François-Marie Arouet de Voltaire
La pulcella d'Orléans

CANTO QUINTO

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CANTO QUINTO

 

 

ARGOMENTO.

 

Giusto di Dio giudizio al cupo inferno

il reverendo Grisbordon condanna,

perché sfiorar tentò con onta e scherno

il pulcellaggio della gran Giovanna.

Ivi cotto egli trova a foco eterno

tal che il mondo ha per santo, e assai s'inganna.

Del suo strano morir conta la guisa,

e i diavoli crepar fa dalle risa.

 

 

I. Cari amici, viviamo da cristiani:

questo, crediate a me, questo è il partito

a cui uopo è recarci. Co' profani

son visso anch'io nel bel tempo fiorito:

sempre in tresca ed in frega come cani;

mai ne' luoghi ove Cristo è riverito;

balli, cene, baldracche a tutte l'ore,

burlandoci de' servi del Signore.

II. Ma che succede? Oimé! Morte fatale,

col suo naso schiacciato e col falcione,

a visitar se n' viene al capezzale

questi buffoni senza religione.

La febbre ardente con passo ineguale

dell'inferno ond'è nata, apre il portone,

mettendo lo scompiglio in sul più bello

ne' lor miseri capi, e addio cervello.

III. Una guardia e un notajo accanto al letto

vengono a dirgli: Andiam, uopo è partire.

Ove bramate, signor mio diletto,

che il beccamorto v'abbia a seppellire?

Un pentimento allor tardo, imperfetto

s'ode dai labbri moribondi uscire;

l'un chiama san Martino a fior di bocca,

questi ha san Rocco, e quei santa Mitocca.

IV. Si raglian salmi in barbaro latino,

si mena l'aspersorio, e tutto invano.

Appiè del letto l'infernal mastino

ringhia, digrigna i denti in modo strano;

poi, come prende l'alma il suo cammino,

nel passar te l'acchiappa l'inumano,

e te la porta in fondo dell'inferno,

degno albergo degli empii in sempiterno.

V. Tempo è, lettor, di dir che Satanasso,

l'imperador della gente perduta,

diede un giorno una festa di gran chiasso,

una festa laggiù non più veduta.

Casa Pluto per gioja era in fracasso;

di dannati avea fatto ampia recluta,

e all'arrivo degli ospiti novelli

votavano i demonii orci e tinelli.

VI. Eravi un papa, un cardinal gran bue,

un re del norte, dodici curati,

quattordici canonici con due

consiglier, tre intendenti e venti frati,

tutti di fresco giunti di quassue

ed all'eterne brage condannati.

Il re cornuto della mandra nera

da' Pari fa ridente céra.

VII. Mentre ciascun del nèttare possente

d'inferno s'imbriaca e gozzoviglia,

gorgheggiando e stroppiando allegramente

canzonette che uscian dalla bottiglia,

ecco alla porta un gran rumor si sente,

un tumulto, un gridar per meraviglia:

– Ben venuto! voi qui? siete voi stesso?

Sissignori, correte; è desso, è desso!

VIII. Egli è il grande emissario, il nostro caro

fedelissimo amico Grisbordone.

Entrate, fate largo, entrate, o caro,

scaldatevi qui, padre Grisbordone. –

E qui amplessi a diluvio, e tutti: – O caro,

o carissimo padre Grisbordone,

il dottor di Lucifero, il papasso

dell'inferno, il figliuol di Satanasso! –

IX. Così gridando, ognun gli di piglio,

lo baciucchia, lo gongola, lo pesta,

e sel porta in un battere di ciglio

sempre baciato al luogo della festa.

Satana s'alza e dice: – Inclito figlio

del diavolo, mia gloria manifesta,

l'ornamento, la perla, il fior più bello

dei campioni da tresca e da bordello,

X. non isperava io certo, o mio vicario,

sì presto riveder la tua sembianza.

Fra' mortali tu mi eri necessario,

onde ben popolar la nostra stanza;

per te la Francia n'era un seminario:

or perdo nel vederti ogni speranza;

ma fatta sia la volontà del fato:

bevi, amico, e mi siedi al destro lato. –

XI. Pieno di santo orrore il francescano

s'inginocchia e gli bacia lo sperone.

