François-Marie Arouet de Voltaire
La pulcella d'Orléans

CANTO SECONDO

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CANTO SECONDO

 

 

ARGOMENTO.

 

Ritrova in gran periglio all'osteria

Dionigi la Pulcella. Egli d'arnese

sacro la veste, ed ambo in compagnia

traversano di notte il campo inglese.

Ivi salta una strana fantasia

in capo alla guerriera: Il re francese,

fatto il debito esame alla donzella,

le fa spedire il breve di pulcella.

 

 

I. Colui beato cento volte e cento

che trovar puote al mondo un pulcellaggio!

Questo è tesor: ma porto sentimento

che d'un bel cor l'acquisto è più vantaggio.

Amato riamar: questo è contento,

questa è felicità senza paraggio.

Che giova, oimé! strappar di forza un fiore?

La rosa è vil, se non la coglie amore.

II. Più d'un dottor con glosse ha guasto affatto

un testo così bello. Egli ha preteso

mostrarne che il piacer (vedi che matto!)

ne' doveri dell'uom non è compreso.

Contro costor proponimento ho fatto

un volume stampar di forza e peso,

nel qual, se Dio m'ajuta, altrui descrivere

tutta vo' la grand'arte del ben vivere.

III. Mostrerò che, frenando i desir nostri,

il dovere è un piacer senza contesa,

e san Dionigi dagli eterei chiostri

assisterammi in questa dotta impresa;

io l'ho cantato ne' miei casti inchiostri,

ed egli assumerà la mia difesa.

Intanto, amici, a raccontar vi vegno

qual s'ebbe effetto il suo santo disegno.

IV. Verso Sciampagna, dove una catena

di colonnette con tre merli intorno

al passegger dicea: – Siete in Lorena –,

siede un vecchio villaggio oscuro un giorno;

ma tale un grido nell'istoria or mena,

che alle prime città potrìa far scorno,

ché da lui la salvezza e l'onor scese

degli aurei gigli e del valor francese.

V. Di Doremì cantiam dunque il villaggio,

ond'eterno il suo nome al mondo suoni.

O Doremì, del sol l'invido raggio

non educa al tuo suol pèsche o limoni,

moscadelli: le tue viti al saggio

non turbano il cervel: tu non ne doni

vene d'argento e d'òr. Ma che? Donasti

alla Francia Giovanna, e tanto basti.

VI. Certo cotale ex monaco curato,

che per tutto faceva anime a Dio,

valoroso nel letto e disperato

bevitore e ghiotton, ma insieme uom pio,

n'era il padre; e la forma ove il

pastor gittò con dolce lavorìo

questa a gli Angli fatal beltà guerriera,

una robusta e grassa cameriera.

VII. A tre lustri il padron dell'osteria

di Valcolor le die' la stalla in cura,

e già la fama raccontar s'udìa

di Giovanna la grazia e la bravura.

Nero il grand'occhio a fior di fronte uscìa,

fiera è l'aria, ma onesta e in sé sicura;

trentadue denti d'un egual candore

fan sul labbro spiccar rose d'amore.

VIII. Ir da un orecchio all'altro la vermiglia

bocca ti sembra, fresca, appetitosa.

Brune e dure le tette a maraviglia

fann'urto al busto come salda cosa.

Scaltra, gagliarda, ogni faccenda piglia,

alza pesi con man grassa e nervosa,

versa fiasconi e serve con piacere

l'artigian, l'avvocato, il cavaliere.

IX. Cammin facendo, mena schiaffi a quanti

con indiscreta illiberal maniera

or di dietro la tastano, or davanti:

travaglia e ride da mattina a sera,

striglia e guida i cavalli calcitranti,

gli abbevera, li cura, e più leggera

d'una piuma lor salta sulla groppa,

qual romano soldato, e via galoppa.

X. O saggezza di Dio, com'è piccino

il grande della terra al tuo cospetto!

com'è grande a tua voglia il piccolino!

