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I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio
il reverendo Grisbordon condanna,
perché sfiorar tentò con onta e scherno
il pulcellaggio della gran Giovanna.
Ivi cotto egli trova a foco eterno
tal che il mondo ha per santo, e assai s'inganna.
Del suo strano morir conta la guisa,
e i diavoli crepar fa dalle risa.
I. Cari amici, viviamo da cristiani:
questo, crediate a me, questo è il partito
a cui uopo è recarci. Co' profani
son visso anch'io nel bel tempo fiorito:
sempre in tresca ed in frega come cani;
mai ne' luoghi ove Cristo è riverito;
balli, cene, baldracche a tutte l'ore,
burlandoci de' servi del Signore.
II. Ma che succede? Oimé! Morte fatale,
col suo naso schiacciato e col falcione,
a visitar se n' viene al capezzale
questi buffoni senza religione.
La febbre ardente con passo ineguale
dell'inferno ond'è nata, apre il portone,
mettendo lo scompiglio in sul più bello
ne' lor miseri capi, e addio cervello.
III. Una guardia e un notajo accanto al letto
vengono a dirgli: Andiam, uopo è partire.
Ove bramate, signor mio diletto,
che il beccamorto v'abbia a seppellire?
Un pentimento allor tardo, imperfetto
s'ode dai labbri moribondi uscire;
l'un chiama san Martino a fior di bocca,
questi ha san Rocco, e quei santa Mitocca.
IV. Si raglian salmi in barbaro latino,
si mena l'aspersorio, e tutto invano.
Appiè del letto l'infernal mastino
ringhia, digrigna i denti in modo strano;
poi, come prende l'alma il suo cammino,
nel passar te l'acchiappa l'inumano,
e te la porta in fondo dell'inferno,
degno albergo degli empii in sempiterno.
V. Tempo è, lettor, di dir che Satanasso,
l'imperador della gente perduta,
diede un giorno una festa di gran chiasso,
una festa laggiù non più veduta.
Casa Pluto per gioja era in fracasso;
di dannati avea fatto ampia recluta,
e all'arrivo degli ospiti novelli
votavano i demonii orci e tinelli.
VI. Eravi un papa, un cardinal gran bue,
un re del norte, dodici curati,
quattordici canonici con due
consiglier, tre intendenti e venti frati,
tutti di fresco giunti di quassue
ed all'eterne brage condannati.
Il re cornuto della mandra nera
cinto da' Pari fa ridente céra.
VII. Mentre ciascun del nèttare possente
d'inferno s'imbriaca e gozzoviglia,
gorgheggiando e stroppiando allegramente
canzonette che uscian dalla bottiglia,
ecco alla porta un gran rumor si sente,
un tumulto, un gridar per meraviglia:
– Ben venuto! voi qui? siete voi stesso?
Sissignori, correte; è desso, è desso!
VIII. Egli è il grande emissario, il nostro caro
fedelissimo amico Grisbordone.
Entrate, fate largo, entrate, o caro,
scaldatevi qui, padre Grisbordone. –
E qui amplessi a diluvio, e tutti: – O caro,
o carissimo padre Grisbordone,
il dottor di Lucifero, il papasso
dell'inferno, il figliuol di Satanasso! –
IX. Così gridando, ognun gli dà di piglio,
lo baciucchia, lo gongola, lo pesta,
e sel porta in un battere di ciglio
sempre baciato al luogo della festa.
Satana s'alza e dice: – Inclito figlio
del diavolo, mia gloria manifesta,
l'ornamento, la perla, il fior più bello
dei campioni da tresca e da bordello,
X. non isperava io certo, o mio vicario,
sì presto riveder la tua sembianza.
Fra' mortali tu mi eri necessario,
onde ben popolar la nostra stanza;
per te la Francia n'era un seminario:
or perdo nel vederti ogni speranza;
ma fatta sia la volontà del fato:
bevi, amico, e mi siedi al destro lato. –
XI. Pieno di santo orrore il francescano
s'inginocchia e gli bacia lo sperone.
