François-Marie Arouet de Voltaire
La pulcella d'Orléans

CANTO SESTO

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CANTO SESTO

 

 

ARGOMENTO

 

Del bel Monroso e de la bella Agnese

si racconta il primier tenero sguardo,

e quanta fu del giovinetto inglese

la modestia il pudor, quanto il riguardo.

Della Fama all'alpestre alto paese

sul volante ronzin giunge il Bastardo.

Di Dorotea qui ascolta il caso strano,

e perch'arsa non sia, vola a Milano.

 

 

I. Lasciam d'inferno il golfo, ove l'immondo

Grisbordon col demonio arde in eterno;

torniamo all'aria, riveggiamo il mondo,

questo mondo ch'è bene un altro inferno.

Qui l'innocenza è messa nel profondo,

l'uom retto e buono del malvagio è scherno;

spirto, gusto e le belle arti smarrite,

del par che la virtù, son via fuggite.

II. Tien luogo d'ogni merto una venale

politica che strisciasi per terra.

Dei devoti il crudel zelo infernale

contro il sapere l'ignoranza sferra.

L'interesse, vil re d'ogni mortale,

per cui sol si fa pace e si fa guerra,

tristo e pensoso ad uno scrigno accanto

vende al più forte del men forte il pianto.

III. O miseri mortali! a che correte

di turpi colpe ad insozzarvi i cuori?

insensati, che ancora non sapete

asperger di dolcezza i vostri errori!

Nei falli almeno più ragion mettete;

siate almen fortunati peccatori;

e poiché pur dannarvi alfin vi tocca,

dannatevi col mèle in su la bocca.

IV. Ciò fece Agnese, ed altro a questa bella

rimproverar non puoi che l'abbandono

a cui diessi la cara pazzerella

nei trasporti d'amor: ma le perdono,

e spero che del pari alla donzella

perdonato avrà Dio, ch'è tanto buono.

Vergin non è ogni santo, ed al Signore

pentirsi è la virtù del peccatore.

V. Quando, a serbar l'onore immaculato,

la gran guerriera col celeste brando

decollò Grisbordone, il mostro alato

che Dunoè per l'aria iva portando,

un pensier concepì scomunicato,

e fu di portar via di contrabbando

il cavaliero non astuzia fina,

e involarlo di posta all'eroina.

VI. E a tanto ardire che lo spinse? Amore,

sì, d'Amor la gran forza e la nascente

segreta invidia che gli prese il core.

Saprai dopo, lettor, minutamente

l'inverecondo e temerario ardore

che all'arcadico eroe scalda la mente.

Di volarsene adunque in

fu del santo animal la fantasia.

VII. E Dionigi egli stesso al suo somiero

in segreto ispirò questa scappata.

– E perché, mi dirai, questo pensiero? –

Perché il Santo nell'anima turbata

dell'asino leggeva e del guerriero.

Ambo d'un foco ardean, che subissata

la comun causa avrebbe e posta in lutto

Francia, Giovanna, la sua gloria e tutto.

VIII. Vide ei dunque con savio accorgimento

che sol l'assenza e il tempo l'amorosa

lor piaga avrìa lavato. A un altro intento

mirava il nostro santo in questa cosa.

Mirava, lo vedrai, se badi attento,

a dar effetto a certa opra pietosa.

Tien la lingua, o lettore, e senza tanti

discorsi adora ciò che fanno i santi.

IX. L'asino adunque dionigian qual dardo

a volo si dispicca, e la sua strada

verso il Rodano prende. Il gran Bastardo

gli è sopra e sembra che sul vento vada.

Dall'alto abbassa all'eroina il guardo,

che, tutta nuda, con la fiera spada

fulminando, s'aprìa largo cammino,

calda di strage e di furor divino.

X. Ermafrodito invan tenta fermarla,

ed i folletti suoi, che d'aria han l'epe,

manda di qua di per rintracciarla.

Ella ne ride e lor il pan col pepe.

A un villanel mi piace assomigliarla,

che, visto un alvear dentro una siepe,

mentre mal cauto accostasi e vagheggia

l'arte ammirando della cerea reggia,

XI. d'ogni parte le pecchie allo stordito

s'avventano ronzando, e sul mostaccio

una nube gli fanno, e quale al dito,

qual s'attacca all'orecchio e quale al braccio.