Il tuo servo Dionigi benedetto

ne' palazzi non già di travertino,

né di contesse o di duchesse al letto,

ma se n' corse a cercar (ch'il crederìa?)

la pudicizia, e dove? all'osteria.

XI. E ben gli fu mestier non andar lento

in traccia di Giovanna, ché venuta

la pubblica salute era in cimento

per l'infernal malizia conosciuta.

Se il buon santo tardava anche un momento,

tutta Francia senz'altro era perduta;

cagione un certo francescan, per nome

chiamato Grisbordone, e udite come.

XII. Trovavasi costui nell'osteria,

venuto con Sandò dall'Inghilterra,

e amava la Giannetta alla follia,

cioè del pari che la patria terra.

Di tutta quanta la birboneria

era il fiore, e durante quella guerra

facea qua e la santa missione,

predicatore, confessor, spione.

XIII. Di più stregone e zingaro perfetto,

arte sacra in Egitto, arte già culta

ai saggi della Grecia, e fra l'eletto

seme d'Abramo non rimasta occulta.

L'ebbe anch'essa la Grecia in gran rispetto,

ora è del tutto nell'oblio sepulta.

Tempi infelici! tempi di profondo

errore! oh come ha peggiorato il mondo!

XIV. Scartabellando le sue carte, trova

che Giovanna è un fatal genio nemico,

che d'Inghilterra e in un di Francia cova

gli alti destini sotto l'ombilico.

Ei che sapea per lunga ardita prova

fare il suo fatto e trar la scorza al fico,

giurò per Satanasso e pel fratesco

suo cordone, e per quel di san Francesco,

XV. che tosto in suo potere avrìa condotto

questo raro palladio, e orando a Dio

dicea fra sé: – La metterò di sotto;

sì, farò per la patria attopio:

frate e breton, cantava il galeotto,

de' miei far debbo il ben, ma prima il mio. –

Così ragiona; ma l'illustre impresa

da un rivale di piazza gli è contesa.

XVI. Era il rivale un ignorante e stolto

mulattier che il servigio, il cor, la mano

notte e profferiva a quel bel volto:

e ben valea quel goffo un francescano.

L'occasion, l'egualità fan molto

la Giovanna inchinar verso il villano;

ma il suo pudor trionfa dell'amore

che segreto s'invia per gli occhi al core.

XVII. Il frate, che in quel cor venìa leggendo

più ch'ella stessa quell'ardor nascente,

a trovar corse il suo rival tremendo;

e, – O prode della stalla eroe possente,

con gravità gli disse il reverendo,

che passate in rivista attentamente

tutti questi bei muli, io veggo già

che la Giannetta dentro al cor vi sta.

XVIII. Al par di voi l'am'io; caldi rivali

l'un l'altro ci temiam: da buoni amici,

veniamo a patti onesti e liberali,

amanti uniti ed ambedue felici.

Lasciam zuffe e baruffe a gli animali,

godiamci in pace e sotto buoni auspìci

questo ghiotto boccon, ch'altri porrìa,

mentre stiam disputando, portar via.

XIX. Menatemi al suo letto; io farò scendere

il demonio del sonno su la bella.

Sovr'essa il sonno verrà l'ali a stendere,

e noi vicissim veglierem per ella. –

Corre, ciò detto, immantinente a prendere

il suo libraccio ed il demonio appella,

quel demonio pesante e di gran pancia,

che un Morfeo nomossi, e or dorme in Francia.

XX. Va con rauchi avvocati la mattina

a commentar Cujacio, e s'addormenta.

A sentir dopo pranzo si strascina

le prediche, i sermoni, e s'addormenta.

Quei tre punti, quei testi, quella fina

eloquenza il rapisce, e s'addormenta.

Poi stracco morto, e di cattiva cèra,

viene in teatro a sbadigliar la sera.

XXI. Del frate al grido un negro carro ascende

che due gufi pel bujo ivan tirando.

Lieve in aria si striscia, e l'ombra fende

con occhi chiusi, e sempre sbadigliando.

Pur giunge al fine, e barcollon si stende

lungo Giovanna, e, sopra vi squassando

i papaveri suoi, le soffia in petto

un soffio indiavolato e maledetto.