Poi s'alza e tristo il guardo invia lontano

in quella vasta accesa regione,

di delitti e di pene ampio oceàno,

spaventosa di morte atra prigione,

eterna reggia dello spirto brutto,

immenso abisso che inghiottisce il tutto;

XII. tomba alfine in cui giace seppellita

la veneranda e dotta antichitate,

e con essa l'amor che al tutto è vita,

il sapere la grazia e la beltate,

e quella turba d'anime infinita

figlie del ciel pel diavolo create.

Tu sai, lettor, che in quell'ardente foco

i re migliori co' tiranni han loco.

XIII. Sai che la Chiesa all'infernal rovello

mette Antonino e Tito, amor del mondo,

e Trajano, de' prìncipi modello,

con Marco Aurelio di saper profondo,

e parimente i due Caton, flagello

di qualunque è malvagio, e il verecondo

Scipione, che, signor del proprio core,

di Cartago e d'amor fu vincitore.

XIV. Voi pur vi state ad arrostir laggiù,

sapiente Platon, divino Omero,

e tu, facondo Cicerone, e tu,

Socrate, figlio dell'eterno vero

e martire di Dio della virtù

nella Grecia profana, e tu, severo

giusto Aristide, e tu, probo Solone,

morti, oimé, tutti senza confessione.

XV. Ma ciò che Grisbordon fe' più stupire,

fu il veder nella caldaja orrenda

certi santoni e certi re bollire

di cui s'orna la storia e la leggenda.

Fra i primi che poté l'occhio scoprire,

fu del re Clodoveo la reverenda

faccia. A tal nome io veggio il lettor mio

esclamar stupefatto: – Poffar Dio!

XVI. Come può star che un regrande e buono,

che a' suoi soggetti con accorto avviso

aprir sicuro un seppe dal trono

il cammino del santo paradiso,

alla salvezza di che a noi fe' dono,

aver poi debba ogni sentier preciso?

Chi crederìa che un primo re cristiano

sia dannato laggiù come un pagano? –

XVII. Ma ricordarsi debbe il mio lettore

ch'esser dall'acqua salutar lavato

non basta mica, se corrotto è il core:

or questo Clodoveo, tutto impastato

di peccati e di vizi, era un umore

sanguinario, bisbetico e spietato,

san Remigio avea ranno e sapone

pel bucato d'un re così briccone.

XVIII. Fra color che del mondo ebber domìno,

chiuso in quel bujo con eterna offesa

scorgevasi il famoso Costantino.

– E fia ver? (grida il frate con sorpresa)

oh rigida giustizia, oh rio destino!

che? l'eroe fondator di santa Chiesa,

l'eroe ch'espulse i falsi dèi dal mondo,

è piombato con essi in questo fondo? –

XIX. Allor dolente in cotai detti amari

proruppe Costantin: – Di Giove e Delo

il culto io spensi e su' lor santi altari

fui prodigo d'incenso al Dio del cielo;

ma me guardai, non esso, e a' miei preclari

fatti fu spron l'orgoglio e non lo zelo:

gli altar, che santi a tutti gli occhi sono,

a me non fùro che sgabello al trono.

XX. Ambizion, lussuria, ira, mollezza

eran miei numi e avean miei vóti a gara.

L'oro, il sangue, gl'intrighi e la scaltrezza

de' cristiani e la lor sete avara

fondàr la mia fortuna e la grandezza,

questa real grandezza un cara:

fu per lei che con perfida ferita

sino al suocero mio tolsi la vita.

XXI. Vil, crudel, sospettoso e ne' più rei

piacer sepolto e nel sangue e nel vino,

ebbro d'amor, di gelosia, mi fei

della sposa e del figlio l'assassino.

