François-Marie Arouet de Voltaire
La pulcella d'Orléans

CANTO QUARTO

«»

Link alle concordanze:  Normali In evidenza

I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio

CANTO QUARTO

 

 

ARGOMENTO

 

Sotto le mura d'Orlean s'accende

cruda battaglia. Di valor vi fanno

Giovanni e Dunoè prove stupende;

poi còlti dalla notte errando vanno.

Strano caso li guida alle tremende

soglie d'Ermafrodito, ove il tiranno,

deluso in un desir poco discreto,

ad aver li condanna un palo dreto.

 

 

I. Esser giusto vorrei, se re foss'io,

far nella pace i sudditi felici,

e i giorni tutti dell'impero mio

contrassegnar di nuovi benefici.

Se fossi finanziere, altro desìo

non avrei, credo, che di farmi amici

i begli spirti e lor dar premii a josa;

ché i loro scritti alfin son qualche cosa.

II. Se arcivescovo poi fossi a Parigi,

porrei studio a far sì che il giansenista

non corrugasse il naso, né i barbigi

arruffasse al passar d'un molinista;

ma se i pensieri avessi d'amor ligi

per vaga giovinetta, allor la vista

un momento giammai da' suoi begli occhi

non leverei, perché non me l'accocchi.

III. Per la noja cacciar che nasce in noi

dai piaceri uniformi, una novella

festa ogni giorno le darei, che poi

farìa la schiva alle mie voglie ancella.

Se l'assenza è crudel ditelo voi,

felici amanti, e che costa una bella.

Si rischia, oimé, se non le state attorno,

d'ire a Corneto due, tre volte al giorno.

IV. Sulla sua preda appena un fuggitivo

piacer sfiorava il fier Sandò, che mosse,

strage facendo e d'ostil sangue un rivo,

Giovanna, e parve che tremuoto fosse.

Di Debora la lancia al primo arrivo

Dildo, alla Galliafatal, percosse,

Dildo che tolse l'oro di Chervaldo

e le suore stuprò di Fontebraldo.

V. Ambo gli occhi con esso un colpo strano

a Fonchinar cavò degno di forca.

Nato questo impudente nel villano

clima d'Ibernia, ognor di nebbia sporca,

già da tre anni sullo stil toscano

facea l'amore in Francia. Indi ella corca

morto per terra milordo Aliface

e il temerario suo cugin Borace,

VI. e Bartonaro che i fratei fe' becchi,

e Midarblù che il padre ha rinnegato,

e dopo tutti questi altri parecchi.

Dietro il suo esempio non v'ha franco armato

che dieci angli nell'asta non istecchi.

Morte li segue, e le chiome arruffato

li precorre il Terrore, e par che giugna

un dio tra lor che pugni in quella pugna.

VII. Fra quei di guerra orribili litigi

Fra' Capocchio gridava: – Ella è pulcella:

tremate, Angli, fuggite; è san Dionigi

che l'armi somministra alla donzella.

È pulcella, vi dico, e fa prodigi;

né voi scampo v'avete incontro ad ella.

Presto in ginocchio, merde d'Albione;

dimandate la sua benedizione. –

VIII. Il fier Talboddo a tal ragionamento

facendo per gran collera la bava,

fa prendere quel frate corpulento

quando meno il buon uom se l'aspettava.

Lo legano ben bene, ed ei contento

senza scomporsi a gridar seguitava:

– Io son martire, Inglesi; a me credete,

ella è pulcella e vincerà: vedrete. –

IX. L'uom che credulo è fatto da natura,

nel cor d'argilla a tutto ricetto;

ma par che la sorpresa e la paura

più pronto abbian l'accesso entro il suo petto.

Fe' il parlar di Capocchio per ventura

sovra il cor de' soldati assai più effetto

che il ferir dell'amazzone e de' suoi

compagni di prodezza arditi eroi.

X. Quel vecchio istinto che ne fa dar fede

ai prodigi, l'error che ne desvia,

il gelato timor che tutto crede,

féro a gli Angli girar la fantasia:

quella gente, che a nullo in ardir cede,

conoscea poco allor filosofia;

milordi assai gl'ingegni avean duri, irti:

non son che ai nostri tempi i begli spirti.

