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VII. | «» |
I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio
VII.
Giungo così all'ultima parte del presente discorso e alla sommaria dimostrazione, per via di esempi, essere oggimai sì numerose e cosiffatte le sicure o probabili congruenze etrusco-italiche, da doversi presumere che siano molte più, e da potersi, a ragione di quelle, interpretare, ora con certezza, ora con molta verosimiglianza, quanto basta de' documenti a noi pervenuti, per giudicare fondatamente dell'intero contesto quasi sempre. E in primo luogo osservo, che se tale fu il popolo etrusco, da essersi egli appropriate, come gli oppositori pretendono, e per un istante concederemo, molte centinaia di nomi propri italici, torna assurdo credere che siasi accontentato di questi soli, e non abbia toccato con uguale libertà alla parte comune delle parlate vicine. Osservo poi, che, come nei nomi propri di cui tutti ammettono la comunanza fra gli Etruschi e gli altri Italici, più d'uno, a primo aspetto parrebbe diverso affatto; come, per esempio, l'etr. Sclafra nessuno direbbe a primo aspetto identico, secondochè pur da tutti consentesi, col lat. Laberius: così torna ragionevole credere che non di tutte le parole etrusche comuni si potrà di primo acchito riconoscere a quali latine, umbre od osche rispondano. Osservo infine, che della reale congruenza delle voci etrusche colle latine, cui estrinsecamente rassomigliano, già qui sopra ci porsero saggio: achnaz, «agnatus», ara thuni, «ara gemina» (letter. «duona»), Cemna, «Gemna gemina», ceptaphe lucu, «cepotaphium (et) locus», Mean-pe, «Mania piscatrix», Nethuns, «Nepthunus», sethuma-ti, «in septuma», stavhel equ, «stabilis ego», thi, «di-» o «dis-», thil, «Duilius», thuflo-, «duplus», thu, «duo», thui, «dui-», thuna, «duona», thunsunu (diaulete), letter. «duona (tibia) sonans,», Tina (Giove), «dinus», Usil (sole), «ustus».
Procedendo ora a qualche nuovo esempio, fra' molti manifestissimi, ricorderò anzitutto vinum, che occorre in quattordici luoghi della Mummia, oltrechè una volta scritto vinm. Appena pubblicato il preziosissimo documento, scrisse a ragione il Bréal «Conclûre d'un mot vinum au latin vinum, nous parait une assertion prématurée». Ma nessuna immaturità od incertezza rimanevano, indi a poco, dopochè ci accadde notare fra l'altro: 1.° che due linee delle fasce insieme con vinum recano una voce per «bicchiere» (prucuna e pruchs, gr. prochun), già nota da' testi etruschi (pruchum); 2.° che pur due linee danno insieme con vinum voci probabilmente connesse col «bere» (pevach e paiveism, lat. bibax, bibesium); 3.° che una linea mostra in compagnia di vinum due voci di relazione già nota e certa colla morte e coi defunti (nacum e hinthu), il che ben conviene al vinum inferium dei Latini; 4.° che quattro linee in un con vinum adoperano parole spettanti a riti sacri (aisna, eisna, flere) e nomi di deità (Nethunsl, Une, Mlach, Usil), il che ben conviene coll'uso del vino nei riti sacri del funerale italo-greco; 5.° che in due linee insieme con vinum occorre mula, vocabolo prossimo ai latini per «miele» e per «vino melato» (mel e mulsum), mentre poi mul-ven-, congiunti in una unica parola, più volte si lessero nelle iscrizioni di tazze libatorie; sicchè anzi una fra queste «ha uno spartimento nel mezzo, come per contenere due liquidi diversi» (Gamurrini), quali appunto il miele e il vino. Significò pertanto indubbiamente l'etr. vinum in generale la stessa cosa che il lat. vinum: solo però, notammo subito, in generale; perchè se gli Etruschi avessero così nel comune discorso designato il loro proprio vino usuale, non s'avrebbe quattordici volte vinum per una vinm, e la voce latina avrebbe in alcun modo assunto aspetto etrusco. Verisimilmente si tratta di una particolare qualità di vino, propria de' riti funerari e portata dal Lazio, o senza più dall'Italia, per servire a quelli del paese donde ci venne la Mummia: d'altronde, come si vede meglio tantosto, il loro vino appellavano gli Etruschi vena.
