François-Marie Arouet de Voltaire
La pulcella d'Orléans

CANTO TERZO

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CANTO TERZO

 

 

ARGOMENTO.

 

Vien fra' Capocchio assunto a notte oscura

della Sciocchezza al regno, ove ignorante

contempla la bellissima pittura

delle umane follie tante e poi tante.

Agnese di Giovanna l'armatura

prende per gire a ritrovar l'amante.

Casca in man degl'Inglesi, e il suo pudore

ne soffre assai; ne piange, ma non muore.

 

 

I. Non basta, amici, aver cor grande e saggio

e fermo il guardo in mezzo alla battaglia,

guidar falangi, e placidi il coraggio

tra le stragi portar sotto la maglia.

Ogni clima ha il suo eroe: cotal vantaggio

ora in questo, ora in quel parmi prevaglia.

Chi mi sa dir se il fervido francese

sia guerriero miglior che il freddo inglese?

II. Chi decider saprà se il paziente

tedesco allo spagnolo innanzi vada?

Nella grand'arte d'ammazzar la gente,

arte che sola ad ogni onor fa strada,

or vinto si ritrova, ora vincente.

L'immortale Condè cesse alla spada

del gran Turenna, e il Prence di Piemonte

al fier Villardo fe' bassar la fronte.

III. Che del grande dirò sostenitore

di Stanislao? Vo' dir quel re soldato,

Don Chisciotte del Norte, il cui valore

più che umano talor fu giudicato.

Nelle valli d'Ucrania, ove furore

più che virtù lo spinse, il disperato

i suoi lauri cader vide a Pultava

sfrondati da un rival, ch'egli sprezzava.

IV. Un bel segreto a mio parer sarìa

saper la gente abbarbagliar, d'un nome

rivestirsi divin, la fantasia

dell'inimico soggiogar, siccome

féro i Romani, a cui tutto obbedìa.

Coi prodigi per lor disfatte e dome

fur tutte genti, e lor propizio il cielo

delle sacre cortine aperse il velo.

V. Giove, Marte, Polluce e Giuno e Venere

e quanti ha numi l'immortal Consiglio

pugnàr per essi, e alla non mai degenere

lor aquila guidàr l'ali e l'artiglio.

Bacco, che mise tutta l'Asia in cenere,

l'antico Alcide e di Filippo il figlio,

per dominar i popoli sommessi,

stirpe di Giove si chiamaro anch'essi.

VI. Quindi a' lor piedi pallidi e devoti

vedeansi i regi paventarne il tuono,

e vittime offerendo e immensi vóti,

per adorarli discendean dal trono.

Lodati esempli a tutto il mondo noti

seguir piacque a Dionigi: e fu sì buono,

che pretese per santa e verginella

pur fra gli Angli spacciar la sua Pulcella.

VII. Perché il fior della prode oste britanna,

Tirconello, Bedforte, e il bestiale

Sandò, e Talboddo, che d'amor si danna,

si bevesser la cosa tale e quale,

che vedesser cioè nella Giovanna

un divin braccio ai peccator fatale,

un vecchio padre di san Benedetto

in ajuto pigliò per questo effetto.

VIII. Di quei padri non già le cui sudate

ed immense fatiche hanno di Francia

arricchito i libraj, ma un padre abate

d'ignoranza ingrassato, a bella pancia,

e ch'altre carte non avea voltate

che il suo messal. Pesato alla bilancia,

fu questo il personaggio su cui l'occhio

pose Dionigi, e avea nome Capocchio.

IX. Verso il globo lunare, ove si scrive

che già dei pazzi il paradiso fosse,

di quell'immenso abisso in sulle rive,

ove la Notte, l'Erebo, il Caosse

indistinti regnàr, pria che furtive

le sue grand'ali avesse il tempo mosse

sul creato universo, è un vasto loco

ove il raggio del sol non ride, o poco.

X. Solo una mesta luce vi si spezza,

fredda, incerta, feral: sue stelle sono

fatui fochi che crescono tristezza;

l'aria tutta ai folletti è in abbandono.