XXII. Tale il padre Gherardo gesuita,

in confessando la gentil Cadiera,

di diavoli soffiolle per la vita

un formicajo, se l'istoria è vera.

I nostri due galanti, che sopita

non han la carne, ma svegliata e fiera,

han già tolto in quel sonno alla Giannetta

la coperta di dosso. Poveretta!

XXIII. Già tre dadi gettati sul bel ventre,

vonno al gioco decider della zara

chi delli due primiero a tentar entre

quell'avventura stravagante e cara.

Guadagna il punto il monaco valentre;

a un mago non è mai la sorte avara.

Vinta la posta, il frate alla fratesca

piomba sopra Giovanna. Ora sta fresca.

XXIV. Ma Dionigi (oh portento non credibile!)

sopraggiunse in quel punto, e dal sopore

la Giannetta destò. Quanto è temibile

la presenza d'un santo al peccatore!

Cadon percossi da spavento orribile

il mulattiero e il frate incantatore,

e svignano, portando in cor l'impura

volontà del peccar con la paura.

XXV. Se un commesso talor di polizia

cerca di notte un chiostro sacro a Venere,

a quel nero mantello, a quella ria

faccia uno sciame di ragazze tènere

salta dal letto mezzo nudo, e svia

celandosi qua e : di questo genere

pensa che fosse il fuggir dei confusi

due puttanieri in lor desìo delusi.

XXVI. S'avanza il Santo, e a lei, che del profano

tatto ancor trema, confortando, dice:

Vaso d'elezion, tua casta mano

de' Franchi oppressi Iddio prescelse ultrice;

egli vuol che del barbaro Anglicano

per te s'abbassi la dura cervice.

Dio la fragile canna in eminente

cedro cangia col soffio onnipossente;

XXVII. secca il mar, spiana i monti, e a suo talento

tutta scompone e ricompon la terra.

Precederatti il tuono, e lo spavento

ti volerà d'intorno nella guerra.

Della vittoria l'Angelo già sento,

che le vie della gloria ti disserra:

vieni, abbandona il tuo mestier plebeo,

e un Gedeon diventa, un Maccabeo. –

XXVIII. A questo teologico e tremendo

parlar Giovanna stupefatta, seco

ristette alquanto, e un largo becco aprendo,

credea che il Santo le parlasse greco.

La grazia intanto agiva, e, percotendo

con efficacia l'intelletto cieco,

questa grazia agostina entro il suo core

le vampe accese d'un sublime ardore.

XXIX. Rizzasi in piedi, e non è più Giovanna

la cameriera, ma un eroe guerriero.

Tale un goffo borghese alto una spanna,

di qualche ricco vecchio ereditiero,

in palazzo converte la capanna;

gli fortuna portamento altero:

ne stupiscono i Grandi, riverenza

gli fa il volgo e gli dell'Eccellenza.

XXX. O tal piuttosto in mente ti figura

quella brunetta di leggiadro aspetto,

cui d'accordo formaro arte e natura

per lo bordello, o il teatral diletto.

La buona mamma con attenta cura

d'un ricco appaltator l'educa al letto;

ma vien Amor più destro e glie l'invola

per sottoporla a un re fra due lenzuola.

XXXI. Appena ha tocco le incantate piume,

che il vero incesso di regina prende.

La voce il tuono di padrona assume,

protezion lo scaltro occhio già rende;

lo spirto acquista degli dèi l'acume

ed all'altezza del suo rango ascende.

Ma paragoni di sì lunga coda,

lettor, lasciamo, e ritorniamo a proda.

XXXII. Ad affrettar la ben comincia impresa,

con la donzella immantinente piglia

il buon santo la via verso la Chiesa.

O del padre curato inclita figlia!

che contento fu il tuo, la tua sorpresa,

quando l'altar maggiore alle tue ciglia

d'armi un mucchio offerì, che tolte avìa

Michele allor del cielo all'armeria?

