IntraText Indice | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText |
I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio
La dottrina dell'italianità etrusca ha due faccie, che, a torto, dai più si confondono: una riguarda l'originaria arianità e italianità dell'etrusco; l'altra, gli elementi italici, che possiamo già di presente riconoscere ne' testi etruschi. Quanto al primo punto trattasi per ora, a mente nostra, soltanto di una ben fondata opinione personale, di cui si reputa verosimile che l'avvenire dimostri la verità; quanto al secondo punto, trattasi per contro del fatto incontestabile, a nostro avviso, che tali e tanti sono omai gli elementi italici offerti da' monumenti dell'etrusca favella da meritare ed esigere che in ciascuno di quelli, essi anzitutto si ricerchino e si esplorino con metodo rigoroso, per argomentarne la natura dei rimanenti ancora ignoti, e il senso probabile dell'intero documento.
Consideriamo adunque anzitutto le ragioni che stanno a favore dell'originaria italianità della lingua etrusca. La prima fra le quali è data dai nomi propri di persona ricordati nei 7000 epitafi etruschi e nei 3000 latini dell'Etruria; nomi propri per la maggior parte identici a quelli degli altri popoli italici più vicini; e tanto e così manifestamente identici, che da questi appunto affermano gli oppositori avergli dovuti imparare gli Etruschi. Ma in nessun tempo e luogo accadde mai alcun che di simile; nessun popolo, non che, come gli Etruschi, vincitore e più ricco e culto de' suoi soggetti, ma nemmeno vinto e povero e inculto, gettò mai all'aria la più intima e nazionale delle sue proprietà per adottare l'altrui: non v'ha infatti, per esempio, provincia dell'Impero Romano, i cui nomi propri non attestino la diversa nazionalità degl'indigeni e dei dominatori; e nell'Italia stessa, i Liguri, i Galli della Lombardia e del Piemonte, gli Euganeo-Veneti, i Messapi, conservarono in grande copia nomi propri inauditi fra' Latini, gli Umbri e gli Osci, laddove fra questi non è quasi nome o prenome o cognome etrusco, che non trovi riscontro. Nè poi solamente concordano i particolari nomi propri, sibbene l'ordine e modo delle combinazioni onomastiche etrusche combacia sopratutto coll'ordine e modo delle latine; cosicchè, per esempio, come nel Lazio «M. Tullius Cicero», così in Etruria «C. Alfni Nuvi, Lth. Seiante Trepu»: congruenza tanto più notevole, in quanto che non mancano fra le numerosissime somiglianze alcune singolarità del tutto etrusche, precipua delle quali l'indicazione della parentela materna per via del ricordato matronimico in -al. Ora, come mai quel popolo che sì gelosamente, sino ancora nel primo secolo dell'Impero, anche scrivendo latino (per esempio: «Creonia natus, Thoceronia natus»), conservò un uso onomastico che a' Romani dovè sembrare ridicolo, non avrebbe con altrettanta gelosia conservato i suoi nazionali originari nomi propri? E perchè mai questo santo ricordo dell'antica patria avrebb'egli sacrificato alla nuova, nella quale avrebbe per contro tenacemente conservata, quanto al resto, la sua propria lingua, sebbene questa dovesse essergli d'impedimento nelle relazioni coi soggetti e coi vicini, laddove nessun danno sarebbe provenuto a quelle dalla conservazione dei nomi propri? Del restante, fra le molte centinaia dì nomi propri identici, una dozzina di peculiari anche gli Etruschi, al pari dei Romani, dei Prenestini, dei Falisci, e di tutte le maggiori e minori genti italiche, pur ci mostrano; ma tali sono, che indarno si cercherebbero parole più schiettamente italiche: così Aranth, Arunth, Arnth, forse «l'aratore»; così Larnth, Larth, «l'arricchitore», se va col lat. Laverna, la[vi]tro, lautus, lucrum; così Thanchvil, «la sagace», se va con l'osc. tang-ino «consiglio», e col lat. tongere e ted. denken «pensare»: secondo apparisce probabile, anche perchè la semidea così appellata, come parecchie volgari donne della Toscana antica, si tocca in molti rispetti colla «sapiente» Menerva, il cui nome mal si affaticano oggi gli oppositori nostri a separare dal lat. mens per gr. menos.