Regina del paese è la Sciocchezza:

questa vecchia fanciulla assisa in trono

grigia ha la barba, il piede in sé converso,

sbadiglia sempre e guarda di traverso.

XI. Dell'Ignoranza dicesi la figlia;

un sonaglio ha per scettro: e assiste al soglio

una balorda stolida famiglia,

l'Ostinazion, l'Accidia e il folle Orgoglio

e la Credulità che tutto piglia.

Insomma, come un papa in Campidoglio,

è adulata, servita; e sembra vera

sovrana; ma non è che una chimera:

XII. una vera chimera, un Chilperico,

un re che stassi con le mani in mano.

L'avida Furberia, ministro antico,

ministro degno di cotal sovrano,

fa tutto; ed ella, che ha cervel di fico,

ella stessa seconda quel marrano.

La sua gran corte poi, corte bandita,

de' più profondi astrologi è fornita.

XIII. Questa è una gente che del suo mestiere

sempre è sicura, e sempre in error casca;

mascalzoni, ignoranti in suo parere

ognun gli estima, eppur lor fole intasca.

E alchimisti vi son d'alto sapere

che fan l'oro, e ognor vuota hanno la tasca:

e rosacroci, e tutti quei furenti,

che filan teologici argomenti.

XIV. Per ire a questo loco il buon Capocchio

fra tutti i suoi confrati è dunque eletto.

Già la notte sul tacito suo cocchio

d'atri vapor coprìa del ciel l'aspetto,

sulla grossa dormìa come un ranocchio

il nostro baccellon, quando dal letto

fu degli sciocchi al paradiso assunto;

né gli fece stupor l'esservi giunto.

XV. Era tutto in brodetto, e in arrivando,

arrivar si pensò nel suo convento.

Di begli affreschi in prima un ammirando

salone ei vide nell'entrar drento:

Cacodemonio lo dipinse, e oprando

in ornar quel gran tempio ogni talento,

gittò sulla muraglia un lungo schizzo

delle umane sciocchezze a ghiribizzo.

XVI. La pittura è in emblema. Ivi tu vedi

passi da sofo, frizzi da stordito;

progetti d'ogni età fatti coi piedi,

peggio eseguiti, e sghembi all'infinito;

le arroganti sentenze e i capopiedi

de' giornali: e codesto colorito

di stupende follìe tutte in miscuglio

degl'impostori è detto il guazzabuglio.

XVII. Nuovo re dei Francesi, il Rodomonte

Law scozzese qui mostra la sembianza:

un diadema di carta ha sulla fronte,

e v'ha scritto: Sistema di finanza.

Di tumide vesciche ha intorno un monte,

ch'ei dispensa con fasto a chi s'avanza.

Preti, guerrier, bagasce e baccalari

vi portano ad usura i lor denari.

XVIII. E tu (bello a vedersi), e tu stai

con Escobar, versatile Molina;

e tu, Dolcino, che a baciar ne dài

con man vezzosa una bolla divina;

bolla, onde Roma in suo cor rise assai,

del tartufo Telliè sporca farina,

ma nobile fra noi cagion di liti,

di scandali, di colpe e di partiti:

XIX. e, ciò che è peggio, di volumi immensi,

pieni, si dice, di veleni eretici;

veleni che nell'anima e nei sensi

portan freddi sopor tutti apopletici.

Nuovi Bellerofonti, infra quei densi

vapori i nostri combattenti ascetici

cavalcano chimere, e con bendati

occhi van contro all'avversario armati.

XX. Fischi son le lor trombe; e in quelle dotte

lor sante frenesie l'alme nemiche

menan colpi da cieco, e si dàn bòtte

che somigliano scoppii di vesciche.

Che scritti, Gesù mio! che strane lotte

d'argomenti, d'esami e di fatiche

per capir quello che non puoi comprendere,

e spiegar sempre né mai farsi intendere!