Stupir più dunque, o Grisbordon, non déi

se dannato con te è Costantino:

venti re, come lui divini a Roma,

qui bruciata per sempre avran la chioma. –

XXII. Va innanzi il frate, e in quei lugùbri ardori

vede ognor cose arcane e ognor più belle;

predicator, casisti, monsignori,

monaci d'ogni lingua e monachelle,

e di tutte le corti i confessori

coi direttori delle nostre belle,

tutta gente chiercuta e ben nudrita,

ch'ebbe il suo paradiso in questa vita.

XXIII. Ecco vede nel fondo d'una cella

un fraton mezzo bianco e mezzo nero,

col crin ritondo a foggia di scodella

e una faccia crudel da masnadiero.

Attentamente rimirando in quella

bestia pezzata di sembiante fiero,

ride un riso maligno il francescano,

e disse dentro sé: – Questi è Gusmano. –

XXIV. Indi grida: – Chi sei? – L'ombra, siccome

un egro che patisca il morbo splenico,

la man ponendo sulle rase chiome,

rispose: – Ah! figlio, io sono san Domenico! –

A queste voci, a questo augusto nome

Grisbordon sbalordito, in atto scenico

cinque o sei passi rincular si vede;

fassi il segno di croce e appena il crede.

XXV. – Come? poscia ripiglia: voi, quell'arca

di santità, dottor così eminente,

promotor della fede e patriarca,

voi che a Dio convertiste tanta gente,

voi quaggiù come un empio eresiarca!

or qui certo la grazia è deficiente.

Povero mondo, povera virtù!

come sei corbellata colassù

XXVI. Or andate a cantar le litanie

di tutti i santi a suon di campanello! –

Disse: e a lui con parole afflitte e pie

replicò lo Spagnol bianco e morello:

– Non badiam de' mortali alle follie;

che n'importa, se perso hanno il cervello?

che giova andar di santificati,

se qui siamo arrostiti e sconsacrati?

XXVII. Tal che in inferno scaldasi la zampa,

lassù ha cappella e va privilegiato,

e tal che il papa ha messo in questa vampa,

si gode su nel ciel salvo e beato.

Quanto a me, l'opre mie fur della stampa

d'un gran furfante, e, se qui son dannato,

a dirla schietta, mi sta ben, ché offesi

crudelmente quei poveri Albigesi.

XXVIII. Mandato venni a edificarli, ed io

senza pietà gli strussi e ne fui boja;

arrostir feci gl'innocenti, e or Dio

fa qui arrostir del pari a me le cuoia. –

Una lingua di ferro, o lettor mio,

sempre parlante non potrìa la loja

dei santoni ridir che ad ogni passo

si riscontrano a casa Satanasso.

XXIX. Quando al prode figliol di san Francesco

tutti ebbe fatti quella cólta gente

gli onori dell'albergo diavolesco,

tutti quanti gridàr concordemente:

Conta, conta, perdio, chi fresco fresco

t'ha qui condotto, o Grisbordon valente;

narrane per qual caso impreveduto

il tuo feroce spirto è qui venuto. –

XXX. – Volontieri, diss'egli: eccomi qua

a contarvi la mia strana ventura;

vi prevengo che questa vi parrà

da principio, o signori, un'impostura;

ma impostor non son io; mentir non sa

chi deposta ha la carne in sepoltura.

Era lassù, il sapete, in missione

per l'onor vostro insieme e del cordone.

XXXI. La più galante impresa io consumava,

che mai fatt'abbia alcun fratesco ingegno.

Il mio buon mulattier che bestia brava!

che pezzo d'uomo! che rival condegno!

Saldo nel suo dover già sorpassava

d'Ermafrodito i vóti oltre ogni segno,

e avea col mostro femminino anch'io

fatto, non fo per dir, l'obbligo mio.

XXXII. Pago costui del nostro alto coraggio,

Giovanna ne lasciò secondo il patto;

questa Giovanna alfin, questo selvaggio

ribelle topo è nelle branche al gatto.

Già si sfiora il famoso pulcellaggio;

si dibatte la schiva, io la dibatto,

il mulattier la tiene a pancia in su,

e il folletto ne ride che non più.

