Elia Lattes
L'italianità nella lingua etrusca

IV.

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IV.

 

Centoventott'anni or sono, Giovanni Battista Passeri affermò nei Parolipomeni all'Etruria regale del Dempstero (Lucca, 1747), intercedere fra l'etrusco e il latino soltanto una «variam indolem dialecti»; lo affermò perchè riconobbe che i nomi propri etruschi in -al ben si dichiaravano come le voci latine di uguale uscita, e che gli Etruschi usarono esprimere la parentela materna ora con esso -al (per esempio Vipial ossia «Vibialis» per dire «figlio di una Vipi ossia «Vibia»), ora con genitivi e ablativi di foggia onninamente latina; lo affermò, sconfessando l'opinione della derivazione dall'ebraico, anche da lui adottata un quarto di secolo innanzi nelle Lettere Roncaliesi (1740-42), conforme alla persuasione dei più in que' tempi. Già pertanto nell'albore degli studi etruscologici, erasi avuto fra noi esempio simile a quello offerto a' nostri dalla famosa conversione del Deecke; e in ambo i casi la dottrina da cui s'intitolano queste pagine, fu il frutto degli anni più maturi e di una molto maggiore famigliarità coi documenti. Ventidue anni appresso, nel primo scoppiare della rivoluzione di Francia, pubblicava l'abate Luigi Lanzi il suo insigne Saggio di lingua etrusca e di altre antiche d'Italia, e confermava essere stata quella della stessa famiglia che le lingue dei popoli vicini (cioè i Romani, gli Umbri e gli Osci) e dei Greci. Lo seguirono quasi tutti gli studiosi italiani - il Vermiglioli, l'Orioli, il Migliarini, i due Campanari, il Conestabile, il Fabretti, il Gamurrini, il Poggi - con maggiore o minore fermezza, e con maggiore o minore miscela di errori: vale a dire, più o meno ricorrendo per l'interpretazione dei testi etruschi anche a linguaggi di famiglia diversa e in ispecie ai semitici. A questi esclusivamente chiese aiuto fra noi il gesuita Camillo Tarquini, mentre la stessa via batteva in Germania il valentissimo orientalista Gustavo Stickel: ma con sì scarso frutto entrambi, da doversene inferire pur sempre, secondo allora (1860) ebbe a scrivere l'Ascoli nell'Archivio storico del Vieusseux, «che minor disperanza di sollevare il velo che cuopre le misteriose iscrizioni degli Etruschi, dovesse restare a chi, sulle traccie dei Lanzi e dei Vermiglioli, ci si adoperava col mezzo delle favelle greco-latine». — Passati dieci anni, il medesimo maestro insegnava nelle sue essere «l'etrusco idioma ariano sicuramente, comechè non investigato a sufficienza». E per vero, di codesta investigazione, che domanda rigore di metodo e varietà copiosa di strumenti, appena in allora erasi pôrto qualche saggio, salutato da' giudici indulgenti come tale, che la sfinge per la prima volta avesse dovuto impallidire4. Lo accettò anche il Corssen, sopraggiunto in quella (1874-75) col suo grandioso tentativo: il quale, per la ventenne preparazione del valentuomo, già assai benemerito degli studi paleoitalici, destò fatalmente esagerate speranze; cui tanto meno parvero corrispondere i risultamenti, quanto più le promesse e aspettazioni dell'autore sembravano rincalzarle. Glottogolo massiccio, ma non geniale; buon filologo, ma inesperto nel rischiarare colla face antiquaria i mille tortuosi meandri del pensiero classico, disconobbe il Corssen troppo spesso «l'importance du sens en étymologie et en grammaire» e la «vraisemblance parlant plus haut que les règles de la phonètique»5: abbandonò egli così interpretazioni di sicura evidenza, specie quant'ai numerali, solo perchè non gli veniva fatto di giustificarle in modo conforme all'opinione dell'italianità etrusca. Il perchè, quantunque il Corssen molto abbia operato in pro del problema etrusco, molto più avendo egli voluto e presunto di operare, anche il suo insuccesso di molto si esagerò; e gli studiosi dei due mondi ne argomentarono, che omai senza il soccorso di qualche lunghissima bilingue tornasse impossibile scoprire l'arcano, e che quella, se mai sorgesse di terra, mostrerebbe come la parentela etrusco-italica sia stata un sogno di malati vaneggianti.

Contro il Corssen insorse il Deecke, a rivendicare, secondochè allora dicevano, la dignità oltraggiata del sapere alemanno: e prima egli demolì, poi si studiò di rifabbricare, in parte sul fondamento delle trovate italiane, respinte o neglette dal Corssen, specie riguardo ai numerali e all'uso etrusco del -c pel -c o -que dei Latini (per esempio: a-c at-que). Sopratutto mirò tuttavolta il Deecke ad escludere, per via di nuove dichiarazioni, i fatti grammaticali, ch'erano sembrati in sino allora indizio gravissimo per l'italianità dell'etrusco: sicchè, per esempio, mostrando le etrusche epigrafi, oltre a Vipial anche Vipias per dire: «di Vibia», e altresì Vipiesa per dire: «di Vibio», ne dedusse egli che solo in apparenza l'-al del primo e l'-as del secondo coincidessero coll'-al e coll'-as, per esempio, di lat. vectigal e paterfamilias, laddove in realtà il -s etrusco si dovesse reputar nato da -sa, e l'-al, non già fosse il suffisso aggettivale di lat. vectigal vecligalis, ma sì esponente di caso genitivo; e però la congruenza del latino coll'etrusco in questo e simili casi sarebbe mera illusione. Il quale ragionamento sta tanto poco, che potrebbe adoperarsi anche contro l'italianità del latino e dell'italiano per iscompigliarne inutilmente a sproposito la grammatica, se per avventura non più di quegl'idiomi sapessimo che d'etrusco. Invero anche noi diciamo: «mar glaciale» e «mar di ghiaccio», e così dissero i Latini «libri pontificales» i «libri pontificum»: quindi chi d'italiano o di latino poco o nulla intendesse, ben potrebbe pretendere che «glaciale» e «pontificales» siano forme di genitivo, quali «di ghiaccio» e «pontificum».