XXI. O cronicista degli eroi del Xanto,

tu che un giorno dei topi e delle rane

dottamente col divin tuo canto

l'ire dicesti e le battaglie insane,

esci di tomba, e vien la guerra e 'l pianto

a cantar che le genti gallicane

da collarin da chierca e da cocolla

fanno in terra, e perché? per una bolla!

XXII. Il giansenista schiavo del destino,

della grazia che chiamasi efficace

dannato figlio, porta un Agostino

nel suo vessillo e grida pertinace:

– O cristiani, il Redentor divino

sol per molti patì: – poi corre audace

ai nemici che avanzano curvati

sul dorso a cento saputelli abati.

XXIII. – L'ire civili sospendete ond'arse

il vostro cor, cessate ogni contrasto. –

Tutto a un tempo la scena ecco cangiarse:

Largo largo, imbecilli, eroi da basto. –

Ecco vicino a San Medardo alzarse

un mausoleo senz'arte e senza fasto,

in cui Domeneddio tutta racchiude,

per Francia convertir, la sua virtude.

XXIV. A questa tomba, a guarir d'ogni male,

corre la gente in gran processione:

v'accorre il zoppo con passo ineguale,

grida: – Osanna –, e giù casca stramazzone:

v'accorre il cieco, e torna allo spedale

brancolando più cieco, e va tentone:

vi si avvicina il sordo, attentamente

porge l'orecchio, e non ode niente.

XXV. E i devoti credenti allora enfatici

svenìr di gaudio ed esclamàr: – Miracolo! –

E per la gloria del Signor fanatici,

del beato baciavo il tabernacolo.

Fra' Capocchio, a man giunte e ad occhi estatici,

Dio ringraziando di sì pio spettacolo

e sorridendo un suo cotal sorriso,

nulla intende, e si crede in paradiso.

XXVI. Ma ecco il dotto tribunal severo,

metà fratesco e metà prelatizio:

d'inquisitori un drappel sacro e fiero

cinto di sgherri, detto il Sant'Uffizio,

la ragion la parola ed il pensiero

per la causa di Dio chiama in giudizio.

Piume di gufo han quei dottor per cresta,

e lunghe orecchie di somaro in testa.

XXVII. Una bilancia lor, ch'altri non tocca,

l'ingiusto e 'l giusto, il falso e il vero pesa

dentro due lunghi gusci: uno ribocca

di sangue e d'oro, che il ladron di chiesa

per lor salute ai penitenti scrocca;

l'altro tutto ripien gli contrappesa

di rosarii, novene e giubilei,

d'indulgenze, di bolle e d'agnusdei.

XXVIII. Al santo pie' dell'assemblea si vede

l'oppresso Galileo tutto contrito,

che perdonanza pubblica le chiede

d'aver ragione, ed a ragion punito.

O mura di Loudun, quai negre tede

v'empion d'orrida luce? È un arrostito,

è il curato Grandier, per decisione

di dodici facchini empio stregone.

XXIX. O bella, o cara Galigai! S'incapa

a crederti una strega la Sorbona,

però ti brucia: oh parlamento rapa!

Oh Francia ognor funesta a chi ragiona!

Oh saggia cosa il credere nel papa

e in Belzebù, né dir che la corona!

Ve' più lungi il decreto che l'emetico

vieta, e consacra il gran Peripatetico.

XXX. Vien qua, vien qua, mio bel padre Gherardo,

ché far ti voglio il meritato onore

di due versetti a parte. O maliardo

direttor di fanciulle e confessore!

Sei qui dunque, mio dolce pappalardo,

delle grate gentil predicatore?

che di' tu della bella penitente

che sul letto converti? Ottimamente!

XXXI. Ti son schiavo, Gherardo, e assai ti lodo

di siffatta dolcissima avventura:

tutto umano è il tuo caso, e in cotal modo

non è certo un peccar contro natura.

Quanti devoti han messo peggio il chiodo!

Ma, caro amico, in simile fattura

figurato giammai non mi sarìa

che il diavolo la coda intruso avrìa.

