleta la spiegazione da noi porta due anni prima, e ripetuta un anno dopo, omettendo, per involontaria dimenticanza sicuramente, di accennarvi. Il medesimo valentuomo afferma «ignoto affatto presso gli Etruschi, salvochè in alcune iscrizioni tarde romaneggianti,» l'uso di raddoppiare le consonanti, e fa «pesar ciò il più gravemente sulla bilancia» per separare le origini dell'alfabeto veneto dall'etrusco: ora egli stesso riferì altrove due volte, come onninamente arcaica, una etrusca epigrafe, nella quale si danno ben tre esempi di quel fenomeno, che noi da tempo documentammo coll'aiuto di siffatto testo e insieme d'altro della stessa provenienza ed età3. Persino poi nella nuova egregia raccolta delle iscrizioni etrusche, come, per esempio, non si profitta per le lamine di Volterra delle acute lezioni del Bugge, così, per esempio, si ripete l'errata lezione akiltus, corretta poi, a proposito di Lenno, in akil-tus, conforme il Deeke da un pezzo insegnò, senza che, certo involontariamente, per disgrazia ciò si ricordi.

Singolare esempio di omissione, fra molti, offre in questi giorni altresì lo Skutsch, insieme col Pauli, a proposito del numerale etr. thu. Entrambi i dotti uomini si affaticano a render probabile, per via d'indirette combinazioni, che quella voce, tanto simile esteriormente al «due» di tutte le genti ariane, significhi non già «due,» ma «tre»: e non dicono verbo dei numerosi fatti materiali accumulati dal Bugge, dal Deecke e da me per dimostrare, in via diretta, che essa disse precisamente «due,» come sin dalla scoperta dei dadi di Toscanella tra noi si opinò; e non accennano pur di lontano alle riprove date di ciò dalla Mummia. Dei fatti si tocca più avanti: qui di corsa indicherò le riprove. Primieramente, quattro volte si legge nelle Fasce: Ais Cemno-c o Cemna-ch; e si legge su di una statuetta: Aiseras Thufithicla. Ora, che Ais e Aiseras abbiano relazione, torna manifesto; che poi significhino circa «dio» o «dea», da tutti si ammette per molti documenti antichi e moderni: torna quindi probabile, che abbiano fra loro alcuna relazione anche Cemna e Thufithicla, e che n'abbiano alcuna altresì con «dio» o «dea». E per verità, reso questo alla lettera latinamente, giusta le regole della trascrizione etrusco-latina, diventa a un di presso: «duplitticula,» ossia «doppiettina»; reso poi similmente l'altro, diventa: Gemna, che, nel dialetto latino di Preneste, si disse per gemina, ossia precisamente «doppia»; che poi «gemella» o «doppiettina» possa essersi detta nell'antica Italia una deità, lo mostrano Giano Gemino o «bifronte» e la sterminata moltitudine dei diminutivi sacrali, alla maniera degli odierni «Madonnina Servatoriello» e simili. Dunque, allato al numerale thu, ebbero gli Etruschi il derivato thu-flo-, come Latini ed Umbri accanto a duo possedettero du-plo-; e però si conferma che l'etr. thu e il lat. duo vanno insieme. — Secondo, più volte nella Mummia e fuori incontriamo etr. thui e thi o thii o thei; e col minuto raffronto dei contesti s'impara oggi da quella, che sono voci numerali, e che quindi voglionsi rannodare a thu: ora l'etr. thui e thi o thii o thei stanno a thu come il lat. duis- e dis- o di- a duo. — Terzo: nella Mummia e fuori, insieme con thi, abbiamo anche thil; così in latino insieme con dis- o di abbiamo Duilius e duellum. — Quarto: nella Mummia e fuori occorrono anche thun thuna thune thuni; così in latino duonus, che diventò poi bonus, al modo che duellus si mutò poi in bellus, il nostro «bello.» Ma qui s'aggiunge, a riprova ulteriore, che le fasce ci danno insieme ara thuni e ara thui e thui aras (Lenno, arai tiz), ossia quindi circa: «ara doppiaora le aræ gemninæ furono di rito, ognun sa, nel funerale latino. Forse a torto però negai io testè che a niente di ciò pur lo Skutsch accenni; forse cioè vi allude egli, quando protesta di reputar «lecito lasciare senza confutazione» le nostre «orgie corsseniane».

