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Del bel Monroso e de la bella Agnese
si racconta il primier tenero sguardo,
e quanta fu del giovinetto inglese
la modestia il pudor, quanto il riguardo.
Della Fama all'alpestre alto paese
sul volante ronzin giunge il Bastardo.
Di Dorotea qui ascolta il caso strano,
e perch'arsa non sia, vola a Milano.
I. Lasciam d'inferno il golfo, ove l'immondo
Grisbordon col demonio arde in eterno;
torniamo all'aria, riveggiamo il mondo,
questo mondo ch'è bene un altro inferno.
Qui l'innocenza è messa nel profondo,
l'uom retto e buono del malvagio è scherno;
spirto, gusto e le belle arti smarrite,
del par che la virtù, son via fuggite.
II. Tien luogo d'ogni merto una venale
politica che strisciasi per terra.
Dei devoti il crudel zelo infernale
contro il sapere l'ignoranza sferra.
L'interesse, vil re d'ogni mortale,
per cui sol si fa pace e si fa guerra,
tristo e pensoso ad uno scrigno accanto
vende al più forte del men forte il pianto.
III. O miseri mortali! a che correte
di turpi colpe ad insozzarvi i cuori?
insensati, che ancora non sapete
asperger di dolcezza i vostri errori!
Nei falli almeno più ragion mettete;
siate almen fortunati peccatori;
e poiché pur dannarvi alfin vi tocca,
dannatevi col mèle in su la bocca.
IV. Ciò fece Agnese, ed altro a questa bella
rimproverar non puoi che l'abbandono
a cui diessi la cara pazzerella
nei trasporti d'amor: ma le perdono,
e spero che del pari alla donzella
perdonato avrà Dio, ch'è tanto buono.
Vergin non è ogni santo, ed al Signore
pentirsi è la virtù del peccatore.
V. Quando, a serbar l'onore immaculato,
la gran guerriera col celeste brando
decollò Grisbordone, il mostro alato
che Dunoè per l'aria iva portando,
un pensier concepì scomunicato,
e fu di portar via di contrabbando
il cavaliero non astuzia fina,
e involarlo di posta all'eroina.
VI. E a tanto ardire che lo spinse? Amore,
sì, d'Amor la gran forza e la nascente
segreta invidia che gli prese il core.
Saprai dopo, lettor, minutamente
l'inverecondo e temerario ardore
che all'arcadico eroe scalda la mente.
Di volarsene adunque in Lombardia
fu del santo animal la fantasia.
VII. E Dionigi egli stesso al suo somiero
in segreto ispirò questa scappata.
– E perché, mi dirai, questo pensiero? –
Perché il Santo nell'anima turbata
dell'asino leggeva e del guerriero.
Ambo d'un foco ardean, che subissata
la comun causa avrebbe e posta in lutto
Francia, Giovanna, la sua gloria e tutto.
VIII. Vide ei dunque con savio accorgimento
che sol l'assenza e il tempo l'amorosa
lor piaga avrìa lavato. A un altro intento
mirava il nostro santo in questa cosa.
Mirava, lo vedrai, se badi attento,
a dar effetto a certa opra pietosa.
Tien la lingua, o lettore, e senza tanti
discorsi adora ciò che fanno i santi.
IX. L'asino adunque dionigian qual dardo
a volo si dispicca, e la sua strada
verso il Rodano prende. Il gran Bastardo
gli è sopra e sembra che sul vento vada.
Dall'alto abbassa all'eroina il guardo,
che, tutta nuda, con la fiera spada
fulminando, s'aprìa largo cammino,
calda di strage e di furor divino.
X. Ermafrodito invan tenta fermarla,
ed i folletti suoi, che d'aria han l'epe,
manda di qua di là per rintracciarla.
Ella ne ride e lor dà il pan col pepe.
A un villanel mi piace assomigliarla,
che, visto un alvear dentro una siepe,
mentre mal cauto accostasi e vagheggia
l'arte ammirando della cerea reggia,
XI. d'ogni parte le pecchie allo stordito
s'avventano ronzando, e sul mostaccio
una nube gli fanno, e quale al dito,
qual s'attacca all'orecchio e quale al braccio.
Fugge di qua e di là ratto il ferito,
e ad ambe mani, per uscir d'impaccio,
dissipa, uccide a centinaja e strugge
la volante canaglia, e via poi fugge.
XII. Tal dei folletti trasvolanti e sciocchi
si sbarazza l'intrepida donzella.
Tremante allor si getta a' suoi ginocchi
il mulattier, che avea la cacarella
per lo timor che il caso non gli tocchi
di Grisbordone; e grida: – O gran Pulcella,
O Pulcella una volta amica mia,
da me tanto servita in scuderia,
XIII. qual furia è questa che t'offusca i lumi?
La vita per pietà! Deh non si dica
che gli onori han cangiato i tuoi costumi;
vedi che piango e son vivo a fatica. –
E Giovanna: – Facchino, invan presumi
che in sì vil sangue la mia man pudica
imbrattar voglia questo acciar divino:
ti sia fatta la grazia, malandrino.