XXXII. O Gherardo, Gherardo; o voi che siete

gli accusatori, fraticei di scuro

e bianco manto; e voi ch'arso volete,

giudici, scribi e testimon, l'impuro;

e voi del par che stolti il proteggete;

ah nessuno di voi gli è il mago, il giuro!

Ma lasciamo Gherardo, e diasi l'occhio

a ciò che vide alfine il buon Capocchio.

XXXIII. Vide gli antichi parlamenti in piazza

bruciar le carte del pastor romano,

e con decreto sterminar la razza

d'un certo Ignazio di cervel non sano;

poi proscritti essi pur: piange e schiamazza

Chesnello, e Ignazio ride al caso strano:

Parigi è in lutto, e di sì ria tragedia

ad asciugar va il pianto alla commedia.

XXXIV. O tu, nume balordo, o dea Sciocchezza,

dal cui gran fianco in ogni età fecondo

più figliolanza uscì che in sua pregnezza

non die' numi Cibele al ciel profondo,

mira i tuoi figli, e sèntine allegrezza,

ond'hai ripiena la tua patria e 'l mondo;

compilatori e traduttori allocchi,

sciocchi autori e lettori ancor più sciocchi.

XXXV. Diva possente, e prima infra le dive,

deh! fra la turba de' tuoi parti immensa,

dimmi chi t'hai più caro, e chi più scrive

pesante e basso, e più stoltezze addensa,

chi più raglia, più mugghia, e più abortive

le idee sviluppa; in somma chi men pensa.

Ah veggo, o dea, che il tuo più dolce amore

del Giornal di Trevigi è l'estensore.

XXXVI. Mentre queto così verso la luna

il nostro buon Dionigi accortamente

prepara contro l'anglica fortuna

certa sua burla arcana ed innocente,

nel mondo sublunar, che pazzi aduna

d'assai maggiori, avviene altro accidente.

Carlo verso Orlean con passo ardito

a spiegate bandiere è già partito.

XXXVII. Al suo fianco Giovanna in vago elmetto

già di Remore gli certo il conquisto.

Quei giovani scudier, quel fiore eletto

di generosi paladini hai visto?

Come l'asta impugnàr! Con che rispetto

fan cerchio alla guerriera in un bel misto!

Tal si vede il buon sesso mascolino

servire in Fontevroldo al femminino.

XXXVIII. Ivi lo scettro del comando è messo

nelle mani di donna Beatrice,

e frate Anselmo prostrasi sommesso

a madama che grave il benedice.

Ma torniamo ad Agnese, onor del sesso,

che abbandonata, afflitta ed infelice,

più non veggendo l'amato che adora,

dassi in preda al dolor che la divora.

XXXIX. Fredda diviene e di sé stessa uscita:

Bonel, ch'è un'arca di ripieghi, a canto

le siede, e studia di tornarla in vita.

Apre i begli occhi la meschina alquanto,

quegli occhi che fan dolce al cor ferita,

ma gli apre solo per disciorgli in pianto;

e, a Bonello appoggiata, con languore

dice: – Dunque l'ha fatta il traditore!

XL. Che far pensa? ove corre? il giuro è questo

fattomi quando al suo desir piegommi?

ed io nel letto abbandonato e mesto,

tutta la notte, oh Dio, sola starommi?

sola senza il mio amante? E mentre io resto

qui deserta, al crudel che lusingommi,

quell'audace Giovanna il cor disvia,

non già nemica de' Breton, ma mia.

XLI. Il diavolo si porti ed il malanno

queste Marfise, che, soldati in gonne,

del sesso mascolin l'aria si dànno,

paladine donnacce: anzi di donne

altro non fan valere, altro non hanno....

quasi l'ho detta. E nondimenpuonne

il vano orgoglio, che onorar pretendono

l'un sesso e l'altro, e l'uno e l'altro offendono.

XLII. Sì dicendo, ella piange e si fa rossa,

freme di rabbia e di dolor sospira.

La gelosia le manda il gel per l'ossa,

e ne' suoi sguardi scintillar si mira.