XXXIII. Di Debora vi stava il morione,

di Giael la cavicchia e la mascella

con che Filiste combatté Sansone,

venduto e raso il crin dalla sua bella.

Ve' il ciottolo e la fionda, onde un garzone

d'un gigante schizzar fe' le cervella,

ve' il coltel di colei che il suo diletto

per la gloria di Dio scannò nel letto.

XXXIV. Dico Giuditta santamente putta,

santamente omicida e menzognera.

Stupisce in prima di quell'armi e tutta

poi se ne veste la fatal guerriera.

Prende elmo, scudo, usbergo: al pugno indutta

ha già la lancia, e al volto la visiera,

prende chiodo, coltel, mascella e daga,

si prova e marcia, di pugnar già vaga.

XXXV. Ogni eroina ha il suo destrier. La nostra

uno ne chiede al mulattier gabbato;

ma un bell'asino tosto le si mostra

ben ferrato, sellato ed imbrigliato.

Pelo grigio, gran raglio, ed alla giostra

tutto in procinto, col frontal dorato

caracollando e il pie' battendo in terra,

come un corsier di Francia o d'Inghilterra.

XXXVI. Avea sul dosso il nobile orecchiuto

due grand'ali cui spesso agil movea;

così Pegàso al monte biforcuto

portar le dee pulcelle un solea;

l'Ippogrifo così verso il cornuto

pianeta con Astolfo a voi s'ergea.

Cos'è questo ronzin, sento alcun dire,

che a Giovanna il groppon viene ad offrire?

XXXVII. Di dirtelo, lettor, non ti fo niego,

ma in altro luogo lo saprai. Frattanto

questo bel ciuccio rispettar ti prego,

ch'ei non senza ragione è nel mio canto.

Sul suo bigio corsiero in gran sussiego

salta Giovanna, e sul suo raggio il Santo

e sul Ligeri a vol ne vanno insieme

a portar di vittoria al re la speme.

XXXVIII. Mentre l'asino or va di picciol trotto,

or s'alza, or vola per lo ciel leggero,

Il Francescano di lussuria rotto,

assestate le cose del braghiero,

come stregon nell'arte sua ben dotto

in mulo cangia il pover mulattiero,

lo monta, il punge, e giura furibondo

tener dietro a Giovanna al fin del mondo.

XXXIX. Nel corpo al mulo il mulattier celato

col basto sulla groppa, a tutto giuoco

si pensò d'aver fatto un buon mercato;

e sì lo spirto avea rozzo e da poco,

che, dentro quella pelle imprigionato,

s'accorse appena che cangiò di loco.

Giovanna in questa e il buon Dionigi in traccia

van del re, che d'amore è in fra le braccia.

XL. Cheti presso Orleano e d'ombra avvolti,

del nemico traversano i ridutti;

marci di birra e in sonno alto sepolti

giaccion gl'Inglesi, e rauchi ronfi e rutti

di trombe invece e di tamburi ascolti;

imbriache le guardie e i servi e tutti;

chi nudo nella tenda, e chi più saggio

dorme disteso sulla pancia al paggio.

XLI. Disse pian piano allor con dolce affetto

alla guerriera il Santo: – Figlia mia,

saprai che Niso, se Virgilio hai letto,

d'Eurialo una notte in compagnia,

di Turno entrò nel campo, e, còlti in letto

i Rutoli, inviolli in beccheria;

e lo stesso mi par d'avere inteso

che succedesse nel quartier di Reso,

XLII. quando d'un tal Tideo l'audace figlio

coll'ajuto d'Ulisse nel più forte

della notte, spedì senza periglio

tanti trojani dal sonno alla morte.

A egual vittoria tu puoi dar di piglio.

Di', lo brami un onor di questa sorte? –

Ed ella: – Non ho mai letto l'istoria,

ma uccidere chi dorme è bassa gloria. –

XLIII. Scorge in ciò dire al lume della luna

una tenda, che par d'un generale,

o d'un giovin marchese; e per fortuna

di buon vino v'avea più d'un boccale.