Fugge di qua e di ratto il ferito,

e ad ambe mani, per uscir d'impaccio,

dissipa, uccide a centinaja e strugge

la volante canaglia, e via poi fugge.

XII. Tal dei folletti trasvolanti e sciocchi

si sbarazza l'intrepida donzella.

Tremante allor si getta a' suoi ginocchi

il mulattier, che avea la cacarella

per lo timor che il caso non gli tocchi

di Grisbordone; e grida: – O gran Pulcella,

O Pulcella una volta amica mia,

da me tanto servita in scuderia,

XIII. qual furia è questa che t'offusca i lumi?

La vita per pietà! Deh non si dica

che gli onori han cangiato i tuoi costumi;

vedi che piango e son vivo a fatica. –

E Giovanna: – Facchino, invan presumi

che in sì vil sangue la mia man pudica

imbrattar voglia questo acciar divino:

ti sia fatta la grazia, malandrino.

XIV. A vegetar prosiegui a patto espresso,

che mi serva di sella e di vettura

la tua schienaccia in questo punto istesso:

tu meritarti un tanto onor procura.

Tornarti in mulo a me non è concesso,

ma nulla càlmi della tua figura:

mulo od uom che tu sia, basta che sotto

sia gagliarda la groppa e buono il trotto.

XV. Altri s'è tolto il mio ronzino, ed io

in te pretendo averlo ritrovato.

Dunque sotto. – Sì disse, e non restìo

curvò la bestia il capoccion pelato.

Su l'una e l'altra man, come vuol Dio,

comincia il suo trottar lo sventurato,

e di siffatto corridore in groppa

contro i più forti in campo ella galoppa.

XVI. Quanto al genio, ei giurò deluso amante

di sempre tormentar quanti francesi

nella sua terra avrian messo le piante,

e per l'opposto favorir gl'Inglesi.

Quindi un castel di gusto stravagante

un laberinto insidioso, u', presi

gli eroi di Francia, avrìa la sua vendetta,

ei si fe' costruire in tutta fretta.

XVII. Ma d'Agnese che fu? Di questa bella

sovvienvi il caso rio, quando impudico

l'abbracciò nuda il gran Sandò, mentr'ella

piangendo accusa il suo destin nemico?

Udiste come l'amorosa sella

lasciò quel crudo e corse all'armi; or dico

seguitando che Agnese al suo partire

uscì d'imbroglio, o almen le parve uscire.

XVIII. Tutta stordita ancor del suo periglio,

ella giurò che in simile tagliuola

più non cadrebbe; al re dell'aureo giglio

giurò d'amar lui sol, ch'ama lei sola.

Di rispettar giurò nel suo consiglio

questi teneri nodi; die' parola

di morir prima che mancar di fede;

ma giurar nulla déssi, a chi ben vede.

XIX. Mentre in quella tremenda barabuffa,

che d'un campo sorpreso è ognor compagna,

altri corre, altri fugge, altri s'azzuffa,

e va di sangue un rio per la campagna;

e il valletto di campo, eroe di truffa,

che nel rischio comun solo guadagna,

de' suoi le tende in sicurtà saccheggia,

perché il nemico averne util non deggia;

XX. per mezzo ai gridi, al fumo ed alla polve,

Agnese, che ancor nuda esser s'avvede,

porre del gran Sandò la si risolve

nella deserta guardaroba il piede:

sospettosa d'intorno il guardo volve,

ed abiti e camicie e scarpe vede:

tremante, zitta zitta, in fretta in fretta,

tutto prende, perfino la berretta.

XXI. Fortuna amica inoltre una cavalla

le mostra, che castagna avea la pezza,

e a Sandò coll'arcion già su la spalla

dovea menarsi, ed era una bellezza.

Vecchio e prode beone, un uom di stalla

dormendo la tenea per la cavezza.

Agnese se ne vien pian piano e piglia

di mano al mozzo, che dormìa, la briglia.

XXII. Poi, trovata una panca alla ventura,

vi posa il piede e monta, e in sella sta.