Poscia repente, del furor riscossa,

nuova e bella un'astuzia Amor le ispira:

ratto verso Orleano in compagnia

della servente e di Bonel s'avvia.

XLIII. Non molto andò che giunse la donzella

ad un albergo, ove molto affannata

dal cavalcar l'intrepida Pulcella

per riposarsi alquanto è capitata.

Agnese, come ognun dorme, con bella

maniera si fa dir dove corcata

posa Giovanna, in suo valor sicura,

e dove messi i paggi han l'armatura.

XLIV. Pel bujo se ne va gatton gattone,

e nella stanza tacita si caccia.

Prende le brache di Sandò, vi pone

dentro le bianche cosce e se l'allaccia:

prende ancor di Giovanna il panzerone:

il bellicoso e duro usbergo impaccia,

pesta, ammacca la carne tenerella.

Bonel sostienle il braccio e la puntella.

XLV. Disse allora tra sé quella beltà:

Amor, di tutti i sensi miei signore,

la tremante mia man deh reggi, e fa'

ch'io duri al pondo di quest'armi, Amore,

onde senta di me qualche pietà

il crudo e caro di mie pene autore.

Una guerriera ei vuol: dunque si faccia

soldato Agnese; ei 'l vegga e se n' compiaccia.

XLVI. Mi conceda seguirlo e la mia testa

a sua difesa esporre; e se mai fia

che delle spade inglesi la tempesta

la sua vita minacci, ecco la mia.

Il nemico furor piombi su questa

beltà infelice, e per me salvo ei sia;

ch'egli viva felice, e ch'io gli muora

lieta in braccio e beata, se m'adora. –

XLVII. Mentr'ella così parla e in fretta in fretta

con paurosa ed inesperta mano

Bonel quell'armi indosso le rassetta,

il re Carlo tre miglia era lontano.

Agnese, dall'amor punta, e protetta

dalla notte che ancor ricopre il piano,

vuol subito in quell'ora, in quell'istante

correre in traccia dell'amato amante.

XLVIII. Sì vestita e dell'armi sotto il peso,

piagnendo e bestemmiando per l'angoscia,

cavalca rannicchiata, e tutto offeso

n'ha il deretano e livida la coscia;

Bonel, sovra un corsier normando asceso,

russa al suo fianco e dondola e si scoscia:

e Amor, che tutto per la bella teme,

veggendola partir, sospira e geme.

XLIX. Fatto alquanto cammino, Agnese sente

una gran pésta, che mettea paura,

di cavalli, e un rumor d'armi e di gente

che ognor più cresce per la selva oscura:

e un drappello d'armati ecco repente

vestiti a rosso, e per maggior sciagura

il drappel di Sandò. Tosto si fa

innanzi un d'essi e grida: – Chi va ? –

L. Come la bella questo grido intese,

con una grazia che ridir non puosse,

pensando al re, rispose: – Io sono Agnese:

viva la Francia e Amore! – e soffermosse.

A tai nomi, che il ciel giusto e cortese

d'eterno nodo unì, pronta si mosse

quella masnada e Agnese fe' captiva

col confidente, che a caval dormiva.

LI. L'uno e l'altro immediate alla tremenda

fiera presenza di Sandò vien tratto,

di Sandò che in suo cor (se la faccenda

ben mi ricordo) sacramento ha fatto

il ladro castigar, che nella tenda

brache e brando gli ha tolto di soppiatto:

e muso è ben da farlo, ché persona

di gran furia è il crudele e non ragiona.

LII. Era il momento in che dal ciglio casca

il dolce vel dei sonno che s'invola,

quando lieto l'augello in su la frasca

riprende il canto e l'arator consola:

si risveglia ogni fibra e par rinasca;

il piacer per le vene inonda e cola,

dal desir partorito, ed improvviso

ne dànno i sensi all'alma e al cor l'avviso.

LIII. Fu in quest'ora, o Sandò, che la tremante

bella Agnese s'offerse al tuo cospetto,

cento volte più bella e folgorante

del raggio mattutin quando è più schietto.