Senza paura la donzella aduna

gli avanzi d'un pasticcio badiale,

e su due pie' col Santo fur bevute

sei mezzette di Carlo alla salute.

XLIV. Era questa la tenda di Sandò,

guerrier famoso, che dormìa supino;

Giovanna lo spadon ne distaccò,

e i calzon di velluto cremisino.

Così Davidde, cui Dio tanto amò,

Saul trovando fuori di cammino,

e ucciderlo potendo, il buon figliuolo

gli tagliò della veste il lembo solo.

XLV. E la tagliò per prova ai potentati

di ciò che far poteva e pur non fece.

Presso a Sandò dormìa di delicati

sembianti un paggio di quattr'anni e diece,

che scoperti mostrava e rilevati

due bianchi globi, e, se dir netto lece,

due chiappe, che al contorno ed al candore

le divine parean chiappe d'Amore.

XLVI. Vicino al paggio un calamajo stava,

con cui, di buon lieo calda la vena,

dolci versi il garzon scarabocchiava

per la cara beltà che l'incatena.

Giovanna, come l'estro le frullava,

prende l'inchiostro e all'imo della schiena

col suo bel dito sulle chiappe nette

tre fior di giglio a disegnar si mette.

XLVII. Fortunato presagio, onde argomento

sicuro trasse il popolo francese

di sua felicitade, e monumento

che l'amor de' suoi re gli fea palese.

Il buon Dionigi contemplava attento

di Francia i gigli sovra un culo inglese,

e morìa dalle risa. Or indovina

chi prima se n'accorse la mattina.

XLVIII. Fu Sandò, che, destato al primo raggio,

già la crapula avendo digerito,

stupefatto mirò sovra il suo paggio

dipinto il fior del giglio in quel bel sito.

Pien di giusto furore a tanto oltraggio,

grida: – Corpo di Giorgio, io son tradito! –

Corre, cerca la spada al letto appesa;

ma la ricerca invan, la spada è presa.

XLIX. Cerca le brache, e brache più non vede:

si stropiccia la vista e sbuffa e schioda

bestemmie che fan foco, e fermo crede

che il diavolo qui messa abbia la coda.

Ma la coppia seguiam che l'aria fiede

sovra un raggio e un somier veloce e soda.

Bella cosa quel raggio e quel somiero

per tosto il giro far del mondo intero.

L. Tornava al letto di Titon l'Aurora,

quando in corte arrivàr. Sapea Dionigi

per proprio fatto che le corti ognora

son buffone, e più quella di Parigi.

Del pazzo ardir di Riccamonte ancora

nella mente gli stanno alti vestigi:

né più volendo esporre a nuove offese

la figura d'un santo, altra ne prese.

LI. Di Ruggero signor di Brodicura

piglia il burbero aspetto e melanconico:

questi era un cavalier d'alta bravura,

ardito parlator, fermo cattolico,

che dir sempre solea la nuda e pura

verità, qual farebbe un apostolico.

E nondimen, quantunque linguacciuto,

alla corte non era il malveduto.

LII. – Oh cospetto di Dio! – diss'egli a Carlo:

e fino a quando Vostra Maestà,

re servile e poltron (schietto vi parlo),

in fondo a una provincia languirà?

Dunque una putta (chi potrìa pensarlo!)

un par vostro in catene ognor terrà?

né in fronte porterete altre corone

che di mirti o di rose? Oh re minchione!

LIII. L'inimico frattanto, ahi caso indegno!

già re di Francia in trono è stabilito.

O lasciate la vita, o il vostro regno

rinconquistate da costor rapito.

Siete nato al diadema, siete degno

cinger gli allori che vi fanno invito.

Dio, che m'ispira e accende il mio coraggio

vi parla, e la mia voce è suo linguaggio.

LIV. Presto è il favor di Dio, pur che vogliate

concorrervi coll'opra. Or questa eletta

amazzone nel campo seguitate,

che del trono e di voi farà vendetta.

Col suo braccio vuol Dio che riparate

sien vostre leggi e il soglio che v'aspetta.