Non meno singolare esempio di omissione porgono gli avversari, quando insistono nel porre a catafascio le più balorde interpretazioni etimologiche, per esempio, del cippo di Perugia o della pietra di Lenno colle più ragionevoli, per argomentare, «in nome della scienza», dalla discrepanza dei risultati contro l'utilità e la proprietà del metodo stesso, in quanto si applichi ai testi etruschi. Primieramente, fra le interpretazioni in ugual grado condannate, omettono di rilevare come non appartengano ai nostri quelle che da loro si giudicano «onninamente assurde», o «sbalorditive:» il che prova come, anche a loro giudizio, ed eziandio nel campo etrusco, lo stesso metodo diversamente adoperato dia frutti ora pessimi, ora, al più, non buoni; e per verità cogli autori delle dichiarazioni «assurde» o «sbalorditive», mai non accadde che gli oppositori s'incontrassero in qualche particolare di fatto, mai avvenne che ne adottassero alcuna opinione invece delle proprie, laddove, secondo si dimostrò qui sopra, d'ambo le cose potemmo noi più volte compiacerci. — Secondo: omettono essi di ricordare come, per esempio, dell'epigrafe latina del Quirinale e del carme latino degli Arvali siansi date e si diano versioni affatto disparate; sicchè, se tanto sapessimo e possedessimo di latino, quanto d'etrusco, ben potrebbe taluno argomentarne del pari contro il metodo degli interpreti e la qualità della lingua, con quella giustizia e verità, che ciascuno vede. — Terzo: omettono di avvertire come le nostre interpretazioni segnino un progresso continuo l'una rimpetto all'altra; e sempre le posteriori mantengano qualche parte delle precedenti e s'adoperino a migliorarle, come accade nei più difficili testi latini e umbri e oschi, e di qualsiasi favella ed età. — Quarto:accadde che avendo noi, per esempio, interpretata la voce etruscolemnia e-vis-tho con «domiciliato» (letter. quasi un lat. «in-ves-tu-s»), il Pauli non solamente sentenziasse essere siffatta dichiarazione «insostenibile,» ma si rifiutasse di giustificare simile giudizio, per trattarsi di proposta «appena campata in aria e avventurata all'azzardo»: ora la verità è, che di ciascuna delle tre parti di detta voce, eransi da noi date naturalmente le prove, attinte al confronto con altri testi etruschi o paleoitalici; le quali ripetemmo poi diffusamente, riempiendone ben dieci fitte pagine, per la speranza che il valente contradditore riconosca un giorno, com'egli avesse prima omesso di accorgersene. — Accadde similmente, che avendo noi confermato potersi l'etr. achnaz mandare, sino a prova contraria, col lat. agnatus, replicassero gli avversari mal pretendersi la prova contraria da chi prima non avesse dato la prova diretta; or questa si legge minutamente documentata nella pagina medesima dove si parla d'achnaz. Ed era nientemeno che la seguente: ci danno le Fasce acnesem ipa[m], e conosciamo da tempo suthi achnaz e clel acnina; ora suthi tutti consentono, come già si notò, significare «sepolcro»; ipa (gr. ibe) dai più si ammette significare «olla sepolcrale»; quanto a c[e]lel buone ragioni e riscontri persuadono a ravvisarvi il lat. cellula, ossia la «cella sepolcrale», leggendosi, a tacer d'altri fatti, cela sì in fronte di sepolcro etrusco, sì in più epitaffi falisci: abbiamo pertanto le tre parole etrusche acnesem acnina achnaz, manifestamente fra loro connesse, in compagnia tutte tre di parole quasi sinonime, e tali che a tutte tre egregiamente conviene la relazione col lat. agnatus, giacchè egregiamente, e del sepolcro, e della cella sepolcrale, e dell'olla sepolcrale, potè dirsi che fossero «agnatizie». — Che più? Mentre noi, secondo già si mostrò d'occasione e appresso con particolari esempi si rimostra, fra le molteplici etimologie suggerite dall'estrinseca somiglianza con questa voce italica, preferiamo la più conveniente al senso di tutt'i contesti e alla grammatica, avviene che gli avversari ci chiedano ironicamente perchè mai non siasene da noi prescelta una affatto diversa e del tutto sconveniente. Così, per esempio, avendo noi conghietturato che lo simlcha della Mummia andasse col lat. simul e valesse «compagnia», ci chiesero perchè non ricorrevano piuttosto a simia: ora, a simlcha precede sethumna-ti, che dietro l'analogia dell'etr. Nethuns pel lat. Neptunus, traduciamo: in septuma; sicchè insieme sethuma-ti simlcha ci molto sensatamente: «nella settima compagnia», cioè del sodalizio funerario, onde si tratta; per contro, che senso avrebbe mai la frase: «nella settima scimmia», sel sapranno forse i nostri critici; noi l'ignoriamo di certo, o, trattandosi di materia scimiesca, almeno lo dimenticammo.

