Antonia Pozzi
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Rossori

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Rossori

 

 

 

È l'ora di tornare. La sera

discende quieta in grembo alla valle.

Passa sotto le nude volte dei castani

una muta brezza e ne tremano

il morto fogliame dell'inverno,

il verde gracile che si rinnova

sulle prode scoperte. Le cose,

fatte più grigie, sembrano raccogliersi

in un silenzio assorto.

Attutisce il suo canto

persino la bianca acqua, che scende

da lontano, dall'alto e che stamane

con tanta furia gridava

la sua gioia d'esser sfuggita

agli artigli del ghiaccio.

È l'ora di tornare. Compongo

in una mano, strettamente, i miei fiori

e nella penombra incupita

ripercorro il sentiero.

Oggi è il giorno dell'Angelo.

Nessuna donna, a ginocchi, risciacqua

lungo il fossato i suoi panni:

gli sgabelli spostati, capovolti

impediscono il passo.

C'è un'aria d'abbandono, oggi, pei campi,

un'aria di solitudine festiva

che fa più triste la tristezza dell'ora.

Ma davanti al cancello

del mio giardino

un grappolo di bimbi

attende il mio ritorno.

Per guardarmi,

per guardarmi bene da vicino,

per vedere com'è fatta

questa cosa curiosa che son io.

Me li trovo davanti all'improvviso,

che mi fissano, dritti,

senza scomporsi:

e di colpo sento

che ho io di loro assai più vergogna

che non essi di me.

Vergogna del mio mazzo

di bucaneve troppo semplici

che a loro paiono brutti,

vergogna del mio passo,

del mio corpo, troppo pesanti,

che a me sembrano goffi...

Ed ecco, vorrei essere come loro,

piccina, povera, oscura,

più vicina alla loro piccolezza,

e non aver da dire

la paroletta benevola

che suona male,

non aver da sorridere

con le labbra dure

che si aprono male...

Mi rifugio dietro il cancello

come dietro una porta impenetrabile.

Ma quando devo infilare

la chiave nella toppa

e chiudere

con armeggìo sgarbato,

mi sento morire, mi sento morire di vergogna

davanti ai loro occhi tondi di passeri

che mi guardano di dalle sbarre;

davanti alle loro animette

di passeri liberi, avvezzi

ad entrare, ad uscire

dagli uscioni sgangherati

delle vecchie cascine,

senza smuovere mai

l'enorme catenaccio arrugginito...

 

Pasturo, 6 aprile 1931


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