XI. Il gran Sandò con cuor sicuro: – Amici

di Francia domatori, iva gridando,

marciate a dritta: – e tosto gl'infelici

voltano a manca e fuggon bestemmiando.

Tal nel piano che l'onde irrigatrici

dell'Eufrate fecondano, allorquando

l'orgoglio uman la torre di Babelle

per alta bizzarria spinse alle stelle,

XII. non comportando Iddio cotal vicino,

fe' cento lingue d'una lingua sola.

Se qualcuno di lor chiedea del vino,

gli si portava il gesso o la cazzola;

ed invece di pane, il pentolino:

sì che tutti confusa la parola,

e beffati da Dio si separaro,

ed imperfetta l'opera lasciaro.

XIII. La fama di sì gran combattimento

d'Orlean vola all'assediate mura.

Vi vola a tiro d'ala e in un momento

di Giovanna vi conta la bravura.

Sapete che i Francesi un foco, un vento

son nell'armi e cuor vòti di paura:

son pazzi, che, d'onor pieni e di vaglia,

come alla danza vanno alla battaglia.

XIV. Già Dunoè, splendor d'ogni bastardo,

cui preso avrìa per Marte il tempo antico,

e Santriglia e Trimuglio ed il gagliardo

Riccamonte con altri ch'io non dico,

dalle porte si lancian come dardo,

cacciar credendo in fuga l'inimico,

e gridando con tutti i lor polmoni:

Dove son, dove son questi poltroni? –

XV. Né quei son lungi; ché Talbò, guerriero

di grandissimo cor, presso alle porte

contro l'impeto franco avea primiero

messa in agguato più d'una coorte.

Da più giorni giurato avea quel fiero,

e giurato d'un tuon solenne e forte

per san Giorgio ed Amor, che avrìa pie' posto

nelle assediate mura a tutto costo.

XVI. Diviso è in due. L'affezion che sente

per lui del buon Louvet l'alta mogliera,

lo sprona; ed ei, d'amor, di gloria ardente,

far sua la donna e la cittade spera.

Appena fatto avea la nostra gente

un cento passi, che la forte schiera

di Talbò le fu sopra alla sicura;

ma i Franchi non mostràr punto paura.

XVII. O campi d'Orlean, chiaro e ristretto

teatro della dura aspra battaglia,

il sangue di che foste orrido letto,

di cento verni v'ingrassò la paglia.

Mai la valle fatal di Malpiachetto,

mai di Zama l'arena o di Farsaglia,

per tante stragi al mondofamose,

vider prove più ardite e generose.

XVIII. Visto avreste le lance ai disperati

scontri spezzarsi in cento schegge e cento;

gli scudieri e i cavalli rovesciati

e ridrizzati in piedi in un momento;

foco i ferri gittar da ferri urtati,

e duplicar la luce e lo spavento,

e volar d'ogni parte e cader rasi

spalle, braccia, pie', gambe e menti e nasi.

XIX. Dal più puro de' cieli alto splendore

gli angeli della morte e della guerra,

il fier Michele e lo sterminatore,

che in man la pèste e la procella afferra,

e de' Persi il fatal flagellatore

inchinati tenean gli occhi alla terra,

riguardando attentissimi la rea

pugna ostinata, che terror mettea.

XX. Prese allora Michel la gran bilancia

in che de' mondi Iddio pesa il destino,

e i destini e gli eroi d'Anglia e di Francia

pesò con man sicura il serafino.

I cavalieri della franca lancia

pesati tutti a peso di zecchino

trovaronsi calanti, e di Talbò

con gran fracasso il fato traboccò.

XXI. Ma lassù così gli era stabilito.

Riccamonte alle chiappe in un istante

d'un colpo d'asta si trovò ferito;

Santriglia nella coscia, ed il galante

La Hiro in sito... ah, non vo' dir qual sito;

ben compiango la sua gentile amante.

Trimuglio, già cascato entro un fossaccio,

uscirne non poté che rotto un braccio.

XXII. Bisognò dunque alla città tornarsi

storpiati tutti quanti e porsi in letto.

Così puniti ei fur perché beffarsi

osàr di San Dionigi benedetto.