Saprà, cinta costei di piastra e maglia,

al diavolo cacciar la ria canaglia.

LV. Dico gl'Inglesi. Ma vorrei trovarvi

uomo una volta. E se pur vuol la sorte

che una donna pel naso abbia a menarvi,

deh non sia quella almen che vi morte;

quella che il cor si studia effeminarvi

con una vita.... Orsù, Sire, alle corte:

o seguite costei che dée sconfiggere

tutti i nemici, o andate a farvi friggere. –

LVI. Un re di Francia, benché innamorato,

non è sordo all'onor. Quindi il severo

parlar del vecchio intrepido soldato

dal letargo riscosse il suo pensiero.

Un angelo così da Dio mandato,

scotendo un giorno l'universo intero,

e la polve animando a suon di tromba,

i morti chiamerà fuor della tomba,

LVII. Desto Carlo dal sonno e tutto ardore,

non gli risponde che gridando: – Guerra! –

Sol guerra e sangue gli diletta il core,

e furibondo la sua lancia afferra.

Da quell'impeto primo di calore

subito cessa e in mille dubbi egli erra

Vuol veder se l'amazzone gli fu

da Dio spedita, oppur da Belzebù.

LVIII. Vuol saper se la sua virginità

è miracolo vero, o un'impostura.

Onde, vòlto il parlare alla beltà

che gli stava dinanzi dura dura,

re Carlo con un tuon di maestà,

che a tutt'altri che a lei farìa paura,

disse: – Giovanna, siete voi pulcella? –

– Son pulcella, gran Sire, – rispose ella.

LIX. – Ordine date che dottor, pedanti,

apoticarii, medici, matrone,

con gli occhiali sul naso tutti quanti

vengano a far la loro ispezione:

chiunque se ne intende, alzi davanti

questa gonnella e guardi in quel cantone. –

Alla risposta saggia e misurata

ben vide il re ch'ell'era un'ispirata.

LX. – E, orsù mi dite (giacché Dio favella

sul vostro labbro), dite, il re ripiglia,

cosa ho fatt'io 'sta notte alla mia bella?

Ma parlatemi tondo, buona figlia. –

– Niente, o Sire, – rispose la donzella.

Cade in ginocchio il re per meraviglia,

e: – Miracolo! – grida ad alta voce,

fattosi il segno della santa croce.

LXI. Berretta in testa, Ippocrate alla mano,

de' periti lo stuol severo e dotto

vien subito a portar l'occhio profano

in quel sen generoso ed incorrotto.

La stendon nuda, e Monsignor Decano,

tutto avendo guardato e sopra e sotto,

spedir le fece nelle forme, e in bella

pergamena, un diploma di pulcella.

LXII. Con questo breve, che fumar d'orgoglio

le fa gli spirti, altera procedendo,

riede a Carlo, e, prostrata al regal soglio,

le brachesse e la spada deponendo,

di ch'ella l'inimico avea già spoglio,

Prendi, Sire, e permetti, o re tremendo,

che la tua serva al tuo voler sommessa

ardisca vendicar la Francia oppressa.

LXIII. Adempirò gli oracoli di Dio,

e giuro innanzi a te pel mio coraggio,

per questa scimitarra e per lo mio

di già matricolato pulcellaggio,

che sarai tosto in Remme (tel dich'io)

unto re della Francia, e il mal viaggio

darai per mare all'anglica coorte,

che assedia e stringe d'Orlean le porte.

LXIV. Dunque l'alto destin che il ciel ti volve

a compier vieni, e, Tursi abbandonando,

tra i perigli di morte e fra la polve

non isdegnar compagno questo brando. –

parla, e spessa intorno le s'avvolve

de' cortigian la turba, che, levando

gli occhi al cielo, l'applaude e fa seguire

mille gridi di gioja al suo bel dire.

LXV. Né fra tanti affollati avvi guerriero

che, bramoso di farle opra gradita,

non sia presto a servirla da scudiero,

a portarle la lancia, a dar la vita.