Un secondo ed analogo argomento in pro dell'originaria italianità dell'etrusco, ci viene d'altronde appunto dai nomi degli dêi etruschi; de' quali, mentre nessuno s'incontra, o per la forma, o per la base, estraneo alla grammatica o al lessico latino, umbro, osto, parecchi fin d'ora trovano soltanto per via di questo e di quella facile spiegazione: così, per esempio, Tina, il Giove etrusco, nel latino dinus per divinus; così Us-il, «Sole», nel latino urere, us-tu-s; e così altri. Non si nega però che un qualche nome o dio etrusco possa, meglio studiato, risultare straniero, malgrado l'apparenza italica, o piuttosto risultare confuso con alcun simile nome o dio straniero: ciò accadde sempre e dovunque, senza che importi per le origini del popolo o della sua lingua.
Terzo argomento, simile anch'esso ai due precedenti: dei nomi locali dell'Etruria, o sia di monti e fiumi, o di popoli e città, nessuno presenta aspetto diverso o difficoltà etimologiche maggiori che quelli del Lazio, dell'Umbria, della Campania; nessuno appare come, per esempio, Ateste o Patavium o Bergomum, e tant'altre voci geografiche dell'Italia superiore, manifestamente forastiere, benchè pur sempre ariane.
Passo ora a ragioni di altra qualità. In Roma la signoria degli Etruschi durò per consenso de' critici più recenti, almeno un secolo; e bene anticamente coloni romani occuparono terre e quartieri di celebri città etrusche, e soldati etruschi militarono sotto bandiera romana: ora, di tanti usi e costumi romani essendo stata, conforme alle tradizioni, etrusca l'origine, se l'etrusco non fu di per sè lingua affinissima alla latina, le parole spettanti a quegli usi e costumi dovrebbero essere insieme etrusche ed esotiche; dovrebbero per lo meno risultare già di prima faccia tanto diverse dalle latine, quanto le greche del Lazio e le germaniche del vocabolario italiano; laddovve, non solamente siffatte parole sono prette italiche (per esempio: bulla, lictores, fissum, ecc.), ma tali si riconoscono altresì le poche a noi tramandate come vere etrusche (per esempio: lanista, tebenna, thensa, ecc.). Il che tanto sta e vale, che gli avversari tentano ridurre di molto gl'insegnamenti religiosi e civili venuti ai Romani dall'Etruria: ma non s'avvedono essi, così facendo che nei tempi, ne' quali le tradizioni intorno all'origine delle consuetudini statuali e sacre di Roma si fermarono colla scrittura, dall'un canto era moda rannodare tutto alla Grecia, d'altro canto l'Etruria era caduta si basso, che dell'etrusca provenienza doveasi in Roma sentire vergogna e non gloria: sicchè più torna probabile, siasi in qualche istituto latino taciuta l'etrusca origine, anzichè, senza necessità ed evidenza, affermata6.
Ma vediamo le obiezioni, che contro a noi si accampano, o per dir più esatto, si accamparono, giacchè oggi sogliono gli oppositori richiamarvisi puramente, senza punto o poco risaggiarle alla luce de' nuovi fatti e delle repliche nostre. Già notammo come a torto s'imputino all'etrusco dei genitivi in -al, e si tolgano le parole così uscenti all'analogia delle simili latine e delle italiane in -ale, di cui potrebbesi alla stessa stregua pretendere che siano genitivi. Cade così una prima e capitale obiezione; e cade insieme la seconda, in tutto analoga, che siansi, cioè, dati nella grammatica etrusca dei genitivi o dativi in -sa e -si, altrove parimente inauditi, salvochè, come da ultimo ci s'insegna, nella Mingrelia e fra Georgiani e i Lazi del Caucaso. In effetto, chi, senza pure un principio di necessità od utilità, argomenta essere genitivi, per esempio, l'etr. Titesa o Titesi, perchè dicono: «di Tizio», potrà a sua posta argomentare che sia genitivo l'italiano Francese, perchè dice: «di Francia» e il lat. fratrissa, Aenesi, perchè dicono: «del fratello» e «di Enea»; dovechè in realtà questo dissero esse due voci latine, perchè in sè medesime letteralmente significarono: «fratresia» ed «Enesii», cioè «quella del fratello», ossia «la moglie sua,» e «quelli di Enea,» ossiano «i suoi compagni»; e similmente «Titesia» e «Titesio», e però «di Tito», intitolarono i Toscani antichi la moglie e lo schiavo o liberto presente o passato di Tite o Tizio. In modo analogo sfumano altre somiglianti obiezioni fondate sopra certe non meno immaginarie particolarità dell'idioma etrusco; mentre poi quelle che veramente gli spettano, punto non intaccano l'arianità e italianità sua, come questa, o meno ancora la prima, non vanno intaccate pel latino, per l'umbro, per l'osco, dalle particolarità, nè poche, nè piccole, delle loro grammatiche rispettive.