Come poi piace a Dio, da Dio suol darsi

giustizia e grazia. Già Chesnel l'ha detto,

né in ciò v'ha dubbio. Or Dio, che castigò

quei buffoni, il Bastardo eccettuò.

XXIII. Mentre tutti ritiransi in barella,

concio ognuno d'assai brutta ferita,

bestemmiando Giovanna e la sua stella,

Dunoè non ha sgraffio per la vita.

Urta gl'Inglesi a guisa di procella,

fracassa, apre le file, anima ardita,

e spinge, dove la Pulcella abbatte

ciò che incontra, e ognun volta le culatte.

XXIV. Quai due gonfi torrenti, dall'estreme

selvose cime dei monti cadendo,

de' villani terror, mescono insieme

l'onda e la furia con fracasso orrendo

e van de' campi a seppellir la speme,

tali, e con urto ancora più tremendo,

Giovanna e Dunoè nel forte entraro

della battaglia e combattean del paro.

XXV. E così bene adoperàr le mani,

bruscamente sgominàr gl'Inglesi,

che in breve dai compagni andàr lontani

finché gli ebbe la notte ambo sorpresi.

La buona coppia pei sanguigni piani

più non vedendo inglesifrancesi,

in fondo a un bosco del silenzio sede,

Viva Francia! – gridando, arresta il piede.

XXVI. Cercan la via di Cinzia al bel sereno;

vanno e vengono: cure indarno sparse:

alfin, di fame cascanti non meno

che i lor corsieri e stanchi d'aggirarse,

bestemmiano il destin, ché non avièno,

dopo aver vinto, un letto ove posarse.

Tale in balìa dell'onde erra e del vento

senza bussola e vela un bastimento.

XXVII. Ma ecco trapassar per la foresta,

venuto per salvarli, un cagnoletto

che s'accosta schiattisce e fa lor festa,

dimenando la coda, alto il musetto.

Precorre e volge ad or ad or la testa,

dir sembrando in suo muto dialetto:

– Qua qua, signor, il passo mio seguìte,

ché buona avrete l'osteria. Venite. –

XXVIII. Ebbero i nostri eroi tosto palese

ciò che il cane venìa significando,

e seguìr lieti l'animal cortese,

per la gloria di Francia Iddio pregando.

E l'un coll'altro su lor belle imprese

complimenti si fean di quando in quando.

Lascivo intanto e involontario il guardo

torceva alla Pulcella il buon Bastardo.

XXIX. Ma perché avea già noto il cavaliero

che il franco fato in quel giojel s'accoglie,

e che tutto e per sempre ito è l'impero,

se avanti un anno questo fior si coglie,

spegne i desiri con miglior pensiero,

preponendo la patria alle sue voglie:

la strada rotta e mal sicura intanto

fa spesso zoppicar l'asino santo.

XXX. Dunoè, tutto garbo, l'eroina

con la diritta in sella sostenea:

ella, stesa di dietro la mancina,

la man pudica dell'eroe stringea

facendogli l'occhietto, e sì vicina

questa bocca con quella si tenea,

che spesso si toccàr, desiderose

parlar più presso delle patrie cose.

XXXI. Già dire intesi che quel capo folle

del duodecimo Carlo, che l'amore

vinse e i monarchi, in corte non ti volle,

o Conismara, delle belle onore.

Carlo ebbe téma d'esser vinto: ei molle

sentì contro i tuoi vezzi il regal core,

e quindi gli evitò: ma d'amor tocco

tener Giovanna e non le fare il fiocco,

XXXII. aver fame e sedersi a tanto desco,

dente untar, vittoria è assai più bella.

Il nostro Dunoè, per san Francesco,

qui somiglia a Roberto d'Arbrisella,

a quel gran santo, che di carne fresco,

fra due suore dormìa dentro una cella,

e quattro tonde chiappe accarezzava

e quattro tette, né giammai peccava.

XXXIII. Sul far dell'alba alla presenza fùro

d'un palagio assai bello e smisurato.

Di bianchissimo marmo è tutto il muro:

sovra un dorico e lungo colonnato

posa un terrazzo di diaspro puro:

porcellana è il cancello, onde abbagliato

l'occhio v'è sì, che a' due guerrieri avviso

era proprio d'entrar nel paradiso.