Poi s'alza e tristo il guardo invia lontano
in quella vasta accesa regione,
di delitti e di pene ampio oceàno,
spaventosa di morte atra prigione,
eterna reggia dello spirto brutto,
immenso abisso che inghiottisce il tutto;
XII. tomba alfine in cui giace seppellita
la veneranda e dotta antichitate,
e con essa l'amor che al tutto è vita,
il sapere la grazia e la beltate,
e quella turba d'anime infinita
figlie del ciel pel diavolo create.
Tu sai, lettor, che in quell'ardente foco
i re migliori co' tiranni han loco.
XIII. Sai che la Chiesa all'infernal rovello
mette Antonino e Tito, amor del mondo,
e Trajano, de' prìncipi modello,
con Marco Aurelio di saper profondo,
e parimente i due Caton, flagello
di qualunque è malvagio, e il verecondo
Scipione, che, signor del proprio core,
di Cartago e d'amor fu vincitore.
XIV. Voi pur vi state ad arrostir laggiù,
sapiente Platon, divino Omero,
Socrate, figlio dell'eterno vero
nella Grecia profana, e tu, severo
giusto Aristide, e tu, probo Solone,
morti, oimé, tutti senza confessione.
XV. Ma ciò che Grisbordon fe' più stupire,
fu il veder nella caldaja orrenda
certi santoni e certi re bollire
di cui s'orna la storia e la leggenda.
Fra i primi che poté l'occhio scoprire,
fu del re Clodoveo la reverenda
faccia. A tal nome io veggio il lettor mio
esclamar stupefatto: – Poffar Dio!
XVI. Come può star che un re sì grande e buono,
che a' suoi soggetti con accorto avviso
aprir sicuro un dì seppe dal trono
il cammino del santo paradiso,
alla salvezza di che a noi fe' dono,
aver poi debba ogni sentier preciso?
Chi crederìa che un primo re cristiano
sia dannato laggiù come un pagano? –
XVII. Ma ricordarsi debbe il mio lettore
ch'esser dall'acqua salutar lavato
non basta mica, se corrotto è il core:
or questo Clodoveo, tutto impastato
di peccati e di vizi, era un umore
sanguinario, bisbetico e spietato,
né san Remigio avea ranno e sapone
pel bucato d'un re così briccone.
XVIII. Fra color che del mondo ebber domìno,
chiuso in quel bujo con eterna offesa
scorgevasi il famoso Costantino.
– E fia ver? (grida il frate con sorpresa)
oh rigida giustizia, oh rio destino!
che? l'eroe fondator di santa Chiesa,
l'eroe ch'espulse i falsi dèi dal mondo,
è piombato con essi in questo fondo? –
XIX. Allor dolente in cotai detti amari
proruppe Costantin: – Di Giove e Delo
il culto io spensi e su' lor santi altari
fui prodigo d'incenso al Dio del cielo;
ma me guardai, non esso, e a' miei preclari
fatti fu spron l'orgoglio e non lo zelo:
gli altar, che santi a tutti gli occhi sono,
a me non fùro che sgabello al trono.
XX. Ambizion, lussuria, ira, mollezza
eran miei numi e avean miei vóti a gara.
L'oro, il sangue, gl'intrighi e la scaltrezza
de' cristiani e la lor sete avara
fondàr la mia fortuna e la grandezza,
questa real grandezza un dì sì cara:
fu per lei che con perfida ferita
sino al suocero mio tolsi la vita.
XXI. Vil, crudel, sospettoso e ne' più rei
piacer sepolto e nel sangue e nel vino,
ebbro d'amor, di gelosia, mi fei
della sposa e del figlio l'assassino.
