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CANTO PRIMO | «» |
I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio
Carlo e la bella Agnese di Sorello
d'onesto amore han l'anima ferita,
e lieti amanti in casa di Bonello
menano entrambi dilettosa vita.
Assalta d'Orlean l'Anglo il castello:
stanno i Franchi a consiglio, e in loro aita
scende Dionigi a cavalcion d'un raggio
per cercar sulla terra un pulcellaggio.
I. Io non son fatto per cantare i santi;
fioco ho il limbello, ed anche un po' profano;
ma pur Giovanna canterò che tanti
prodigi fe' colla virginea mano.
Contro l'anglica rabbia i vacillanti
gigli fermò sul gambo gallicano,
e il suo re tolto dall'ostil furore
unger fe' in Remme sull'altar maggiore.
II. Sotto modesto femminile aspetto,
in corto giubboncino ed in gonnella,
d'un vero Orlando l'animoso petto
ne' perigli mostrò l'aspra donzella.
Per mio spasso vorrei la sera in letto
una Rosetta dolce come agnella;
Giovanna d'Arco no; le die' natura
cuor di lione e mi farìa paura.
III. Che ciò sia vero vi sarà palese,
se questa poesia legger vorrete;
delle sue strane memorande imprese
al racconto tremar vi sentirete.
Ma, fra tante da scriverne al paese,
di quest'una per certo stupirete,
che intatta per un anno ed odorosa
del pulcellaggio suo serbò la rosa.
IV. O Sciapelene, o tu, lo cui negletto
gotico colascion di ria memoria
con archetto da Febo maledetto
in suon sì duro ne raschiò la storia,
imprestarmi vorresti al gran subbietto
la tua musa, o buon vecchio. Io non ho boria.
Se ti preme l'onor del tuo mestiero,
dàllo a La Motte che traveste Omero.
V. Il buon re Carlo nell'april beato
degli anni suoi, di Pasqua ad un festino,
(questo prence era alquanto ballerino),
una rara beltà v'avea trovato,
come volle di Francia il buon destino,
che si nomava Agnese di Sorello.
Amor la fece e poi ruppe il modello.
VI. Di Cinzia il garbo e il portamento, e quanto
ha di freschezza de' bei fior la dea,
di Cupido il risetto, e la cotanto
l'arte d'Aracne, di Sirena il canto,
tutte insomma le grazie possedea,
sì che stretti legar ne' lacci suoi
VII. Vederla e amarla, e del desìo nascente
sentirsi al cor la vampa andar veloce,
guardar sottocchi, sospirar frequente,
perder tremando a mezza via la voce:
carezzarle la mano, e impaziente
manifestar l'incendio che lo cuoce,
turbarsi, e lei turbar che l'innamora,
alfin piacerle, fu l'affar d'un'ora.
VIII. I monarchi in amor (la cosa è antica)
speditamente vanno al fatto loro.
Agnese, che prudente e in un pudica
nell'arte di piacer valse un tesoro,
vuol che il tutto, onde il mondo nulla dica,
di mistero si veli e di decoro:
sottil velo che sempre al maldicente
cortigiano indiscreto è trasparente.
IX. Per dunque dar colore onesto, o quello
che si può meglio a un tanto affar, dispone
valersi il re del consiglier Bonello,
confidente sicuro e baccellone.
Quel che a corte, ove tutto è pinto in bello,
diciam l'amico del real padrone;
officio che dimanda assai pensiero:
questo fu dato al nostro consigliero.
X. Veramente in Parigi, e sopra tutto
nella provincia, chiamasi ruffiano.
Ma questo nome inverecondo e brutto
non l'odi che sul labbro all'artigiano.
D'elegante castello e ben costrutto
sul Ligeri Bonello era sovrano;
ivi Agnese in barchetta andò la sera,
e Carlo la raggiunse a notte nera.
XI. Si cenò: non vi fur pompe e profumi,
ma squisitezza ed accoglienza onesta;
Bonello era il coppier. Mense de' numi,
voi siete nulla al paragon di questa.
I nostri amanti con bramosi lumi,
ebbri d'amor che lor togliea la testa,
si vibravano sguardi lusinghieri,
del futuro piacer caldi forieri.
XII. Dolci e franche parole, ma consperse
della decenza che conviensi a dame,
in altrettanti sproni eran converse
delle lor vive e intolleranti brame.
Il prence, che non può più contenerse,
con occhi accesi d'amorosa fame,
fole d'amor le conta e languidetto
col ginocchio le serra il ginocchietto.