Sprona, e, di gaudio ingombra e di paura,

verso la selva galoppando va.

Bonel la siegue a pie' per la pianura,

bestemmiando la sua rotondità

e quel leggiadro viaggiar, la guerra,

Agnese, Amor, la corte e l'Inghilterra.

XXIII. Monroso, di Sandò paggio diletto,

che da certa ambasciata allor tornava,

vedendo da lontan verso un boschetto

la poledra che forte galoppava,

e di Sandò il mantello ed il berretto,

mal divinando come il fatto stava,

credette fosse il suo padron che via

dal campo mezzo nudo si fuggìa.

XXIV. Di sì strana avventura spaventato,

frusta il cavallo e grida: – Ove fuggite,

o mio caro padron? che cosa è stato?

forse Carlo v'ha vinto? Oimé, sentite,

fermatevi, ch'io vo' venirvi a lato

dappertutto, e morir, se voi morite. –

Dice e vola; ed il vento a più potere

porta lui, il cavallo e le preghiere.

XXV. La bella Agnese, che inseguir si sente,

corre a gran rischio fra boscaglie e rubi;

e più si fugge, più l'inglese ardente

la segue pria che il bosco gliela rubi.

Inciampò la cavalla, e la fuggente

un grido mise che ferì le nubi.

Capitombola stesa in sul terreno,

e il paggio la raggiunse in un baleno.

XXVI. Ma stupido restò, quando la lieve

aperta vesta a gli occhi suoi scoprìo

due cosce, opra d'Amore, un sen di neve,

insomma una beltà degna di Dio.

Tale il tuo senso, Adon, stato esser deve,

quando in fondo ad un bosco a te s'offrìo

sull'imbrunir del la dea che mise

nel suo letto divin Marte ed Anchise.

XXVII. Ben Venere più ornata avea la testa,

e una cavalla al suol non versò mica

l'immortal sua persona alla foresta,

priva di fiato e morta di fatica.

Berretto non avea né tutta pesta

la neve del bel cul; ma, il ver si dica,

vista nuda costei, avrìa sospese

Adon le brame tra Ciprigna e Agnese.

XXVIII. Un foco al paggio corse per la vita,

di timor mescolato e di rispetto.

Alza da terra Agnese tramortita,

e trepidando la raccoglie al petto.

– Siete forse, le dice, oh Dio, ferita? –

Ella il guardo in lui fissa languidetto,

indi con voce timida, indecisa,

sospirando, risponde in questa guisa:

XXIX. – O chiunque tu sia che qui fra l'arme

m'insegui, se non hai malvagio il core,

rispetta i mali miei, non oltraggiarme,

giovin stranier, conservami l'onore.

Tu m'assisti, tu salvami. – E qui parme

che dir oltre vietàr pianto e dolore:

declinò mesta il volto e fe' a sé stessa

d'esser fida al suo re nuova promessa.

XXX. Monroso un pezzo tacque, e poi d'un tuono

soavissimo: – O bella e riverita

de' cuor sovrana, ei disse, io tuo già sono,

tua questa man, quest'alma e questa vita,

e tutto il sangue mio. Questo sol dono

deh fammi, ch'io ti porga alcun'aita.

Se il tuo bel labbro il tuo desìo mi dice,

altra mercé non chieggo, e son felice. –

XXXI. Una boccetta allor d'acqua odorosa

trasse, tremante ne bagnò alla bella

le parti fatte di ligustro e rosa

che la caduta avea péste e la sella.

Rossa Agnese si fa, ma non sdegnosa,

temeraria quella mano appella;

lo guata con piacer, ne sa perché,

sempre giurando serbar fede al re.

XXXII. Ciò fatto, il paggio le dicea: – Signora,

irne al borgo vicin vi si consiglia.

Prendiam questo stradello, e in men d'un'ora

v'arriverem, ché lungi è poche miglia.

Nessuna soldatesca ivi dimora;

ho soldi, e troverem cuffia, faldiglia,

e tutto che vorrai, viso dolcissimo,

degno proprio d'un re cristianissimo.