XXXIII. Ma credereste or voi quel che v'ho a dire?

L'aria si fende, e dall'empiro, a cui

non potremo, miei cari, unqua salire

(e sapete il perché) né io né vui,

oh funesto portento! ecco venire

l'orecchiuto animal che i fatti sui

disse a Balamo un quando Balamo

andò per maledire il Dio d'Abramo.

XXXIV. Terribile somaro! In dosso avea

di velluto una sella, e dai lucenti

aurei staffili dell'arcion pendea

una gran scimitarra a due taglienti:

ogni spalla una grande ala movea

con che volava e superava i vènti.

Grida Giovanna allor: – Beato Iddio,

che mi manda dal ciel l'asino mio! –

XXXV. Mi gelò quel parlar. L'asin tremendo

tosto le quattro sue ginocchia abbassa

dinanzi a Dunoè, quasi dicendo:

Monta! – ed alza la testa e il codon squassa.

Dunoè monta, e l'animal, prendendo

sui nostri capi il vol, passa e ripassa,

e dall'alto col ferro il cavaliero

piomba su me meschin come sparviero.

XXXVI. Caro Satana mio, quando tu festi,

se la storia è fedel, guerra al Signore,

guerra senza giudizio, e non temesti

punto de' tuoni suoi l'alto fragore,

così tu pure, o mio gran re, vedesti

l'arcangelo del ciel vendicatore

piombarti addosso e col brando pulito

tagliarti a suon di busse il pan pentito.

XXXVII. La mia vita a salvar dunque costretto

corsi a gl'incanti dell'usato stile;

il nero sopracciglio e il duro aspetto

tosto lasciai di francescan virile;

presi i modi, l'andar, le chiome, il petto

di fresca donzelletta: un vel sottile

come d'Aracne l'ondeggiante bava,

mostrava un sen nascente e nol mostrava.

XXXVIII. Tutta l'arte che donna usar mai sa,

tutta m'ebbi: un guardar di verginetta,

con quella natural semplicità

che sempre inganna, sempre i cuori alletta;

una cert'aria poi di voluttà

che farìa di Zenon pazza la setta:

un sasso, un orso insomma avrei conquiso,

perché scaltri eran gli atti e bello il viso.

XXXIX. Vinto infatti ne parve il paladino.

A ghermirmi la morte era già presta;

il terribile brando damaschino

l'invitto eroe già m'alza sulla testa,

già il colpo è a mezzo, e Grisbordon meschino

dicea fra sé: – Finita ecco la festa! –

quando, nel punto di darmi il mio spaccio,

mi guarda, si commove e ferma il braccio.

XL. Impietrava Medusa i riguardanti,

nel guerriero fec'io diverso effetto;

intenerito dalle man tremanti,

lasciò cader la spada il poveretto,

che, nell'alma confuso e nei sembianti,

d'amor tremava a un tempo e di rispetto.

Chi vincitor creduto non m'avrìa?

ma il peggio udite dell'istoria mia.

XLI. Il mulattier, che il bel corpo virile

a sé tratto tenea della Pulcella,

vedendomivaga e sì gentile,

di pronta si scaldò fiamma novella.

Io non credea che fosse, oimé, quel vile

capace di bramar cosa sì bella.

Incostante un villano? Eppure, o dèi,

lasciò Giovanna e mi preferse a lei.

XLII. Mi preferse a Giovanna; oh mia funesta

beltà! Ma sciolta si vid'ella a pena,

che la spada impugnò con la man presta,

a Dunoè caduta in sulla rena.

Mentre l'infido mulattier s'appresta

a farmi villania, dietro la schiena

con un colpo rovescio la superba

la testa mi tagliò come un fil d'erba.

XLIII. D'indi in poi più novelle di nessuno,

né di Giovanna, né di quel malnato

mulattier, né degli altri, che ciascuno

cento volte poss'essere impalato;

possa il cielo spedirli ad uno ad uno

per mio piacer de' diavoli al mercato. –

Così sdegnoso Grisbordon parlava,

e l'inferno dal ridere crepava.

 

 

NOTE AL CANTO QUINTO

 

Ottava XXIII, v. 8:

Gusmano, domenicano: seguace di san Domenico di Guzman.


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