Stupir più dunque, o Grisbordon, non déi
se dannato con te è Costantino:
venti re, come lui divini a Roma,
qui bruciata per sempre avran la chioma. –
XXII. Va innanzi il frate, e in quei lugùbri ardori
vede ognor cose arcane e ognor più belle;
predicator, casisti, monsignori,
monaci d'ogni lingua e monachelle,
e di tutte le corti i confessori
coi direttori delle nostre belle,
tutta gente chiercuta e ben nudrita,
ch'ebbe il suo paradiso in questa vita.
XXIII. Ecco vede nel fondo d'una cella
un fraton mezzo bianco e mezzo nero,
col crin ritondo a foggia di scodella
e una faccia crudel da masnadiero.
Attentamente rimirando in quella
bestia pezzata di sembiante fiero,
ride un riso maligno il francescano,
e disse dentro sé: – Questi è Gusmano. –
XXIV. Indi grida: – Chi sei? – L'ombra, siccome
un egro che patisca il morbo splenico,
la man ponendo sulle rase chiome,
rispose: – Ah! figlio, io sono san Domenico! –
A queste voci, a questo augusto nome
Grisbordon sbalordito, in atto scenico
cinque o sei passi rincular si vede;
fassi il segno di croce e appena il crede.
XXV. – Come? poscia ripiglia: voi, quell'arca
di santità, dottor così eminente,
promotor della fede e patriarca,
voi che a Dio convertiste tanta gente,
voi quaggiù come un empio eresiarca!
or qui certo la grazia è deficiente.
come sei corbellata colassù
XXVI. Or andate a cantar le litanie
di tutti i santi a suon di campanello! –
Disse: e a lui con parole afflitte e pie
replicò lo Spagnol bianco e morello:
– Non badiam de' mortali alle follie;
che n'importa, se perso hanno il cervello?
che giova andar di là santificati,
se qui siamo arrostiti e sconsacrati?
XXVII. Tal che in inferno scaldasi la zampa,
lassù ha cappella e va privilegiato,
e tal che il papa ha messo in questa vampa,
si gode su nel ciel salvo e beato.
Quanto a me, l'opre mie fur della stampa
d'un gran furfante, e, se qui son dannato,
a dirla schietta, mi sta ben, ché offesi
crudelmente quei poveri Albigesi.
XXVIII. Mandato venni a edificarli, ed io
senza pietà gli strussi e ne fui boja;
arrostir feci gl'innocenti, e or Dio
fa qui arrostir del pari a me le cuoia. –
Una lingua di ferro, o lettor mio,
sempre parlante non potrìa la loja
dei santoni ridir che ad ogni passo
si riscontrano a casa Satanasso.
XXIX. Quando al prode figliol di san Francesco
tutti ebbe fatti quella cólta gente
gli onori dell'albergo diavolesco,
tutti quanti gridàr concordemente:
– Conta, conta, perdio, chi fresco fresco
t'ha qui condotto, o Grisbordon valente;
narrane per qual caso impreveduto
il tuo feroce spirto è qui venuto. –
XXX. – Volontieri, diss'egli: eccomi qua
a contarvi la mia strana ventura;
vi prevengo che questa vi parrà
da principio, o signori, un'impostura;
ma impostor non son io; mentir non sa
chi deposta ha la carne in sepoltura.
Era lassù, il sapete, in missione
per l'onor vostro insieme e del cordone.
XXXI. La più galante impresa io consumava,
che mai fatt'abbia alcun fratesco ingegno.
Il mio buon mulattier che bestia brava!
che pezzo d'uomo! che rival condegno!
Saldo nel suo dover già sorpassava
d'Ermafrodito i vóti oltre ogni segno,
e avea col mostro femminino anch'io
fatto, non fo per dir, l'obbligo mio.
XXXII. Pago costui del nostro alto coraggio,
Giovanna ne lasciò secondo il patto;
questa Giovanna alfin, questo selvaggio
ribelle topo è nelle branche al gatto.
Già si sfiora il famoso pulcellaggio;
si dibatte la schiva, io la dibatto,
il mulattier la tiene a pancia in su,
e il folletto ne ride che non più.