XXXIV. Il cane abbaja, e venti e più trombette

si fan sentire, e quaranta staffieri

con trine d'oro e lucide brachette

vengono a offrir servigio ai cavalieri.

Cortese nel palazzo gl'intromette

una coppia di giovani scudieri,

e in bagni d'oro onestamente belle

li guidano per man più damigelle.

XXXV. Poi lavati asciugati ed a banchetto

regal serviti d'esquisite dapi,

fra lini di battista in aureo letto

fino alla sera la dormìr da papi.

Uopo è dir che il signor di sì bel tetto,

tetto ben degno di cesarei capi,

d'un genio era figliuol di quei superni

che son dell'aria abitatori eterni.

XXXVI. Di quei genii vo' dir che al nostro frale

incarnano talor la pellegrina

lor grandezza infinita. Or questo tale

folletto, la sottil carne divina

incorporando alla carne mortale

di certa suora Alì benedettina,

n'ebbe il signor Ermafrodito, al padre

similissimo figlio ed alla madre.

XXXVII. Era ancor mago di poter tremendo.

Or giusto il giorno che il figliuol compìa

il terzo lustro, il genitor, venendo

dalla lucida sua stella natìa,

Figlio, gli disse, io ti son padre e scendo

qui per vederti. Or tu parla, desìa,

forma vóti a tuo senno, e in un momento,

poiché lo posso, ti farò contento. –

XXXVIII. Il figliuol, ch'era nato salacissimo

e degno in tutto di sua bella origine,

– Ben sento, disse, che il mio seme è altissimo,

poiché in me d'ogni brama ho la tentigine.

Io dunque tutta in grado perfettissimo

satisfar del piacer vo' la prurigine.

Sazia di voluttà, padre, il cuor mio:

come femmina e maschio amar vogl'io.

XXXIX. Voglio la notte il sesso femminino,

e il mascolino in fin che il giorno dura. –

Cui l'incubo: – Sia tale il tuo destino. –

D'indi in poi la deforme creatura

tutto in pienezza il dritto pellegrino

si gioisce di sua doppia natura.

Tal fatto un altro in mente me ne pone

del confidente degli dèi Platone.

XI. Di limo eletto, ei dice, Iddio compose

i primi padri e li creò perfetti;

e perché in lor l'un sesso e l'altro pose

in egual modo, Andrògini fur detti.

Poi narra che ciascuno in tutte cose

a sé bastava ne' suoi doppi affetti.

Ma Ermafrodito aveva nel concubito

un vantaggio: il perché lo dico subito.

XLI. Dar diletto a sé stesso ella è una sorte

nulla affatto divina al mio parere;

meglio è il darlo al suo prossimo, e alle corte,

darselo in due gli è il massimo godere.

Lo chiamava la gente di sua corte

or Venere or Amore, e a più potere

gli cercava per tutto verginelle,

e gagliardi garzoni e vedovelle.

XLII. Ma che pro, se scordossi quel folletto

chiedere un dono di maggior sostanza,

un dono senza cui langue imperfetto

ogni piacere, un don che gli altri avanza:

quello di farsi amar? Dio benedetto,

per punirne l'estrema petulanza,

fe'brutto costui, che al paragone

Samuele Bernardi era un adone.

XLIII. Mai non fu da' suoi sguardi un cuor ferito:

dar magnifiche feste invan solea,

musiche e pranzi di gusto squisito;

madrigali talvolta anche scrivea.

Come poscia la notte a qualche ardito

l'orgoglio femminil sottomettea,

ed una qualche bella il ghermiva,

tutti allora i suoi vóti il ciel tradiva.

XLIV. Sprezzi, onte, villanie d'ogni maniera

riceve per amplessi, e invan ne freme:

sentir gli fea del ciel l'ira severa

che grandezza e piacer non vanno insieme.

– Che? (dicea) la più vile cameriera

lungo steso il suo vago al sen si preme,

la sua contessa ha ognor pronto un abate,

e nel convento la sua suora un frate;

XLV. ed io, ricco, sovran, genio di razza,

il solo mi son io infra i viventi

d'un ben privo in che tutto il mondo sguazza? –

Allor giurò per li quattro elementi

ogni garzon punire, ogni ragazza

che per lui freddi avrebbe i sentimenti,

e far strazio di tutti i cori ingrati,

massimamente poi degli spietati.