XXXIII. Piacque il saggio consiglio. Era Monroso

sommesso, sì tenero, ed avea

un garbo, un volto tanto grazioso,

e sì ben di piacer l'arte sapea,

che a seguirlo con pie' volonteroso

subitamente ognun persuadea.

Qualche censor qui forse romperà

il fil della mia storia e mi dirà:

XXXIV. – Com'è possibil mai ch'uno stordito,

ch'un giovinastro d'Albion, ch'un paggio

fosse al fianco d'Agnesepulito,

riservato, rispettoso e saggio? –

La censura è davver da scimunito.

Quel paggio amava e non avea coraggio.

La voluttà far suole audace un core,

ma umil lo rende e timoroso amore.

XXXV. Verso quel borgo adunque cammin fanno

amendue di conserva, e per la via

di bei fatti d'amor parlando vanno,

d'ardite imprese di cavalleria

e di vecchi romanzi, che ne dànno

precetti di creanza e cortesia.

Di quando in quando accostasi e le tocca

il bianco braccio con la rosea bocca.

XXXVI. E lo fa di tal grazia e tal rispetto,

che modo di sottrarsi ella non vede;

ma nulla più: l'ornato giovinetto

«brama assai, poco spera e nulla chiede».

Nel borgo appena entrati, il bel paggetto

por le fa stanca in un albergo il piede.

Ivi Agnese fra due bianche lenzuola

modestamente si riposa e sola.

XXXVII. Corre intanto Monroso a rinvenire

cibo, cuffia, calzar, scarpe e sottana

per degnamente e con onor servire

questa già del suo cor beltà sovrana.

O tu cui l'alma godono abbellire

amore ed onestade, ov'è l'umana

saggezza che qui possa, almo garzone,

venir di tua virtude al paragone?

XXXVIII. Nell'albergo medesmo era venuto

di Sandò, per dir tutto, un cappellano.

Un cappellan gli è muso risoluto

più assai che un paggio; ricordarlo è vano.

D'Agnese e di Monroso avea saputo

il cammin quel ribaldo; e che lontano

non più di quattro passi era il bel viso

ch'un di quelli parea del paradiso.

XXXIX. Dall'infame desìo punto il mal servo

di Dio, nel sangue avendo una fucina,

e schiodando bestemmie, entra protervo,

chiude la porta, tira la cortina,

briaco di lussuria e dritto il nervo.

Ma mentre qui l'affar così cammina,

uopo è dirti, lettor, tutto che fe'

sul quadrupede uccello Dunoè.

XL. dove l'Alpe con le bianche spalle

rompe le nubi e in ciel mette la testa,

verso il famoso scoglio ove Anniballe

aprì la porta a Romafunesta,

che serene ha le cime e nella valle

vede il tuono formarsi e la tempesta,

siede un palagio aperto a tutti i vènti,

di bellissimi marmi trasparenti.

XLI. Non ha tettoimpostavetrata:

a qualsiasi persona ivi condutta

aperto è sempre, e dentro intonacata

di fidi specchi la parete è tutta;

sì che al vivo in passar rappresentata

v'è qualunque sembianza o bella o brutta;

o giovane la gota, o grinza e vecchia,

ognuna in quelli come vuol si specchia.

XLII. Mille strade fan capo al vago albergo

onde a mirarsi ognun sì bene attende;

ma tutte rischi e abissi, e tai che il mergo

non varcherebbe quelle rupi orrende.

Tal v'ha spesso che giunge all'arduo tergo

di quell'Olimpo, e 'l come non comprende;

ciascun v'accorre, e mentre uno s'inalza,

cento romponsi il collo per la balza.

XLIII. Reina altera della reggia immensa

è quell'antica linguacciuta diva

che nome ha Fama, e cui talvolta incensa

l'alma ancor più modesta e la più schiva.

Il saggio dice che a costei non pensa,

ch'odia il grido e l'onor che ne deriva,

che la lode è il velen della ragione;

ma mènte il saggio, e parla da buffone.