Non importa meglio la ricantata difficoltà delle parole etrusche di parentela. Perocchè di quelle che si toccano a un di presso colle latine (per es., nefts, «nipote», prumfte, «pronipote») si afferma, senza una ragione al mondo, che gli Etruschi abbianle imparate da' vicini, per simpatia dei quali esse avrebbero gettato in mare le loro proprie; e ci si appiglia a clan, «figlio», sec, «figlia», puia «moglie», per proclamare che gli Etruschi designarono i legami più stretti della famiglia con vocaboli differenti da tutto l'orbe antico e moderno. Or lasciamo la stranezza, che appunto pei vincoli famigliari più importanti e comuni abbiano quelli conservato i nomi nazionali da nessuno compresi, se parlarono lingua straniera affatto, e abbiano per contro accettato i nomi usati nella nuova patria pei vincoli di minor conto: ma la verità è, che quelle inesplicate appellazioni non significarono punto, in sè medesime, ciò che pretendesi. In effetto, la grande maggioranza dei testi etruschi, adopera il semplice genitivo del nome proprio paterno, materno o maritale, oppure gli aggettivi già più volte ricordati in -al e -sa, tratti da quel nome, per indicare senza più la figliazione o il matrimonio. E però, primieramente, nei pochi esempli dove insieme occorrono le parole predette, vuolsi sospettare si accenni a certe speciali qualità di figli e di mogli, connesse colle forme diverse del matrimonio paleoitalico, e colle conseguenti diversità della condizione giuridica. In secondo luogo, si dissero, per es., liberi fra' Latini i figli per contrapposto ai dipendenti servili del padre di famiglia: come adunque mal si cercherebbe quella voce fra' veri nomi di parentela dei popoli ariani o anariani, così vanamente, secondo probabilità, vi si cercano le voci etrusche anzidette, le quali solo per via indiretta poterono acquistare il significato a noi tanto quanto noto. Di una può anzi già quasi asserirsi: ed è pu-ia, o pu-l-ia, che va assai bene col lat. puella, puer, anche perchè se n'ha eziandio il mascolino in pui-ac o pu-l-i-ac, malamente interpretato col lat. «uxor-que»; quindi puia, «la fanciulla (moglie)», o «la vergine (moglie)», o «la (moglie già) schiava», come per es., l'it. moglie dice «la femmina (moglie)», e il lat. focaria per «moglie» dei soldati imperiali, dice «quella del focolare (domestico)».
Una molto maggiore difficoltà proviene dai numerali; ma sta che, anche a tale riguardo, il poco finora risaputo e chiarito, si riconobbe e chiarì coll'aiuto del latino e delle lingue affini, sebbene tutte le più lontane ed oscure del mondo antico e moderno siansi frugate e rifrugate allo scopo di evitare l'ingrato soccorso dei vicini italici. Così m-ach, «uno», che ricorda il Maccus, ossia la maschera dello scempio (cioè lat. sim-plex per «uno», che sta con sem-el, «una volta») nelle commedie Atellane degli Etrusco-Campani, va col gr. m-ià per «una»; così thu, «due», ci «cinque», sa, «sei», semph-s, «del settimo», tesàm-sa, «dieci sei» per «sedici» come umb. desen-duf, «dieci due» per «dodici», chimthm per lat. centum e lituano szimt-, ecc. E tale risultato, comechè modesto rimpetto ai molti enimmi ancora inesplicati, parve, già si disse, agli oppositori sì grave, che s'industriarono a scemarlo, contestando, fra l'altro, con certi loro curiosi arzigogolamenti, che nè ci dica «cinque» e sa «sei», nè thu «due»: ma ecco leggersi thun-sunu sotto la pittura di un «suonatore» di «doppia» tibia, e thu-luter sotto «due» figure, e thu-surti tre volte in epitafi ricordanti il nome di «due» defunti, marito e moglie, scolpiti entrambi insieme sul coperchio di due fra' funebri monumenti così iscritti; ecco infine intitolarsi Tu-chul-cha una Furia infernale, dal cui cranio schizzano fuori «due» serpenti, e tu-chla e thu-chele-m incontrarsi sulle fasce della Mummia per «doppio», e apparire come un lat. «dungula, dungulam», derivato di duo, duones e foggiato a mo' dei latini sin-gulu-s per «uno» e nin-galu-s per «nessuno». Sta adunque, anche se nol confermassero le riprove sopra allegate, che thu significa «due», e nient'altro che «due»; e sta insieme, in causa della posizione rispetto a thu occupata da ci e sa sui famosi dadi etruschi di Toscanella, che pur questi numerali debbono rispondere a «cinque» e «sei», come sin da principio fra noi erasi opinato.