Avvenne del resto, secondo già si accennò a proposito del nostro Passeri, che il Deecke medesimo - dopo avere per alquanto proseguite (1875-1881) coll'usato plauso siffatte indagini, acquistata rara dimestichezza coi testi etruschi, e studiatine i più sopra luogo, sulla faccia dei monumenti - avvenne, dico, che lo stesso Deecke avvertisse d'essersi posto per una via senz'uscita. Perocchè, dall'un canto, l'interpretazione di que' testi gli apparve impossibile senza l'aiuto dell'etimologia; dall'altro canto, tale la lingua etrusca risultò fino ad oggi, che se si neghi la sua affinità col latino e colle altre italiche e loro cognate indo-europee, nessuna lingua antica o moderna può tenersene seriamente affine; e però il fondamento scientifico delle disquisizioni etimologiche, pronto e saldo in più d'un caso per chi vi creda, manca pure in quello a chi vi repugni. Pertanto nel 1882, il Deecke, preso a due mani il suo coraggio di galantuomo e di scienziato, anteponendo alla stabilità della reputazione i dettami della sua coscienza dottrinale, col quinto volumetto delle Investigazioni etrusche ripose sull'altare l'idolo abbattuto, e annunciò ai compagni attoniti la sua conversione all'italianesimo. — Ma principe fra quelli, nelle battaglie contro gl'insegnamenti corsseniani, era stato al Deecke il Pauli, che di lui diceva in allora le parole omeriche: «Onoriamo l'uomo pari al divo Ettore»; or nel Pauli la persuasione che quegl'insegnamenti fossero errati, non s'era mutata d'un punto; sicchè quando l'amico e maestro voltò casacca, egli fieramente rassettò la sua.

Infrattanto metteva a rumore il campo etruscologico la scoperta del piombo di Magliano, pubblicato dal Teza, e ripubblicato ora felicemente con lezione migliore dal Milani: ed ecco il Deecke afferrar pel capo il nuovo parto della sfinge, e proporne subito l'interpretazione e il commento, conforme alle analogie offerte dalla grammatica e dal lessico latino, umbro ed osco; ed ecco per contro gli oppositori, prima fisimare intorno alla sincerità del monumento; eccoli poi rifiutare tutte le più geniali conghietture e spiegazioni del Deecke, e confonderne il grano schiettissimo col loglio, che inevitabilmente, come sempre suole in simili tentativi, eravisi commescolato; eccoli infine parodiare l'interpretazione deeckiana con altra affatto diversa, benchè tirata sulla medesima falsariga, come prova manifesta della fondamentale incertezza del metodo da lui adoperato per conseguirla: tale metodo, pretendono gli avversari, da condurre, secondo il capriccio dell'operatore, ai risultamenti più disparati. Laddove la verità è questa, che l'offerta parodia, corretta in punto a grammatica, non torna guari probabile riguardo al senso del contesto, e in ogni caso apparisce per tale rispetto infinitamente inferiore al tentativo del Deecke: senza dire ch'essa poi neglige, coll'audacia di chi scherza, persino gl'indizi estrinseci della scrittura e dell'interpunzione, ch'erano stati, e sempre saranno, il fondamento di chi fece e fa da senno.

Al piombo di Magliano seguirono la pietra di Lenno, le fasce di Agram e la stela di Novilara: e sempre e costantemente, se qualche costrutto si trasse da sì cospicui trovamenti, e se, cioè, più o meno s'intese il senso dei nuovi testi, il merito ne spettò alla parte nostra; dovechè gli oppositori o mal riuscirono, o non riuscirono affatto, o nemmeno si provarono. L'antica obiezione contro di noi, che se l'etrusco fosse lingua italica, dovrebbero potersene comprendere i documenti, almeno nella misura dei latini più antichi e controversi, e de' pii difficili umbri e osti: quella obiezione, dico, si squaglia, oggi, come neve al sole, e la disputa verte omai fra chi più o meno traduce i testi etruschi tutti, e viene faticosamente abbozzando la grammatica e il dizionario del perduto idioma, e chi sta contento a predicare che «già l'etrusca lingua è un mistero», e si tura le orecchie per udir meglio, e chiude gli occhi per meglio vedere. Non li chiude però il Thurneysen, sebbene a noi pur troppo recisamente contrario, quando riconosce che il metodo del Pauli «presta il fianco a molte critiche», e che «nessun progresso importante, e nessun principio e fondamento di vera interpretazione» arrecò l'opera sua agli epitafi di Lenno.

 





4 Memorie dell'Istituto Lombardo, 1809, pag. 1-43; ASCOLI, Rendic. Ist. Lomb. 1870, pag. 704; SCHWEIZER-SIDLER nella Zeischrift für vergl. Sprachforschung, 1872, pagg. 264-273, 278-280.



5 BRÉAL. Mémoires de la Soc. de linguistique, vol. VI, pagg. 163-75.



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