XIII. Terminata la cena, a uno spartito
di musica italiana si die' mano,
a tre voci, tenor, basso e soprano.
Da cennamelle il canto era seguìto,
da violini e flauti; e or forte or piano,
questo canto la storia vi dicea
d'eroi che Amore incatenato avea.
XIV. Di quegli eroi che, posto in oblianza,
sol per piacere ad un bel viso, il brando,
cangiàrlo in fuso, somma stravaganza
il furor della gloria reputando.
La musica si fea presso alla stanza
ove il nostro buon re venìa cenando.
Agnese ognor discreta e ritenuta
tutto ascoltava, da nessun veduta.
XV. Alta è la luna: al carro suo dà volta
la notte, e l'ora degli amanti adduce.
In alcova dorata, e in lini avvolta
d'Olanda fina, fra modesta luce,
nuda Agnese già in letto s'è ravvolta;
dietro l'alcova è un uscio che introduce,
e, vedi caso! di serrarlo oblia
l'esperta cameriera in andar via.
XVI. Anime amanti che d'Amor sapete
tutta ben l'arte, senza ch'io lo dica,
voi già la smania del mio re vedete,
che pare sulla pelle abbia l'ortica!
Sparso la chioma di fragranze liete
per l'odorato della dolce amica;
già vien, già salta in letto. Oh bel momento
di tenero abbandono e di contento!
XVII. Batte il core ad entrambi, e su la faccia
d'Agnese con Amor pugna il Pudore;
Voluttà finalmente il Pudor caccia,
e del campo signor sol resta Amore.
Il suo caldo amador tosto l'abbraccia,
e l'occhio tutto gaudio e tutto ardore
ne percorre il bel corpo, che farìa
anche un santo peccar d'idolatria.
XVIII. Sotto un collo ch'è neve, e più d'assai,
son due mammelle che non han mai posa,
tonde, staccate, con due ghiotti e gai
bottoncelli che pajono di rosa.
O mammelletta che ognor vieni e vai,
o del tornio d'Amore opra famosa,
tu dici in tua beltà: Mano, mi tocca,
occhio, mi guarda, e tu mi bacia, o bocca.
XIX. Pieno pel mio lettor di compiacenza,
a' suoi sguardi io volea pinger d'Agnese
le belle forme tutte, e l'eccellenza
con che natura a tondeggiarle intese.
Ma la virtù che nomasi decenza,
il troppo ardito mio pennel sospese:
ond'altro non so dirvi, se non ch'ella,
che Dio la benedica, è tutta bella.
XX. Voluttà, che i suoi sensi ha già conquiso,
più vivezza, più grazia ancor le dà;
senza il tatto d'Amor morto è un bel viso,
e il piacere abbellisce ogni beltà.
Così passan tre mesi in paradiso
l'innamorata coppia. Ella sen va
dall'arringo d'amor dritta al banchetto,
e da questo alla dolce opra del letto.
XXI. Talor, con lento mattutin ristauro
reso ai sensi il vigor, esce alla caccia,
due ginnetti spronando di pel sauro
degli abbajanti cani sulla traccia.
Dopo la caccia il bagno. In vasi d'auro
con acque nanfe lavasi la faccia,
e con manteche e con assirio odore
fresca rende la cute come un fiore.
XXII. Quindi il pranzo, ed oh pranzo delicato!
Intingoli, fagiani e capponesse
incantan gli occhi, il naso ed il palato,
d'Apicio così ben l'arte gli messe.
Lo spumante sciampagna e l'ingiallato
Tokay con tazze coronate e spesse
del cervel stuzzicando le fibrille,
fan l'ingegno scoppiar tutto a faville.
XXIII. Dico che il foco del core si sfuma
in brillanti concetti al par leggeri
del nèttare che s'alza e salta e spuma
crepitando sull'orlo dei bicchieri.
Bonel sghignazza, e, come si costuma
quando parla un signor, plaude a' pensieri,
plaude all'arguzie del suo re contento,
che, per quanto un re può, mostra talento.
XXIV. Dopo il pranzo si bada a digerire
a ridere a dir fole a tagliar panni
alle spalle del prossimo, o sentire
gl'improvvisi di mastro Barbagianni.
Poscia un qualche dottor si fa venire
dalla Sorbona, il pappagallo, il zanni,
la bertuccia, e con lor si fa parole,
con lor si scherza fin che muore il sole.
XXV. Giunta la sera, la miglior brigata
col re corre al teatro, e si disfiora
tutta così la candida giornata,
nuove rose sul fin cogliendo ancora.