Ultimo riserbai il cavallo di battaglia degli avversari nostri: il giudizio cioè di Dionigi d'Alicarnasso, che l'etrusco fu lingua diversa da ogni altra, e quello di Cicerone che gli Etruschi furono barbari; cui s'aggiunge il racconto di Gellio, che «un celebre avvocato» avendo in certo suo discorso messa una frase latina fuori d'uso, i presenti non la compresero, e si guardarono in faccia l'un l'altro, e uscirono in una grande risata «quasi avesse egli parlato etrusco o gallico». Ma, con riverenza de' molti che tuttodì ripetono codeste notiziette, senza guardarvi dentro più che tanto, nè Dionisio, nè Cicerone, nè Gellio dissero mai ciò che oggi loro si fa dire, e, meno ancora, dicendo quel che dissero veramente, intesero ciò che oggi s'intende, a lume di probabilità attuale, e proprio a rovescio della probabilità istorica. E in effetto, non la sola lingua dei Tirreni racconta Dionisio essere stata dissimile da ogni altra, ma sì tutto quanto il loro costume: ora, per quest'ultimo, da tutti s'interpretano le sue parole con discrezione, e nessuno ne deduce che gli Etruschi abbiano mangiato o vestito in modo affatto disforme da tutti gli antichi popoli d'Italia e fuori; il che sarebbe del resto contrario in modo apertissimo, pel vestire, ai monumenti, pel cibo, ai copiosi accenni degli altri fonti. Con qual mai diritto adunque si separa dal costume la lingua, che nel discorso dello storico sta unita, e soltanto rispetto ad essa il suo giudizio si prende alla lettera? E con qual diritto si omette di lumeggiarlo coi simili degli antichi autori intorno ad altri e più noti popoli? Ognuno sa infatti, come Erodoto narri non avere gli Joni di Efeso o Samo «somigliato punto punto per la lingua» agli Joni di Mileto o Chio, ed «essersi solamente compresi fra loro»; eppure, non che greco, parlavano tutti lo stesso dialetto in «quattro maniere» diverse. Similmente afferma Tucidide essere nel bel mezzo di Grecia stata «ignotissima» la lingua degli Etoli Euritani, mangiatori di carne cruda, e però, al par degli Etruschi, diversi da tutti, oltrechè per l'idioma, per la «dieta». Infine Platone dice «educati a favellare barbaramente» que' di Lesbo, compaesano di Saffo e di Alceo, non per altro, cred'io, se non perchè repugnavano, come i Latini, ad accentare sull'ultima sillaba e pronunciavano alla latina p. es. Pittacos, anzichè alla greca Pittacòs, secondochè noi medesimi sappiamo dal famoso canto delle mugnaie. Quando pure adunque Dionisio avesse scritto, che l'etrusco differì dalla parlata di tutt'i popoli vicini, significherebbe assai poco, nè punto ne conseguirebbe la sua intrinseca diversità dalle favelle di questi: ma si guardò egli bene dallo asserire pur tanto, e solo notò che fu lingua «diversa da quella di ogni altra gente»; sentenza nella sua generalità così vaga, da indicare appena una esteriore impressione di lui e del suo fonte. S'aggiunge poi, che così egli, greco, sentenziava di un idioma italico omai moribondo e parlato in Roma, dov'egli fu ventidue anni, da gente minuta e spregiata; un idioma, di cui vide forse qualche scrittura, in direzione, come usò, retrograda, senz'interpunzioni, e quasi priva di vocali!