XLIV. Qui tien la Fama adunque la sua sede:

le fan corte re, duchi, imperadori,

frati, pedanti, gente che si crede

toccar le stelle e mena alti romori:

pregano tutti, e gridano al suo piede:

– O Fama, o eccelsa dea che nulla ignori

e tutto narri che si dice e fa,

parla un poco di noi, per carità! –

XLV. Per appagar l'audace voglia e sciocca,

la dea loquace ognor due trombe ha pronte:

l'una, applicata alla sua larga bocca,

le belle imprese degli eroi fa conte;

l'altra, giacché pur dirvela mi tocca,

la se l'adatta al culo, e dal suo monte

con lo squillo di questa annunzia il muglio

degli scritti moderni e il guazzabuglio;

XLVI. di quei libri, vo' dir, che menzognera

venal penna schizzò, vo' dir di quella

d'ascrei lombrìci momentanea schiera

che a vicenda si schiaccia e si flagella;

libri nati il mattin, morti la sera,

che nel silenzio di fratesca cella

la polve e 'l roditor tarlo divora;

essi, e con essi i privilegi ancora.

XLVII. Vil mandra di scrittor devoti al boja,

Guyon, Freronne, Labaumel, Nonnotto,

de' buoni ingegni eterno strazio e noja;

e quella schiuma dello stuol bigotto,

quel Savatier, che sotto false cuoja

vende la penna per buscar lo scotto;

gente da gogna, ma superbi e fieri

mercatanti di fumo e vituperi.

XLVIII. E nondimen con questa mercanzia

osan portarsi della Fama in traccia,

e tumidi arroganti a quella iddia

carca di fango presentar la faccia.

A forti colpi di staffil la ria

turba dal santo luogo ella discaccia;

e appena è dato a quello stuol villano

di veder della diva il deretano.

XLIX. Gentile Dunoè, qui trasportato

dal tuo ronzino ti vedevi, e in questa

superba reggia il tuo nome laudato

trombarsi udivi dalla tromba onesta;

in quei lucidi spegli figurato

ti contemplasti; e che gaudio, che festa

non fu la tua, dipinte in quelle terse

lastre mirando tue virtù diverse!

L. Gli aspri assedii non pure ed i conflitti,

e quelle imprese che rumor fan tanto;

ma più rare virtù, dico gli afflitti

a cui tergesti generoso il pianto,

onde vai benedetto; e i derelitti

orfani tolti al ladro artiglio e santo

dei devoti tutori, e nell'infetto

sen delle corti il galantuom protetto.

LI. Contemplando in tal guisa il paladino

l'istoria di sue gesta, si godea

della sua gloria, e l'asino divino

di specchiarsi egli pur si compiacea;

tronfio come un pavone, il buon ronzino

da specchio a specchio in gravità correa:

quando improvviso da profonda nube

l'una udissi squillar delle due tube.

LII. E lo squillo dicea: – Per inumano

decreto tra le fiamme oggi si muore

la bella Dorotea dentro Milano.

Piangete, o cuori che intendete amore. –

– Che ascolto! – disse Dunoè; qual mano

segnò sentenza di cotanto orrore?

Giusto cielo! chi dunque è questa bella?

perché vuolsi bruciarla? e che fec'ella?

LIII. Se brutta, poco mal; ma sulle brage

arrostire una giovine bellezza,

sono cose, per Dio, troppo malvage;

e in Milano son matti da cavezza. –

Mentre va col pensiero in queste ambage,

la tromba replicò: – Se la prodezza

d'un cavalier cortese non t'ajuta,

povera Dorotea, tu sei perduta! –

LIV. A questo grido nel Bastardo sorge

di soccorrer la donna alto desire:

perché, dovunque occasion si porge

di far palese il generoso ardire,

vendicando un oltraggio, ei non iscorge

che il dover degli eroi. Senz'altro dire,

– Qua, disse al suo corsier, vola veloce

ove ti chiama dell'onor la voce. –

LV. Tosto l'asino aprì le sue grand'ale:

un cherubin va meno a precipizio.

Già la città si mostra ove il ferale

rogo s'appresta per lo rio supplizio:

trecento sgherri, timida e brutale

canaglia, ingorda ognor di malefizio,

fan largo, divietando all'affollato

popolazzo l'entrar nello steccato.

LVI. Dappertutto le dame alla finestra

attendon l'ora col pianto alle ciglia:

l'arcivesco, stipato a manca e a destra

dalla chiercuta sua negra famiglia,

dal balcone qua e l'occhio balestra

in aria d'uom che niente se ne piglia.