XLVI. Con grandezza regal qualunque arriva

lieto raccoglie; ed in Gerusalemme

de' Sabei la regina e la captiva

Talestri nelle persiche maremme

cotanta a lor beltà copia votiva

non videro giammai d'oro e di gemme,

quant'egli ne profónde a' suoi galanti,

donzelle, abati e cavalieri erranti.

XLVII. Ma se di core alcun ritroso e duro,

avaro gli si fea di compiacenza,

se resisteva alquanto, era sicuro

d'esser vivo impalato in sua presenza.

Madama Ermafrodito il già scuro,

quattro uscieri mandò con insistenza

una preghiera a far per suo riguardo

al nostro amabilissimo Bastardo.

XLVIII. La preghiera dicea che il paladino

verso la mezzanotte si degnasse

di madama passar nel mezzanino,

mentre Giovanna in compagnia cenasse

sovrana della mensa e del festino.

Il nostro Dunoè pregar non fasse,

e scende profumato al gabinetto

ove a cenar lo attende altro banchetto.

XLIX. Simil banchetto di lussuria ardente

die' Cleopatra al vincitor latino,

e a lui che, contro Augusto in mar perdente,

l'oblìo cercò del suo dolor nel vino.

Un tal ne vidi io pur superbamente

imbandirsi da un buon benedettino,

che, a' suoi grassi rival l'orgoglio emunto,

fu re chercuto di Clervaldo assunto.

L.diverso fumar vede il tranquillo

nevoso Olimpo degli dèi le cene,

se Omero ascolti e lui che d'asfodillo

in Ascra coronàr l'alme Camene,

quando in tazze di lucido berillo

il gran padre de' numi alle terrene

amanti, a Giuno ancor moleste e schive,

porge il nèttare eterno e le fa dive.

LI. Fumano i piatti sopra le divine

mense operate dalle care e belle

man di Talìa d'Aglaja e d'Eufrosine,

tutte d'amor compagne e sue sorelle.

Leggiadrissime dee, che le reine

son del bello, si sa; dee fra le stelle

nomate Grazie, cotanto storpiate

dai pedanti scrittor di nostra etate.

LII. Versano l'immortal dolce licore

Ebe e il fanciul, che, in Ida un rapito,

or diventa in segreto il rapitore.

Ma dove deviò l'estro smarrito?

Corso è in cielo a trovar al mio lettore

con che fasto madama Ermafrodito

col gran Bastardo la sua cena fece,

fra le nov'ore in punto e fra le diece.

LIII. Madama ha un carro d'ornamenti addosso,

di diamanti un diluvio in su la testa;

le braccia quadre, il collo rancio e grosso

son di perle e rubini una tempesta,

che la fan brutta, orrenda a più non posso.

Levan la mensa, ed ella a ciò che resta

affretta Dunoè, che, poveraccio,

la prima volta si sentì di ghiaccio.

LIV. Cortese essendo, almen di gentilezza

voluto avrìa pagar l'albergatrice;

e vista della vacca la bruttezza,

– Io n'avrò maggior gloria – fra sé dice.

Ma non l'ebbe per Dio, ch'ogni prodezza

può qualche volta aver fine infelice.

Benché delusa nella dolce brama,

pur n'ebbe alquanto di pietà madama.

LV. E paga in suo segreto e lusingata

dei grandi sforzi che il campion facea,

gli ebbe come per fatto valutata

l'onesta e buona intenzion che avea.

Diman l'opra verrà più fortunata;

soffrite, andate, mio signor, dicea:

fate sì che l'amor vinca il rispetto,

e pronto siate a servir meglio in letto. –

LVI. Già del giorno la bella alba foriera,

le rosee porte d'oriente aprìa:

lettor mio, ti sovvenga che quest'era

l'ora in che il sesso femminil sparìa

dal campo di madama, e la versiera

nel signor cavalier si convertìa:

così, cangiato ed arso di novella

fiamma, al letto volò della Pulcella.

LVII. Ne tira le cortine, e fra le tette

senza riguardo alcun ficca la mano;

le appicca un bacio inverecondo, e mette

in rischio il suo pudor, mostro villano.

Più s'agita, più brutte ha le basette.