Che cor fu il tuo, Sandò, nel primo istante

che, scosso il sonno, ti vedesti al letto

comparir quelle luci, e su la vaghe

membra indossate le tue larghe braghe?

LIV. Di lascivo desir punto, divora

tutta con gli occhi una sì dolce dape,

e va fra' denti borbottando: – Or ora

riavrò le mie brache; – e in sé non cape:

l'ode Agnese e ne trema. Ei la rincora,

su la sponda del letto a sé la rape,

Giù, dicendo, mia bella prigioniera,

giù quest'armi, per voi gonna straniera. –

LV. Ed in queste parole la ghermisce

pien di speme e d'amor, te la scorazza,

te la diselma: Agnese si schermisce

con moltissima grazia, e s'imbarazza:

un amabil pudore colorisce

le belle gote intanto alla ragazza,

che, col pensiero al re, coll'alma in pace,

al suo gagliardo vincitor soggiace.

LVI. Ma il panciuto Bonel, che si destina

dall'inglese all'incarco illustre e degno

di primo ufficial della cucina,

tosto si mette all'onorato impegno.

«Primo inventor della salsiccia fina»

fama lo canta, e a questo raro ingegno,

Francia, tu déi d'anguilla le polpette

e con erbe d'odor le cotolette.

LVII. – Che fate, oimé, signor Sandò, che fate? –

con un dolce languor diceva Agnese.

– Oh cazzo, rispos'egli (e qui notate

che bestemmiar dée sempre un bravo inglese),

qualcun m'ha fatto oltraggio, e invendicate

lasciar non so le ricevute offese.

Sono mie queste brache, e prenderò

quel che mi spetta, ovunque il troverò.

LVIII. Dir questo e, nuda come Dio l'ha fatta,

stender la bella ond'ire al suo contento,

fu tutt'uno. Ei l'abbraccia e l'abburatta

sossopra su le piume a suo talento.

Ella smarrita e in lagrime disfatta:

– No no, dicea, no no, non vi consento. –

Mentre questi d'amor stanno alle prese,

fuori un fracasso orribile s'intese.

LIX. – All'armi, all'armi! – subito si grida:

chi piglia il brando, chi la targa imbraccia:

la tromba marzial che a morte sfida,

il segnal di battaglia, e i cori agghiaccia.

Destatasi, Giovanna invan la fida

sua maschile armatura, invan rintraccia

le brachesse, la maglia, ed il suo bello

elmetto con in cima un pennoncello.

LX. Senza punto pensar, d'uno scudiero,

come viengli alla man, prende veloce

il duro arnese, in groppa al suo somiero

monta d'un salto e grida ad alta voce:

– Venite a vendicar del franco impero

meco l'onore. – A quel grido feroce

la seguon cento cavalieri armati,

e dopo lor seicento e più soldati.

LXI. Fra' Capocchio in quel punto il bel paese

della Sciocchezza abbandonato avea,

e, cinto di vapori, al campo inglese

con un gran sacco indosso discendea;

sacco di belle asinerie che prese

da certi libri monacali avea.

Così imbastato, rabbuffato e stracco,

scosse, appena arrivato, il suo gran sacco.

LXII. Sugl'Inglesi lo scosse e versò tutto

sovr'essi il carco de' sudori suoi,

tesori d'ignoranza, il cui bel frutto,

o miei Francesi, abbonda anche tra voi.

Così del cocchio d'ebano costrutto

la tenebrosa dea spande su noi

papaveri, fantasmi e bizzarria,

e n'addormenta in seno alla follia.

 

 

NOTE AL CANTO TERZO

 

Ottava II, v. 6:

Nella famosa battaglia delle Dune, presso Dunkerque.

Ivi, v. 7-8:

Villardo, il Maresciallo di Villars; il Prence di Piemonte, Eugenio di Savoja. – A Malplaquet, presso Mons, nel 1709.

Ottava III, v. 7-8:

Pure nel 1709.