XXXIII. Ma credereste or voi quel che v'ho a dire?
L'aria si fende, e dall'empiro, a cui
non potremo, miei cari, unqua salire
(e sapete il perché) né io né vui,
oh funesto portento! ecco venire
l'orecchiuto animal che i fatti sui
disse a Balamo un dì quando Balamo
andò per maledire il Dio d'Abramo.
XXXIV. Terribile somaro! In dosso avea
di velluto una sella, e dai lucenti
aurei staffili dell'arcion pendea
una gran scimitarra a due taglienti:
ogni spalla una grande ala movea
con che volava e superava i vènti.
Grida Giovanna allor: – Beato Iddio,
che mi manda dal ciel l'asino mio! –
XXXV. Mi gelò quel parlar. L'asin tremendo
tosto le quattro sue ginocchia abbassa
dinanzi a Dunoè, quasi dicendo:
– Monta! – ed alza la testa e il codon squassa.
Dunoè monta, e l'animal, prendendo
sui nostri capi il vol, passa e ripassa,
e dall'alto col ferro il cavaliero
piomba su me meschin come sparviero.
XXXVI. Caro Satana mio, quando tu festi,
se la storia è fedel, guerra al Signore,
guerra senza giudizio, e non temesti
punto de' tuoni suoi l'alto fragore,
così tu pure, o mio gran re, vedesti
l'arcangelo del ciel vendicatore
piombarti addosso e col brando pulito
tagliarti a suon di busse il pan pentito.
XXXVII. La mia vita a salvar dunque costretto
corsi a gl'incanti dell'usato stile;
il nero sopracciglio e il duro aspetto
tosto lasciai di francescan virile;
presi i modi, l'andar, le chiome, il petto
di fresca donzelletta: un vel sottile
come d'Aracne l'ondeggiante bava,
mostrava un sen nascente e nol mostrava.
XXXVIII. Tutta l'arte che donna usar mai sa,
tutta m'ebbi: un guardar di verginetta,
con quella natural semplicità
che sempre inganna, sempre i cuori alletta;
che farìa di Zenon pazza la setta:
un sasso, un orso insomma avrei conquiso,
perché scaltri eran gli atti e bello il viso.
XXXIX. Vinto infatti ne parve il paladino.
A ghermirmi la morte era già presta;
il terribile brando damaschino
l'invitto eroe già m'alza sulla testa,
già il colpo è a mezzo, e Grisbordon meschino
dicea fra sé: – Finita ecco la festa! –
quando, nel punto di darmi il mio spaccio,
mi guarda, si commove e ferma il braccio.
XL. Impietrava Medusa i riguardanti,
nel guerriero fec'io diverso effetto;
intenerito dalle man tremanti,
lasciò cader la spada il poveretto,
che, nell'alma confuso e nei sembianti,
d'amor tremava a un tempo e di rispetto.
Chi vincitor creduto non m'avrìa?
ma il peggio udite dell'istoria mia.
XLI. Il mulattier, che il bel corpo virile
a sé tratto tenea della Pulcella,
vedendomi sì vaga e sì gentile,
di pronta si scaldò fiamma novella.
Io non credea che fosse, oimé, quel vile
capace di bramar cosa sì bella.
Incostante un villano? Eppure, o dèi,
lasciò Giovanna e mi preferse a lei.
XLII. Mi preferse a Giovanna; oh mia funesta
beltà! Ma sciolta si vid'ella a pena,
che la spada impugnò con la man presta,
Mentre l'infido mulattier s'appresta
a farmi villania, dietro la schiena
con un colpo rovescio la superba
la testa mi tagliò come un fil d'erba.
XLIII. D'indi in poi più novelle di nessuno,
né di Giovanna, né di quel malnato
mulattier, né degli altri, che ciascuno
cento volte poss'essere impalato;
possa il cielo spedirli ad uno ad uno
per mio piacer de' diavoli al mercato. –
Così sdegnoso Grisbordon parlava,
e l'inferno dal ridere crepava.
Gusmano, domenicano: seguace di san Domenico di Guzman.