Giovanna, accesa di furor cristiano,

col braccio tutto nervo a pugno chiuso,

forte gli affibbia uno sgrugnon sul muso.

LVIII. Tal ne' lieti miei campi una mirai

delle puledre mie sovra un pratello,

tigrata i peli inegualmente gai,

di pie' leggero e di garetto snello,

malamente cacciar con calci assai

dall'amorosa groppa un asinello,

che in quell'amplesso suo rozzo e sgarbato

ergea l'orecchie e si tenea beato.

LIX. Ma in ciò, mi scusi, fe' Giovanna errore,

che rispetto al padron dovea di casa.

Ben le parti pigliar vo' del padrone,

ché non è tal virtù dal mio cor rasa;

ma se talor la voglia d'un signore,

soprattutto d'un genio, è persuasa

di darci un bacio, non mi par stia bene

menar di schiaffi e rivoltar le rene.

LX. Era il figlio d'Alì brutto a non dire;

pur di coraggio non avea sì pazzo

visto mai donna, da pigliarsi ardire

di beffarlo fin dentro al suo palazzo.

Grida; e pronti al suo cenno ecco venire

guardie, paggi, lacchè tutti in un mazzo;

e gli conta un di lor che la Pulcella

non è poi tanto a Dunoè rubella.

LXI. Oh calunnia! oh di corte atro veleno,

maldicenza, bugie, serpi inumani,

schizzerete voi sempre il tòsco in seno

a gli amanti siccome ai cortigiani?

Per doppia onta il crudel d'ira ripieno

vuol subita vendetta; onde a quei cani

rivolto grida: – Cotestor pigliate,

di mia clemenza indegni, e gl'impalate. –

LXII. La canaglia obbedisce, e in un momento

del rio supplizio gli apparecchi ammanna.

Ed ecco la speranza e l'ornamento

della lor patria, Dunoè e Giovanna,

irne a morir per strano avvenimento

degli anni sull'april! Sorte tiranna!

Legan nudo il Bastardo onde a sedere

metterlo con un palo entro il messere.

LXIII. E nel medesmo punto ecco dai zaffi

la fiera donna a un altro palo addutta,

ove di morte orribile i suoi schiaffi

verran puniti e sua beltà distrutta.

Con man profane e unghiate come raffi

le tolgon la camicia, e nuda tutta

vien frustata in passando e flagellata,

finché ai crudeli impalator l'han data.

LXIV. Alla lor furia in preda con intera

rassegnazion la morte iva aspettando

il buon Bastardo, e con umil preghiera

Miserere mei Deus va masticando.

Ma con occhiata imperiosa e fiera

quei ribaldi atterrìa di quando in quando,

e il tremendo girar di sue pupille

dicea palesamente: – Eccomi Achille. –

LXV. Ma come l'eroina ebbe pur vista

vendicatrice del gran giglio aurato,

preparata a subir mortetrista,

l'incostanza e il rigor piange del fato.

Guarda le belle membra e si contrista,

poi di morte riguarda l'apparato,

e di nobile pianto inonda i rai,

di pianto che per sé non versò mai.

LXVI. La pietade mescendo alla fierezza,

Giovanna che non sa che sia terrore,

il Bastardo guatò con languidezza;

sospirò per lui solo in suo gran core.

La lor nuda beltà, la giovinezza

a lor dispetto gli accendea d'amore;

beldolcegentil desire

non li tradì che in punto di morire.

LXVII. L'anfibio intanto aligero animale,

giunta al vecchio rancor la gelosia,

con orrendo ragliar dava il segnale

alla ciurma che ancor non si spedìa

d'impalar quella coppia disleale;

ma in quel punto una voce che atterrìa,

pari a tuon che da nube si disserra,

fe' d'intorno tremar l'aria e la terra.

LXVIII. Grida la voce orribile: – Fermate,

non mettete a costor quel palo dietro;

fermatevi, per Dio, non impalate. –

A questo grido i littor dànno indietro:

guardano e miran sulla porta un frate

incappucciato, smisurato e tetro,

cinto le reni d'un grosso cordone,

e conobbero il padre Grisbordone.