Sepolta nel piacer, la fortunata
coppia diresti che comincia allora;
sempre contento il cor, sempre fedele,
e senza gelosie, senza querele.
XXVI. Mai veruno languor; Tempo ed Amore
d'Agnese al fianco già perdute han l'ali.
Fra le sue braccia spesso l'amadore
con baci che parean di foco strali,
– Cara Agnese, dicea, cor del mio core,
non ha tesori a tua bellezza eguali
la terra, e senza te parmi che sia
il vincere e il regnare una follia.
XXVII. Oggi il mio Parlamento m'ha bandito;
servo al feroce Inglese è il franco trono.
Regni, e invidia mi porti. Se rapito
non m'è il tuo core, io più di lui re sono. –
Un siffatto parlar, già s'è capìto,
non è d'eroico stil; ma gli perdono:
in letto, e in braccio d'una bella amica,
un eroe non sa mai quel che si dica.
XXVIII. Mentr'egli mena una sì dolce vita
quale un ricco e ben grasso padre abate,
il Breton, come bestia inferocita,
sempre a cavallo fra le schiere armate,
sempre al fianco la daga riforbita,
l'elmo in testa, le gambe stivalate,
in alto la visiera, in man la lancia,
atterrata al suo pie' calca la Francia.
XXIX. Va, vola, abbatte le città tremanti,
spande il sangue, saccheggia e fa quattrini.
Monasteri e fanciulle palpitanti
abbandona ai soldati libertini.
Batte ghinee con l'oro tolto ai santi,
beve il moscato ai padri bernardini,
e senza rispettar Cristo e Maria,
più d'un tempio converte in scuderia.
XXX. Tale un lupo da fame stimolato,
assalendo la greggia meschinella,
fin per entro all'ovile abbandonato
la diserta, la squarta e la macella;
mentre lungi disteso in grembo al prato
Elpin dorme sul seno alla Nigella,
e Melampo d'appresso intento è tutto
a sgranocchiarsi un osso di prosciutto.
XXXI. Dal più sublime lucido apogeo,
casa de' santi e da noi lungi, intanto
il buon Dionigi, a cui del battisteo
denno i nostr'avi il rito augusto e santo,
mirò gl'Inglesi in festa, il destin reo
mirò di Francia e di Parigi il pianto,
e il re tre volte cristian che, a nulla
pensando, con Agnese si trastulla.
XXXII. Questo santo Dionigi è de' Francesi
il protettor, siccome de' Romani
lo fu san Marte, e degli Ateniesi
Santa Minerva a tempi più lontani.
V'ha però differenza, e dirlo intesi
dal mio curato, che gli dèi pagani
d'un nostro santo a petto, anche piccino,
non valgon tutti insieme un bagattino.
XXXIII. – Ah non è giusto (in sé dicea Dionigi)
che il regno cada ov'io la fe' piantai!
Borbonio sangue, augusta Fiordiligi,
veggo i tuoi rischi, ne compiango i guai:
ma, pel mio capo il giuro, da Parigi
non patirò che ingiustamente mai
caccino Carlo mio come un mendico
i superbi fratei del quinto Enrico.
XXXIV. Quantunque santo (e Dio lo mi perdoni),
odio costor, perché, se presto fede
del fato ai libri, un dì questi Bretoni,
gente che ognor ragiona e nulla crede,
faran cappa d'acciughe e salamoni
le decretali della Santa Sede,
e con gli annali del Baronio ogni anno
un papa di cartone abbruceranno.
XXXV. L'empio ardire di questi dialetici
vendichiamo per tempo e opriam le mani.
I miei Francesi, sebben poco ascetici,
saran sempre cattolici romani,
ma i fieri Inglesi tutti marci eretici:
diamo dunque il randello a questi cani;
castighiamli con qualche astuzia pia
del mal che un dì faranno, e così sia. –
XXXVI. Fra sé medesmo in questi saggi accenti
il Gallicano Apostolo ragiona,
e tutto lardellato di potenti
maledizioni il paternostro intuona.
Mentr'ei così lo mastica fra' denti,
a parlamento in Orlean si suona;
questa città bloccata era in periglio
di cader presa dall'inglese artiglio.
XXXVII. Qualche pedante consiglier di corte,
qualche stolido duca militare,
piangendo in vario tuon la trista sorte,
a vicenda dicean: – Che s'ha da fare? –
Poton, La Hiro e Dunoè quel forte,
mordendo il dito, – Andiam – s'udian gridare:
per la patria la vita oggi si spenda,
ma caro il sangue a quei ladron si venda. –
XXXVIII. – No, diamo il foco alla città (con rabbia
esclama Riccamonte ), onde l'Inglese
fuor che cenere e fumo altro non abbia
di noi che in gabbia già pigliar pretese. –
– Per me (dicea Trimuglio a mezze labbia)
mio padre invan m'ha fatto poatese.