Fra gli dêi nominati in compagnia di vinum, incontravamo testè Mlach: siami ora lecito ricordare, come il 25 febbraio 1892 in seno all'Istituto Lombardo si dimostrasse che così, e non mlach, doveasi leggere quella voce sul piombo di Magliano, perchè nome di deità, non diversa, conghietturavasi insieme, dalla marina Malacia dei Latini. Sette giorni appresso, per cortesia del fortunato, quanto dotto e liberale scopritore delle Fasce, perveniva di queste in Italia il primo saggio; e fu la colonna ottava del meraviglioso cimelio, trascritta di sua mano e riprovata dall'annessa fotografia ora, nelle linee 11-12 e γ 3 di quella, come in cinque altri luoghi delle rimanenti colonne, appunto Mlach occorre terzo dopo Une e Nethunsl; vale a dire, non solamente in compagnia costante di due noti nomi di deità, ma sì ancora nella immediata società di Nettuno, il dio marino per eccellenza dell'Italia antica. Potevasi egli desiderare più manifesta conferma, che l'estrinseca somiglianza fra l'etr. mlach e il lat. Malacia non riducevasi in tal caso a mera parvenza? — Nelle stesse fasce incontriamo la voce arth, che tutti ammetteranno somigliare esteriormente, fra l'altro, al lat. ardens, specie qualora ricordino che nelle iscrizioni latine dell'Etruria s'ha, per esempio, Dana e Lardia per etr. Thana e Larthia. Ora ad arth precede fir-in, e fir ci richiama all'umb. pir e al gr. pyr, «fuoco»; tanto più, che già il cippo di Perugia dà aras peras per l'aasai perasiai dell'osca tavola di Agnone, ossia in bocca latina: «arae perariae» per significare: «arae ignariae». Come pertanto dubiteremo che l'unione di fir, «fuoco» con arth, «ardente» renda per lo meno assai probabile il ragguaglio latino per questo, umbro per quello, che l'estrinseca somiglianza suggerisce? Ma s'aggiunge che a fir-in aart!, «nel fuoco ardente» (con in per lat. in, posposto alla umbra e alla osca), e due volte a fir-in da solo, precede la voce suci, identica, almeno in apparenza, al lat. suci o succi: ora il fuoco sacrificale spegnevasi appunto non di rado col «succo della vite»; se pertanto, conforme all'esteriore sembianza, manderemo anche l'etr. suci col lat. suci, avremo insieme uniti tre vocaboli fra loro, pel concetto, convenientissimi. — Ancora nelle Fasce, nove volte occorre la parola cisum, sempre seguita immediatamente dalla parola pute: or che questo assai s'accosti nell'apparenza a lat. potus e potare per «pozione» e «bere» nessuno contesterà; che però neppur qui si tratti solo dell'apparenza, risulta da ciò che il suo perpetuo compagno cisum s'ha quasi tal quale nel latino «circumcisilium», usato per designare una maniera di «mosto»; quindi, ragguagliate le voci etrusche pute e cisum alle simili latine, si trova accanto al «bere» la «bevanda». V'ha di più: non soltanto presso cisum, «mosto», una volta leggiamo tam[m]era, ossia verisimilmente lat. temperavit, «meschiò», ma ben quattro volte presso tamera leggiamo vena-s, vocabolo esteriormente assai prossimo a «vino»; che poi siane esso prossimo anche in realtà, risulta dallo aversi una volta lur, subito prima di vena-s, una volta luri subito dopo; orbene, lora dissero i Latini per «vinello». Avremo adunque:
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«temperavit [circum]cisitium»; |
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«temperavit vinum»; |
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Nessuno pertanto saprà, io penso, negare quind'innanzi facilmente a codesti raffronti «quella forza convincente che è il gran carattere della verità, e suole consistere in ciò, che ne venga nell'autore e in altri una persuasione pronta, e via via maggiore, perchè le riprove scaturiscano da sè e oltrepassino il problema da cui si muove»7. Per contro nessun perito contesterà che sia brutto sogno di un Omero sonnecchiante l'interpretamento testè proposto per le parole etrusche: kalike apu mi-ni kara (Narce), le quali direbbero giusta quello: «calice (posto) presso (lat. apud) il capo (gr. kara) di Minnio». Benchè infatti possa forse a prima giunta parere codesta una versione tirata sulla medesima falsariga delle precedenti, ne è dessa soltanto un'involontaria parodia, come quella che neglige affatto le numerose epigrafi etrusche, onde impariamo a scorgere in apu un titolo verisimilmente servile, in mi in ni due particole pronominali (non Mini), e in kara una voce funeraria connessa col dio infero Caru e coi riti famigliari della cara cognatio presso i Latini. Invero, ad ogni confronto, deve precedere, e più di qualsivoglia somiglianza valere, lo studio della parola etrusca in sè stessa, quale si ricavi dalla diligente comparazione di tutti i testi paralleli.