LXIX. Qual veltro di gentil nare sicura

ch'entro il bosco vicin nell'odorato

ha ricevuta la sottil pastura

che un capriol da lungi ha tramandato,

lieve lo insegue per la macchia oscura

senza vederlo e dall'odor guidato;

salta fossi e boscaglie e via s'inselva

non disviato d'alcun'altra belva;

LXX. tal di santo Francesco il forte figlio

sul dorso al suo balordo mulattiero,

sempre correndo e fermo in suo consiglio,

della Pulcella avea trito il sentiero.

In arrivando, con feroce piglio

grida: – Seme d'Alì, per lo severo

fiume di Stige, pel dimon tuo padre,

pel salterio di suora Alì tua madre,

LXXI. pel nostro sire Belzebù, la testa

salva a costei che de' miei vóti è segno.

Guardami, io son che prego, io che la festa

per due senza ribasso a pagar vegno.

Se questo ingrato cavalier, se questa

donzella meritato hanno il tuo sdegno,

io sconterò per lor la tua ragione.

Tu sai qual è la mia riputazione.

LXXII. Questo raro mio mulo inoltre vedi

di portarmi ben degno: io lo ti dono.

Egli è il tuo caso, e tu dirai, mel credi,

che frate e mul sola una cosa ei sono.

Licenzia questi sgherri, e mi concedi

sciolta Giovanna, ché il contratto è buono.

Costei che il cor ne tolse ad ambeduo,

danne in mercede, ed il guadagno è tuo. –

LXXIII. Alle infami parole inorridita

fremea Giovanna. Del suo cor l'altezza,

la sua verginitàcustodita,

l'onor suo, la sua fe' cui tanto apprezza,

le stavano sul cuor più che la vita;

e la grazia di Dio, che ogn'alma spezza,

sommo dono del ciel, nel suo pensiere

facea lo stesso Dunoè tacere.

LXXIV. Col ciglio in pianto, con la mente al cielo,

dei nudi fianchi vergognando e muta,

delle lagrime sue fa a gli occhi un velo:

nulla vede, né crede esser veduta.

Dunoè disperato, arso di zelo,

– E che? – (dicea) quest'anima perduta,

questa forca sfratata nella ragna

avrà Giovanna, e fia che Francia piagna?

LXXV. Questo mago l'avrà, mentr'io modesto

e discreto il mio amor chiuso tenea? –

Mentre parla, del frate il prego onesto

del genio i cinque sensi e il cuor movea.

S'ammollì, parve pago, e – Al fin di questo

giorno statevi pronti, egli dicea;

pronto il tuo mulo e tu. Cedo, perdóno

a questi due francesi, e vostri sono. –

LXXVI. Possedea quel frataccio il pastorale

di Giacobbe e l'anel di Salomone

e il suo sterno e la verga spiritale

d'un mago consiglier di Faraone:

avea la scopa ancor sopra la quale

di Saulle la strega a cavalcione

presentossi, allorquando al malaccorto

veder fece in Endòr l'ombra d'un morto.

LXXVII. Grisbordon, che d'incanto anch'esso è mastro,

fa un cerchio in terra e poca polve prende;

al mulo sprizza il culo, ed al grand'astro

vòlto, borbotta le parole orrende,

le parole cioè che Zoroastro

ai suoi Persi insegnava: alle tremende

voci, con lingua di demonio lette,

rizzossi il mulo su due piedi e stette.

LXXVIII. Oh mirando poter! Corta si feo

la giubba e tondo il suo bislungo muso;

l'unghia in cinque si fesse e si perdeo

l'orecchio sotto la berretta chiuso.

Così quel grande imperator caldeo,

di cui l'orgoglio fu da Dio confuso,

stato sett'anni bue, d'erba nudrito

uom rivenne, ma nulla convertito.

LXXIX. Dall'azzurro del ciel mirando stava

Dionigi intanto con paterni rai

di Giovanna il rio caso, e divisava,

desideroso di finirla omai,

di piombar costaggiù. Ma si trovava

egli medesmo in imbarazzo assai,

imperocché s'avea tirato addosso

nel suo viaggio un affar grande e grosso.

LXXX. San Giorgio suo rival, che in paradiso

è il divo protettor dell'Inghilterra,

ai santi si dolea che all'improvviso

fosse disceso san Dionigi in terra,

e che senza permesso e senza avviso

già vi facesse ai suoi Breton la guerra.