Ottava XIV, v. 7:

Il Paradiso degli sciocchi è il Limbo.

Ottava XVI, v. 5:

Capopiede, errore.

Ottava XVII, v. 1-4:

Il famoso sistema di Law, scozzese, che dal 1718 al 1728 rovinò in Francia tante fortune, avea lasciato dietro a sé delle tracce funeste, e li effetti ne duravano ancora nel 1730, che fu l'anno nel quale crediamo che l'Autore mettesse mano a questo poema.

Ottava XVIII, v. 1-2:

Dopo le Lettres Provinciales sono conosciuti abbastanza i casisti Escobar e Molina: questo Molina è chiamato nel testo suffisant per allusione alla grazia sufficiente e versatile, sopra cui egli aveva fondato un sistema assurdo, come quello de' suoi avversarii.

Ivi, v. 3:

Dolcino, Doucin.

Ivi, v. 6:

Letellier, gesuita, figlio di un procuratore di Vire nella bassa Normandia, confessore di Luigi XIV, autore della Bolla e di tutte le turbolenze che ne seguirono, esiliato durante la reggenza. Il padre Doucin era il suo primo ministro.

Ottava XXIII, v. 5-8:

L'Autore accenna ai miracoli attestati da migliaja di giansenisti; miracoli dei quali il Carré di Montgeron fece stampare una grossa raccolta che presentò al re Luigi XV.

Ottava XXVIII, v. 6-8:

Urbano Grandier, curato di Loudun, condannato al fuoco nel 1629, da una commissione del Consiglio, per aver messo il diavolo in corpo ad alcune religiose.

Ottava XXIX, v. 1-2:

Eleonora Galigai, donna d'alto grado, del séguito della regina Maria dei Medici e sua dama d'onore, moglie di Concino Concini, fiorentino, marchese d'Ancre, maresciallo di Francia, fu non solo decapitata alla Grève, nel 1617, ma altresì bruciata come strega, e tutti i suoi beni furori dati a' suoi nemici.

Ivi, v. 7-8:

Il parlamento, sotto Luigi XIII, proibì, pena la galera, che s'insegnasse altra dottrina che quella di Aristotile, e proibì l'emetico, ma senza condannare alla galera i medici né i malati. Essendo Luigi XIV guarito a Calais in virtù dell'emetico, il decreto del parlamento perdé molta della sua autorità.

Ottava XXX, v. 1:

Assai nota è la storia del gesuita Girard e della Cadière: il gesuita fu, come stregone, condannato al fuoco dalla metà del parlamento d'Aix, e assoluto dall'altra metà.

Ottava XXXVII, v. 7-8:

Fontevrauld è un borgo nell'Anjou, a tre leghe da Saumur, noto per un celebre convento di monache, eretto da Roberto d'Arbrissel (1047-1117). Dopo aver piantato i suoi tabernacoli nella foresta di Fontevrauld, egli percorse a pie' scalzi le province del regno, a fin d'esortare a penitenza le donne di mondo e di attirarle nel suo convento. Fece tra esse di gran conversioni; e indusse la celebre regina Bertrada a vestir l'abito delle suore di Fontevrauld, c stabilì il suo ordine in tutta la Francia. Il pontefice Pasquale II lo mise, nel 1006, sotto la protezione della Santa Sede. Roberto, qualche tempo avanti la sua morte, ne conferì il generalato a una dama chiamata Petronilla Du Chemille, e volle che una donna succedesse sempre a un'altra donna nella suprema dignità dell'ordine, stendendo la sua giurisdizione sui religiosi non meno che su le religiose.

Ottava LIX, v. 7:

Si costumava già di portare delle lunghe brache staccate dai calzoni; e spesso in fondo a queste brache tenevasi un arancio da regalarsi alle signore. Il Rabelais fa menzione d'un bel libro intitolato: De la dignité des braguettes. Erano esse privilegio e distintivo del sesso più nobile; e appunto perché la Pulcella aveva portato le brachesse, la Sorbona fe' istanza che fosse bruciata viva.


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