Passo ad un esempio, dove la estrinseca congruenza non salta agli occhi, ma proviene da minute considerazioni, altrove esposte e documentate. Ci dà la Mummia la frase: nunthen zusleve zarve, e si prova che nel Lazio sarebbe verisimilmente suonata all'incirca: «nundina turcolivae sacrivae», ovverosia «nel novilunio del torchiato sacro». Ora i Latini dissero veramente tortivum il «mosto torchiato», e sacrima la primizia del vino nuovo offerta a Bacco, e «tre mosti» o «cento mosti» per «tre anni» o «cent'anni»: oltrechè poi ne' Grigioni, paese di molti e notabili ricordi romani, calenda fanadur, ossiano «le calende del fienatore», si appellò il 1° luglio. Ben potè adunque addimandarsi in Etruria: «novilunio del torchiato sacro», quello del mese in cui tale sacra bevanda si preparava. — Ancora nella Mummia sette volte sta scritto: ethrse Tinsi tiurim, e con varii e minuti ragionamenti e confronti si rende probabile che tale formola significhi alla lettera: «reiterò (lat. iteravit, da etr. etera che va col lat. iterum) la Giovia luna», e indichi il secondo annuncio di questa, cioè rito analogo alla «chiamata della Juno covella» o «celeste» in Roma ad ogni novilunio, ossia precisamente simile rito pel novilunio del mese di Giove o «gioviale» e vendemmiatore, che sarà stato circa settembre od ottobre, intorno all'epoca delle feste Vinali d'autunno. Si conferma ora siffatta interpretazione con osservare, che in due fra' sette luoghi, precedono le parole: Esèra nuèra arse, o, come alla lettera in latino volgare sarebbesi detto a un dipresso: «Aesaria novaria orsit», ossia: «Dea (luna) nova orta est»; prefazione supremamente opportuna all'annunzio di un novilunio.
Addurrò da ultimo un esempio, nel quale, quant'è manifesta la identità materiale della parola etrusca colla latina, tant'è di primo aspetto remoto il significato proprio dell'una da quello dell'altra. Negli etruschi epitafi di frequente il «morire di anni tanti» si esprime colla voce lupu, seguita da avil-s, «anni» (letteralmente «aevuli») e da numerali in parola o in cifra. Codesto lupu si cercò quindi in tutte le lingue vicine e lontane, antiche e moderne, fra i vocaboli per «morire» o «morto»; e nulla si trovò, e fu argomento pur questo per negare l'italianità o l'arianità dell'etrusco, e pensare ad origini ormai perdute. Ora, che lupu somigli punto per punto al lat. lupus, torna evidente; sembra tuttavia di prima giunta, che fra' lupi e i poveri morti nessuna fantasia più sfrenata e macabra possa immaginare alcuna relazione. Ebbene, sembra impossibile, eppure fu! Perocchè, dall'un canto, ancora dei tempi suoi racconta Plinio, che lupi s'intitolarono certe famiglie le quali sul monte Soratte prestavano culto peculiare a Dite Sorano, deità eminentemente infera; e sappiamo da Servio che si dicevano anzi lupi Sorani: d'altro canto non sempre lupu da solo ci danno i testi etruschi, ma sì uno ha lupuce surnu appunto, e un altro lupuce surasi, oltrechè poi altri testi ci parlano di un dio Suris; pertanto «lupo» o «lupuccio Sorano» o «Sorasio» potè appellarsi in Etruria il morto, come sacro, per effetto della condizione sua, al dio infero Suris, cioè dire: Dite Sorano; allo stesso modo che, per causa analoga, «lupi» o «lupi sorani» medesimamente si appellarono nel Lazio i suoi cultori vivi, anche sotto l'Impero.