Di parlar in parlar ruppero tutte

convenienze e vennero alle brutte.

LXXXI. Suole aver, benché santo, un santo inglese

nel carattere proprio un non so che

d'isolano e di fier: del suo paese

ognun tien sempre qualche cosa in sé.

Il paradiso invan ne fa le spese,

e tutto che riluce oro non è,

né il rozzo accento di provincia addutto

alla corte, neppur s'oblia del tutto.

LXXXII. Ma gli è tempo, lettor, dar posa al canto;

far m'è d'uopo un assai lungo viaggio.

La lena manca, e il fine di cotanto

affar distintamente a contar aggio;

dir come il nodo sviluppossi, e quanto

di Giovanna operò l'alto coraggio,

tutto insomma che accadde in questa guerra

nell'inferno, nel cielo e sulla terra.

 

 

NOTE AL CANTO QUARTO

 

Ottava XVII, v. 5:

Si videro nella battaglia di Malplaquet ventottomila settecento uomini stesi non già, come dice uno storico, su la terra, ma nel fango e nel sangue; tanti almeno ne furon contati dal Marchese di Crèvecoeur, ajutante di campo del Maresciallo di Villars, incaricato di far seppellire i morti. (V. il Secolo di Luigi XIV, anno 1709).

Ottava XIX, v. 5:

Sembra che il nostro autore dia il nome di Persiani ai soldati di Sennacherib (ch'erano assiri), perché i Persiani dominarono per lungo tempo l'Assiria: quel che è certo, si è che l'Angiolo del Signore levò dal mondo egli solo centottantacinquemila soldati dell'esercito di Sennacherib, il quale era tanto insolente da marciare contro a Gerusalemme.

Ottava XXII, v. 6:

Allusione alle opinioni manifestate nelle opere del Quesnel, prete dell'Oratorio.

Ottava XXXI, v. 4:

Aurora Konismare, amica del re di Polonia Augusto, e madre del celebre conte di Sassonia.

Ottava XXXII, v. 3-4:

Roberto d'Arbrissel, fondatore del bell'ordine di Fontevrauld. Egli convertì, nel 1100, tutte in un colpo, con un solo sermone, quante donne di partito erano nella città di Rouen. Si condannò poi a un nuovo genere di martirio, e questo fu di giacere tutte le sante notti fra due giovani religiose a fin d'ingannare il diavolo, che verosimilmente non si stette dal rendergli la pariglia. Pare che non gli garbasse la legge salica, perocch'e' volle che una donna fosse abate generale dei frati e delle monache dell'ordine.

Ottava XXXIX, v. 8:

Secondo Platone, l'uomo fu creato con ambedue i sessi. In questa forma Adamo si fece vedere alla devota Bourignon e al suo direttore spirituale Abbadie.

Ottava XLII, v. 8:

Samuele Bernard era un uomo ridicolo per la sua vanità. Non c'era cosa che, adulandolo, non si ottenesse da lui. Durante la guerra di successione, richiesto dal Desmaret di un imprestito, rispose con un bel no. Fattolo allora chiamare a Marly, Luigi XIV ordinò che gliene facessero vedere tutte le bellezze; e condotto in parte dove il re sarebbe passato, questi gli rivolse qualche parola. Il dopo pranzo disse al Desmaret: – Signore, quand'anco io dovessi perdere ogni cosa, dite pure al re che quanto io posseggo, è tutto a sua disposizione.

Ottava LXXVIII, v. 5:

Nebucadnetzar, o Nabucodonosor.

Ottava LXXX, v. 1-2:

Si badi di non confondere Giorgio, patrono d'Inghilterra, e cavaliere dell'ordine della Giarrettiera, con un san Giorgio frate, stato ucciso per aver sollevato il popolo contro l'imperatore Zenone. Il nostro san Giorgio è quello di Cappadocia, colonnello al servizio di Diocleziano, martirizzato, dicesi, in Persia, in una città nominata Diospoli.


«»

Best viewed with any browser at 800x600 or 768x1024 on Tablet PC
IntraText® (VA1) - Some rights reserved by EuloTech SRL - 1996-2009. Content in this page is licensed under a Creative Commons License