Questo cor sta in Milano, ove i be' rai
della mia cara Dorotea lasciai.
XXXIX. Da sciocco la lasciai per qui venire
disperato a combattere; e frattanto
senza vederla, oh Dio! dovrò morire? –
e qui per poco non gli scappa il pianto.
Allor Louvet, uom saggio, vale a dire
che parea saggio e aveane l'aria e il manto,
essendo presidente del Senato,
così parlò composto e riposato
XL. – Pria di tutto io mi son di sentimento
che nel presente nostro caso orrendo
contro gli Angli si faccia in parlamento
un decreto de bello non movendo,
per procedere in forma, e in ogni evento
aver contr'essi il jus de repetendo. –
Era Louvet uom dotto, e di buon naso,
ma un certo non sapea suo brutto caso.
XLI. Il gran Talbò, che capo è delle torme
assediatrici, amava alla follìa
di Louvet la consorte, e a lui conforme
Se l'uom grave il sapea, con altre forme
contro Madama proceduto avrìa;
ma non sa nulla, e il suo dir maschio è tutto
rivolto a vendicar di Francia il lutto.
XLII. Insomma in quel consesso, ove parlarono
sapienti ed eroi di core altissimo,
l'amor di patria e la virtù dettarono
sentenze di giudizio nobilissimo.
Principalmente La Hiro ammirarono,
che parlò molto e pur parlò benissimo.
Alfin dal canto suo divinamente
disse ciascun, ma non concluse niente.
XLIII. Mentre stan disputando, ecco improvviso
un non so che venir da un finestrone,
un bel fantasma di vermiglio viso,
che, d'un raggio di sole a cavalcione,
fendea l'aperte vie del paradiso.
ratto d'intorno si diffonde e vola
un odore di santo che consola.
XLIV. Era il buon Dionigi. Ha sulla testa
una mitria puntuta a due pendenti,
fessa in cima, e d'argento e d'òr contesta.
La tonicella va in balìa de' vènti;
tien sul collo la stola, e su l'onesta
fronte un bel nimbo d'aurei raggi ardenti:
nella destra sostiene il pastorale,
un dì chiamato lituo augurale.
XLV. Il buon Trimuglio, a quel mal noto aspetto,
devoto puttanier si prostra e prega;
Riccamonte, che ha un cor di selce in petto
ed è bestemmiator di prima lega,
grida: – Questo è il demonio, ci scommetto,
che ne vien dall'Inferno a porre in frega
le nostre donne. Sarà bello spasso,
se potremo parlar con Satanasso. –
XLVI. Louvet corre a cercar, tutto in affanno,
il secchietto dell'acque benedette;
Poton, La Hiro, Dunoè ristanno
gonzi, impalati come tre civette.
I servi a terra con la pancia vanno:
scende la santa larva, e s'intromette
a caval del suo raggio nel salone,
dando a tutti la sua benedizione.
XLVII. Subito ognun con taciti bisbigli
si segna e prostra. Ed ei benigno intanto
gli alza e lor dice: – Non temete, o figli;
io son Dionigi e fo mestier di santo;
io battezzai la Francia, e ne' perigli
sotto l'ombra la copro del mio manto;
ma questo mio figlioccio tanto amato
Carletto m'ha per Dio scandolezzato.
XLVIII. Il nemico la Francia a foco mette,
ed egli, invece di salvarla, i sui
giorni consuma nel palpar due tette.
Or io la Francia salverò per lui;
io toglierolla a così dure strette,
e darò fine alle miserie altrui;
e poiché in medicina ogni mal veggo
guarir per suo contrario, or questo eleggo.
XLIX. Se perder Francia vuol lo sciagurato
e l'onor suo per una puttanella,
io per cangiar sua sorte ho in cor fermato
il braccio adoperar d'una pulcella.
Voi, se il favore di lassù v'è grato,
se cristiana è la vostra anima bella,
se v'è caro lo Stato, il Re, la Chiesa,
voi m'assistete in questa santa impresa.
L. Il nido mi mostrate ove dimora
questa fenice che snidar diviso. –
Qui tacque il sire venerando, e allora
dieder tutti in un gran scoppio di riso.
