Nonna, stanotte
ho sognato ch'eri
morta.
Venivamo a vederti
portar via
dalla tua piccola
casa,
in un mattino di
tarda primavera.
La glicine era
fiorita
e ingigantita così,
che non solo il
terrazzo,
non solo la
ringhiera,
ma tutto il tetto,
tutta la casa
inondava
e ricadeva giù,
di là dai
vetri d'ogni finestra,
come un lembo molle
di velo gridellino:
il sole tuffava
nell'intrico
le sue mani dorate
e tentava, nelle
stanze, la tenebra
con dita ombrate di
viola.
Tu eri già
chiusa nella cassa:
una cassa chiara,
quasi bianca,
enorme.
Pareva che in tutta
la casa
ci fosse soltanto
quella cassa bianca
ed enorme
e tutto il resto
tutte le piccole cose
tue di povera morta,
esiliate, costrette
fra le pareti e la
bara,
come una muta frangia
di ombre.
E poi qualcuno ti
sollevava
come se non pesassi
e ti portava
silenziosamente
attraverso le stanze
deserte
che osavano l'ultimo
cenno
coi tristi occhi
appannati di viola.
Come se non pesassi:
ma quando si fu in
cima alla scala
parve che tutto in
peso
si tramutasse
l'enorme biancore
della bara.
E vidi che chi ti
portava
erano quattro uomini
gonfi di sforzo,
esausti,
che ormai piegavano
sotto il carico
atroce.
Non passa, non passa
una bara così
grande
per una scala così
angusta!
Oh non muovetevi, non
muovetevi!
Non vedete quante
finestre
in questi muri così
stretti
e i grappoli della
glicine
che s'affollano ai
vetri
per vedere –
per vedere...
Fermi, uomini, fermi!
Se uno spigolo
urta queste pareti,
tutta la casa crolla
e la glicine
c'inonda!
Fermi, uomini!
Non vedete
che tutta la
gracilità del mondo
si tende intorno al
macigno,
non vedete
che tutta la povertà
della vita
si strema contro la
Morte?
Fermi, uomini,
fermi, fermi,
fermi!...
18
marzo 1931