Fra quattro arcieri intanto ecco in catene

nuda in camicia Dorotea se n' viene.

LVII. Disperazion, confusione, affanno,

che il cor di mezzo al petto omai le han tolto,

su' begli occhi una nugola le fanno

d'amaro pianto che le copre il volto.

Vede il rogo feral traverso il panno

delle lagrime sue: lo vede, e, sciolto

ogni freno al dolor che la ferìa,

fra i singulti al parlar schiude la via.

LVIII. – O caro amante, o tu che nel cor mio

anche in questo terribile momento... –

dir oltre poté; l'onda del rio

dolor sul labbro soffocò l'accento.

Cadde, e cadendo balbettar s'udio

il nome dell'amante; e immoto e spento

ogni color, parea giglio reciso:

ma il pallore era bello in su quel viso.

LIX. Un certo mascalzon, denominato

Sacrogorgone, un vile che l'Orlando

era dell'arcivescovo, impugnato

un coltellaccio ch'egli avea per brando,

di ferro il capo e d'impudenza armato,

verso il rogo s'avanza, alto gridando:

Signori, udite; io giuro a Dio che rea

e degna di quel foco è Dorotea.

LX. Avvi alcun che ne prenda la difesa?

avvi alcun che pugnar voglia per lei?

Se v'ha chi porsi ardisca a questa impresa,

venga innanzi e si mostri a gli occhi miei:

con un colpo di questo alla distesa

darògli un tasto nel memento mei. –

In così dir, levando il coltellaccio,

fieramente cammina e fa il bravaccio.

LXI. Torcea gli occhi e la bocca sozza e nera,

sì che al feroce aspetto ognun fremea,

ed in Milano cavalier non era

che fosse oso pugnar per Dorotea.

Sacrogorgon pigliava aria più fiera:

piangevan tutti, e niun gli rispondea:

e il nostro monsignor reverendissimo

dal balcone al briccon dicea: – Bravissimo. –

LXII. A Dunoè, che in aria sulla piazza

pendea librato, di costui l'ardire

parve una cosa stravagante e pazza:

dall'altra parte il pianto ed il martire

di Dorotea rendea quella ragazza

commovente e bella in sul morire,

che il cavaliero a prima vista ha scorto

ch'ella è innocente e che si muore a torto.

LXIII. Salta a terra, ed in suono alto di sdegno,

– Son io, gli grida, faccia d'impiccato,

che qui col mio coraggio a provar vegno

che di costei gli è falso ogni reato;

che un mentitore, uno spavaldo degno

di mille forche, un partigian sfacciato

di delitti tu sei. Ma Dorotea

pria dir mi debbe di che vuolsi rea.

LXIV. Vo' saper sue vicende, e per qual dura

legge in Milano abbruciansi le belle. –

Disse: e il popolo applaude, e di sicura

speme e di gioja un grido alza alle stelle.

Sacrogorgon si muore di paura;

pur simula baldanza. Anche la pelle

di monsignor s'increspa, ed il mentito

volto mal cela il cor già sbigottito.

LXV. Rivolse allor magnanimo e gentile

l'eroe la voce a Dorotea, che i rai

china, e sospira, e in doloroso stile

il tenor conta de' sofferti guai.

L'asino asceso in cima al campanile

parea del caso intenerito assai;

e il Milanese a benedir si mette

Dio, cui prende pietà delle tosette.

 

 

NOTE AL CANTO SESTO

 

Ottava XVI, v. 6-8:

V. il c. XVII.

Ottava XXIII, v. 1:

È quel medesimo paggio su le cui parti deretane Giovanna avea disegnato tre fiordalisi.

Ottava XXV, v. 4:

Rubo, rovo.

Ottava XXXVI, v. 4:

Verso del Tasso (Gerus., c. II, ott. 16).

Ottava XLVII, v. 2:

Fréron, La Beaumelle, Nonotte.

Ivi, v. 5:

Vedi intorno al Sabatier, detto qui Savatier per ischerno, e intorno pure a tutti quelli altri signori, il testo e le note del XVIII canto.


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