E Riccamonte, che non seppe ancora
che sia rispetto ed è buffon deciso,
– Per mia fe', rispondea, voi siete un bravo
predicator da senno, e vi son schiavo.
LI. Ma non parmi che ciò l'affanno vaglia
di spatriarsi per cercar quaggiù
questo vago giojel fra ria canaglia,
giojel cui date una sì gran virtù.
Un pulcellaggio è un'arma che non taglia,
né difende città. Dico di più:
perché quest'arma ricercar tra noi,
quando in cielo ve n'ha tante fra voi?
LII. Loreto e Roma cento volte han meno
di candele a baciar che non aduna
vergini il ciel nel suo beato seno;
nessuna in Francia ve n'ha più, nessuna;
conventi e case ne son brulli appieno;
duchi, prenci, ufficiali ad una ad una
le spigolàr sì bene e belle e brutte,
che n'han pulito le province tutte.
LIII. Alla barba de' santi ognun v'ha fatto
più bastardi che orfani. Vi giove,
messer Dionigi, la notizia, e ratto
cercate in grazia le pulcelle altrove. –
Si fece il Santo ad un parlar sì matto
tutto rosso nel viso, indi si move;
monta il suo raggio e, senza far parola,
tocca di sproni e via per l'aria vola.
LIV. A ogni modo scavar, dove pur sia
fattibil cosa, ei vuol questo giojello,
questo caro giojel, che alla follìa
portar sembra de' santi anco il cervello.
Buon viaggio. Mentr'egli ne va via
cavalcando il suo lucido fuscello,
Dio ti faccia trovar, caro lettore,
quel ben ch'ei cerca, e aver propizio Amore.
Limbello, qui per lingua (Cfr. Malmantile, I, 72).
Ivi, v. 8:
Tutti sanno che, al tempo del Cardinale di Richelieu, ci fu un tale Chapelain, autore di un famoso poema intitolato La Pulcella, dove, a detta del Boileau,
Il fit de méchants vers douze fois douze cents
Ivi, v. 7-8:
Lamotte-Houdart, autore di una traduzione in versi dell'Iliade, traduzione compendiosissima, e con tutto ciò malissimo accolta dal pubblico. Il Fontenelle, nell'elogio accademico del Lamotte, dice che questo dipende dall'originale.
Ivi, v. 7:
Agnese Sorel, signora di Fromanteau, presso Tours. Il re Carlo VII le donò il castello di Beauté-sur-Marne; onde fu detta Signora di Beauté. Ebbe due figiuoli dal re, suo amante.
La cromatica procede per parecchi semitoni consecutivi, la qual cosa produce una musica effeminata, convenientissima all'amore.
A maître Alain del testo (Alano Chartier, celebratissimo scrittore del sec. XV, segretario prima di Carlo VI e poi di Carlo VII), il Monti sostituì mastro Barbagianni, alludendo manifestamente al noto improvvisatore Gianni, pel quale, come il lettore vedrà, c'è poi al c. XVII un'altra buona sferzata.
Questo Breton è il Duca di Bedfort, fratello minore di Enrico V, re d'Inghilterra, coronato re di Francia in Parigi.
Enrico V, re d'Inghilterra, cognato di Carlo VII, era morto a Vincennes, dopo essere stato riconosciuto re di Francia a Parigi: suo fratello, il Duca di Bedfort, governava la miglior parte della Francia in nome del suo nepote Enrico VI, stato pur riconosciuto re di Francia a Parigi dal parlamento, dal municipio, dal tribunale, dal vescovo, dalle corporazioni delle arti e dalla Sorbona.
Poton di Santrailles, La Hire, grandi capitani; Giovanni di Dunois, figlio naturale di Giovanni d'Orléans e della Contessa d'Enghien; Richemont, conestabile di Francia, poi duca di Bretagna; La Trimouille, d'una gran famiglia del Poitou.
Il presidente Louvet, ministro sotto Carlo VII.
Questo Dionigi, patrono della Francia, è un santo della specie dei frati. Egli non fu mai nelle Gallie. Vedi la sua leggenda nel Dizionario filosofico, all'articolo Dionigi; dove imparerai ch'egli per prima cosa fu da san Paolo eletto vescovo di Atene; che andò a visitare la vergine Maria e le fece le sue condoglianze per la morte del figlio; che lasciò poi il vescovato di Atene per quello di Parigi; che fu impiccato; che d'in su la forca si mise a fare una predica eloquentissima; che per farlo chetare gli tagliaron la testa; che, toltasi questa in braccio e baciandola nel camminare, se n'andò lontano una lega da Parigi a fondare un'abbazia del suo nome.
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