Ma v'ha di più: anche a Roma, come tutti sanno, certi sacre doti si dissero «lupi», e precisamente luperci, come noverca si disse la «nuova» madre o matrigna: e, fra l'altro, si credette guarissero le donne «sterili», percuotendole colle striscie delle pelli sacrificali: ora, mentre taura chiamarono i Latini la vacca «sterile», sacra alle deità infernali, e Taurii certi ludi in onore di queste, anche thauru e thaure sembra siasi dagli Etruschi detto per «morto»; e sta in ogni caso che nella Spagna Tarraconense parecchi epitafi latini si lessero sopra pietre in figura di tori; nè manca pure in Atene e a Jerapoli di Siria il riscontro di sacre fanciulle dette là «orsi» e qua «buoi», riscontro forse più preciso e profondo pei lupi-tori italici che a primo tratto non paia.
Non meno poi delle congruenze lessicali etrusco-italiche, abbondano omai le grammaticali. Così per es. nel cisum pute, qui sopra interpretato: «[circum]cisitium (mustum) potavit», cisum è un accusativo singolare della più bell'acqua latina, governato dal verbo passato pute, che sta al lat. potavit, come il lat. volgare segne, scritto segnai, al lat. signavit, e quasi come l'ant. milan. e bergam. kantè, portè, per l'it. cantò, portò, al lat. cantavit, portavit; le iscrizioni etrusche ci danno del resto anche malave e malvi pel -molavit del lat. «immolavit», mentre poi l'umbro pel lat. faciat ha già facia, ch'è quasi il corrispondente faça o façia dei Veneti — Altro esempio; dissero gli Etruschi ipa Cerùrum il sepolcro, dove il nominativo ipa è l'ibe dai Greci usato nello stesso senso, mentre Cerùrum è tal quale il genitivo plurale latino Cerorum, sinonimo di Manium; e veramente si addimandò il sepolcro anche ipa Maani[m], dove sin l'ortografia ha riscontro nell'antico latino Maanium; e sta altresì scritto in un epitafio, che il defunto giaceva Manim arce, ovverosia «in arca8 Manium», cioè nel sepolcro sacro agli dei Mani.
Non presumiamo noi tuttavia nè con questi, nè coi cento e cento simili documenti, omai per occasione della Mummia avvertiti, di risolvere senza più il quesito generale dell'italianità dell'etrusco; che anzi, l'opera qualsiasi da noi, senza mai dimenticarlo, prestata in questi anni, vorrebbe in realtà, dietro illustri esempi, intitolarsi dalla grammatica e dal dizionario degli elementi italici contenuti nelle iscrizioni etrusche. Solo rispetto a quegli elementi, di dì in dì più numerosi, giriamo noi pertanto ai compagni di studio ancora increduli, l'invito di Tertulliano a' pagani per la calunnia del sangue, da essi lanciata contro i seguaci della nuova fede, e da questi poi palleggiata sugli Ebrei; che cioè investigassero se voleano credere, o non credessero, se non aveano investigato: «aut eruite qui creditis, aut non credite qui non eruistis». E perchè fra quegl'increduli onorandissimi, più d'uno ci fu e ci è maestro, presentiamo loro, come olivo di pace, la nobile professione del Brugmann, l'eresiarca di una vicina provincia: che, vale a dire, «le intuizioni recenti altro non siano se non uno sviluppamento organico e conseguente degli studi anteriori».
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