Vengo al celebre «Tusci ac barbari» di Cicerone: chi lo dice, è Tiberio Gracco, padre del tribuno, adirato a proposito di certe elezioni infirmate per decisione degli aruspici etruschi: sicchè egli e Cicerone stesso si chiedono, con quale autorità pretendessero costoro di metter bocca nella religione delle cose di Stato e farle e disfarle a piacimento. E tanto poco accenna Marco Tullio con quel suo «barbari» a diversità profonda nelle parlate de' due popoli, che nel secondo delle Leggi prescrive «doversi in ogni caso di prodigi o portenti interrogare gli aruspici etruschi, se così fosse parso al Senato».
Infine, quanto a Gellio, se ai ben temprati orecchi romani chi parlasse etrusco non tornava più ridicolo di chi gallico, ne discende per lo meno che non più di questo differiva quello su per giù dalla lingua del Lazio. Ora, o per «gallico» s'intende il celtico vero e proprio, e l'etrusco si trova pareggiato a favella non pure ariana, ma in qualche riguardo, specie allora, più prossima al latino, all'umbro, all'osco, dello stesso greco; o per «gallico» s'intende, com' io sospetto, il latino della Gallia Cisalpina, e la differenza si ridurrà più o meno a quella medesima che oggi intercede fra l'italiano di un culto o inculto lombardo e quello di un romano ignorante o istruito. In ogni modo, e il gallico, e l'etrusco facevano «ridere»: ora, l'umbro Plauto «ride» nelle sue commedie, come dell'etrusco, così del dialetto prenestino, a dieci passi da Roma; e per verità ben ridiamo noi stessi di chi parli con peculiare accento e dizioni insolite la lingua nostra, ma non già di chi ne parli una diversa affatto; e se nessuno pure oggidì presume, per ignorante che sia, comprendere senza studio favelle forestiere, noi tutti ci meravigliamo di non comprendere le varietà dialettali della lingua nostra, e ridiamo, poco lodevolmente, degli stranieri che spropositino parlando questa, non però se parlino la loro propria, per differente che sia dalla nostra. Un secolo prima che Dante dimostrasse bestiali o peggio i dialetti della Penisola, Roggero Bacone scrisse che «l'idioma de' Picardi faceva drizzare i capelli ai Borgognoni, e più agli altri Francesi più vicini». Il Passavanti, contemporaneo di Dante, deplorati, nello Specchio, i volgarizzamenti della Scrittura, qual che sia la lingua, perchè «ne avviliscono le alte sentenze ed isquisiti e propri latini, con begli colori di leggiadro stile adorna», rimprovera agli stranieri sol questo, che «qual col parlare mozzo la tronca, come i Franceschi e Provenzali, quali collo scuro linguaggio l'offusca, come i Tedeschi, Ungari ed Inghilesi»; ma, rincarando assai la dose per gl'Italiani suoi, trova: che «quali col volgare bazzesco e crojo la incrudiscono, come sono i Lombardi; quali con vocaboli ambigui e dubbiosi la dividono, come i Napoletani e Regnicoli; alquanti altri con favella maremmana, rusticana, alpigiana l'arrozziscono; e alquanti, meno male che gli altri, come sono i Toscani, malmenandola la insudiciano e abbruniscono»; e conclude con rinfacciare a' Fiorentini, perchè «col loro parlare fiorentinesco intendendola e facendola rincrescevole, la intorbidano e rimescolano con occi e poscia, aguate e vievviata» e persino con certi loro: cavrete delle bonti, se non mi ramognate. Che poi nè le cose, nè i criteri, siano pure oggi guari mutati fra noi o fuori, lo prova, a tacer d'altro, l'asserzione del Crawford, buon conoscitore della lingua e della società di Roma odierna, nel Don Orsino (I, 107) del 1892, che cioè il dialetto piemontese, causa l'accento, non si comprende, se non da chi nacque in Piemonte: «the unmistakable accent of the Piedmontese, whose own language is comprehensible only to themselves»; e lo riprova l'osservazione della Bibliothèque Universelle del novembre 1894 (pagg. 441-42), che poi Ginevrini «le caractère et le parler vaudois restent un inépuisable sujet de divertissement et de plaisanteries».