Dopo di che concederà facilmente il discreto lettore, che mentre gli avversari si tengono, bontà loro, pienamente sicuri della insanabile demenza e cecità nostra, possa in noi sorgere talora alcun dubbio intorno alla misura della loro competenza ed alla serietà dei loro giudizi. E il dubbio si avvalora, quando badiamo alla frequenza delle così dette emendazioni, mercè delle quali riducono alla misura della presente ignoranza i testi più difficili. Così, per esempio il misterioso thisu d'un epitafio cornetano erasi mutato in eclthi-su[thi]: ed ecco risorgere di terra la stele di Novilara e darci chiarissimo tisu. Similmente erasi in molti modi tormentato un ignoto hectam: ed ecco la Mummia mostrarci hechz he[c]tum accoppiati insieme. A questi fa altrove riscontro sva[l]n svalce e ridà il lat. vitam vixit: ma non serve per gli oppositori, che perseverano a cambiare l'unico svan nel comunissimo clan, e ne argomentano l'incuria del lapicida, e se ne prevalgono per «emendare» eziandio nello stesso documento ceptaphe locu, ossia il lat. cepotaphium [et] locum o lucum, in cepen tenu e lupu, o cepen phelucu o cepen tenuce, senza cavarne alcun preciso senso, anche mandando a spasso, se bisognava, l'incomodo phe; al quale, forse perchè non viaggiasse da solo, si diede poi la compagnia del pe, parimenti incomodo, della dea Meanpe. Incontratosi, vale a dire, in questa il benemeritissimo continuatore del Gerhard su di uno specchio, e riconosciutavi la solita Mean o Meani — una maniera di Venere Libitina o Mania o, come usavano dire anche i Falisci, Meania — non seppe che fare del -pe o lo attribuì a stranezza etrusca. Ora, fra i piedi della dea vedesi un «pesce»: e però, ricordato che gli Etruschi dissero Selvan per Silvano, come noi «selva» pel lat. silva, e che una gente latina o latino-etrusca si addimandò dei Pescennii; ricordato che Venere «buona» (lat. manis Mania) fu adorata dai pescatori di Plauto, e che Venere pescatrice dieci volte si presenta negli affreschi pompeiani; ricordato infine che su di un cippo arcaico di Pesaro s'ha Juno Re per «Giunone Re[gina]», sembra verisimile che Meanpe debbasi all'incirca integrare in Mean-pe[scatric], cioè appunto «Venere pescatrice».

Non è pertanto dissennata ostinazione che ci persuade a continuare il solco, sul quale insistiamo da un quarto di secolo. Le nostre dichiarazioni formano ormai una lunga catena di anelli similari, che l'un l'altro si rinsaldano e sostengono: e le nostre interpretazioni riescono sempre a questo, che le scritture, tutte più o meno sepolcrali di un popolo famoso per la pietà verso i defunti e le superstizioni verso gli dêi, parlano appunto solamente degli dêi, dei morti e dei sepolcri, con una infinita ricchezza di nomi, di aggettivi, di verbi, che a noi, lontani ignorantissimi posteri, appaiono più o meno sinonimi. Noi guardiamo dunque con modesta fiducia all'avvenire, bene augurando di questo eziandio dalla storia, cui ora veniamo del nostro passato. Che se parve al Pauli «essere l'opinione dei dotti italiani essenzialmente determinata da repugnanza ad ammettere un elemento straniero nella odierna compagine della loro nazione», ricorderemo noi, a tacer d'altro, che con pari fondamento il D'Arbois de Jubainville afferma essere i «savants allemands» fautori della nordica origine degli Etruschi «égarés par des patriotiques illusions

 





3 S'aggiunge adesso il Vainatta (non -axta) d'un'antichissima iscrizione di Narce.



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