Né v'ha duca, marchese o cavaliero,

che, pien di voglia nobilmente ardita,

non aspiri a rapirle il rubinetto,

ch'ella tien del pudor sotto il lucchetto.

LXVI. Pronto al partire ogni official s'affretta;

qual si congeda dalla vecchia amante,

qual chiede all'oste i conti e dice: – Aspetta –;

va l'altro in ghetto a ritrovar contante.

San Dionigi d'un palo sulla vetta

fa spiegar l'orifiamma folgorante,

e il re prende, in vederla, una speranza

che al suo valor s'adegua e glie n'avanza.

LXVII. Questo al crudo Breton segno fatale,

questa eroina che da Dio gli viene,

questo fiero ronzino a due grand'ale

promettongli in tre l'Anglo in catene.

Volle il Santo in partir l'ultimo vale

risparmiar a gli amanti, e pensò bene,

perché sparso gran pianto si sarìa,

ove tempo non era a buttar via.

LXVIII. Benché presso al meriggio, ancor si stava

dormendo Agnese, e fuor d'ogni timore

della ria dipartenza, ella sognava

il passato piacer; con dolce errore

di tener fra le braccia si pensava

il caro amante. Ahi sogno ingannatore!

Tu frodi i sensi alla meschina, e intanto

Carlo se n' fugge, e chi l'invola è un santo.

LXIX. Tale un fisico suol prudente ed abile

un malato ghiotton porre a dieta,

e, la gola frenando inesorabile,

bottiglie e salse e fin l'odor ne vieta.

Il buon Dionigi a quel peccato amabile

tolse a pena il re Carlo, e fe' compieta,

che ratto a ritrovar corse la bella

sua guerriera gentil, la sua Pulcella.

LXX. Di beato riassume il grave aspetto,

la chierca, il tuon devoto, il pastorale,

i guanti con l'anello benedetto,

e la croce e la mitra episcopale.

Vanne, salva, le dice, il tuo diletto

prence e la Francia, o Vergine immortale;

disgrazie temer, ché a superarle

io sarò teco: il giuro, e non fo ciarle.

LXXI. Ma sia col lauro che corrà il tuo brando,

la casta rosa del pudore unita.

Io guiderotti in Orleano, e quando

Talbò, de' miscredenti archimandrita,

il demon di lussuria in cor gli entrando,

in braccio si torrà quella sdrucita,

quella sua sporca Presidente, allora

piombagli addosso, ed in flagranti ei mora.

LXXII. Punisca il braccio tuo la sua nequizia,

ma d'imitarlo, ve', scaccia il desìo;

sii coraggiosa ognor nella milizia,

ma del pari devota. Io parto: addio.

Serba intatta la santa pudicizia,

la pudicizia, per amor di Dio. –

Ella ne die' solenne giuramento,

e al ciel Dionigi rivolò contento.

 

 

NOTE AL CANTO SECONDO

 

Ottava V, v. 7-8:

Essa era in fatto nativa del villaggio di Domremi, figliuola di Giovanni d'Arc (o Darc) e d'Isabella (Romée), in età allora di ventisette anni, e serviva in un'osteria: suo padre, dunque, non era curato. È questa una finzione poetica, la quale in soggetto grave non sarebbe forse permessa.

Ottava XXII, v. 1:

Il testo dice: le moine Girard. Il gesuita Girard, riconosciuto colpevole di essersi presa qualche piccola libertà con la signorina Cadière sua penitente, fu accusato d'averla stregata soffiandole sopra. (V. le note al c. III).

Ottava XLIV, v. 1:

Orig. Chandos, gran capitano di quei tempi.

Ottava LI, v. 1:

Orig. Roger, seigneur de Baudricour. Veramente non si chiamava Ruggero, ma Roberto: piccolo errore. Condusse Giovanna d'Arco a Tours, nel 1429, e la presentò al re. Era un buon diavolaccio della Sciampagna, che avea pochi spiccioli. Il suo castello era presso Brienne nella Sciampagna.

Ottava LXXI, v. 4:

Talbot, generale supremo degl'Inglesi.


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