XIV. A vegetar prosiegui a patto espresso,
che mi serva di sella e di vettura
la tua schienaccia in questo punto istesso:
tu meritarti un tanto onor procura.
Tornarti in mulo a me non è concesso,
ma nulla càlmi della tua figura:
mulo od uom che tu sia, basta che sotto
sia gagliarda la groppa e buono il trotto.
XV. Altri s'è tolto il mio ronzino, ed io
in te pretendo averlo ritrovato.
Dunque sotto. – Sì disse, e non restìo
curvò la bestia il capoccion pelato.
Su l'una e l'altra man, come vuol Dio,
comincia il suo trottar lo sventurato,
e di siffatto corridore in groppa
contro i più forti in campo ella galoppa.
XVI. Quanto al genio, ei giurò deluso amante
di sempre tormentar quanti francesi
nella sua terra avrian messo le piante,
e per l'opposto favorir gl'Inglesi.
Quindi un castel di gusto stravagante
un laberinto insidioso, u', presi
gli eroi di Francia, avrìa la sua vendetta,
ei si fe' costruire in tutta fretta.
XVII. Ma d'Agnese che fu? Di questa bella
sovvienvi il caso rio, quando impudico
l'abbracciò nuda il gran Sandò, mentr'ella
piangendo accusa il suo destin nemico?
lasciò quel crudo e corse all'armi; or dico
seguitando che Agnese al suo partire
uscì d'imbroglio, o almen le parve uscire.
XVIII. Tutta stordita ancor del suo periglio,
ella giurò che in simile tagliuola
più non cadrebbe; al re dell'aureo giglio
giurò d'amar lui sol, ch'ama lei sola.
Di rispettar giurò nel suo consiglio
questi teneri nodi; die' parola
di morir prima che mancar di fede;
ma giurar nulla déssi, a chi ben vede.
XIX. Mentre in quella tremenda barabuffa,
che d'un campo sorpreso è ognor compagna,
altri corre, altri fugge, altri s'azzuffa,
e va di sangue un rio per la campagna;
e il valletto di campo, eroe di truffa,
che nel rischio comun solo guadagna,
de' suoi le tende in sicurtà saccheggia,
perché il nemico averne util non deggia;
XX. per mezzo ai gridi, al fumo ed alla polve,
Agnese, che ancor nuda esser s'avvede,
porre del gran Sandò la si risolve
nella deserta guardaroba il piede:
sospettosa d'intorno il guardo volve,
ed abiti e camicie e scarpe vede:
tremante, zitta zitta, in fretta in fretta,
tutto prende, perfino la berretta.
XXI. Fortuna amica inoltre una cavalla
le mostra, che castagna avea la pezza,
e a Sandò coll'arcion già su la spalla
dovea menarsi, ed era una bellezza.
Vecchio e prode beone, un uom di stalla
dormendo la tenea per la cavezza.
Agnese se ne vien pian piano e piglia
di mano al mozzo, che dormìa, la briglia.
XXII. Poi, trovata una panca alla ventura,
vi posa il piede e monta, e in sella sta.
Sprona, e, di gaudio ingombra e di paura,
verso la selva galoppando va.
Bonel la siegue a pie' per la pianura,
bestemmiando la sua rotondità
e quel leggiadro viaggiar, la guerra,
Agnese, Amor, la corte e l'Inghilterra.
XXIII. Monroso, di Sandò paggio diletto,
che da certa ambasciata allor tornava,
vedendo da lontan verso un boschetto
la poledra che forte galoppava,
e di Sandò il mantello ed il berretto,
mal divinando come il fatto stava,
credette fosse il suo padron che via
dal campo mezzo nudo si fuggìa.
XXIV. Di sì strana avventura spaventato,
frusta il cavallo e grida: – Ove fuggite,
o mio caro padron? che cosa è stato?
forse Carlo v'ha vinto? Oimé, sentite,
fermatevi, ch'io vo' venirvi a lato
dappertutto, e morir, se voi morite. –
Dice e vola; ed il vento a più potere
porta lui, il cavallo e le preghiere.
XXV. La bella Agnese, che inseguir si sente,
corre a gran rischio fra boscaglie e rubi;
e più si fugge, più l'inglese ardente
la segue pria che il bosco gliela rubi.
Inciampò la cavalla, e la fuggente
un grido mise che ferì le nubi.
Capitombola stesa in sul terreno,
e il paggio la raggiunse in un baleno.
XXVI. Ma stupido restò, quando la lieve
aperta vesta a gli occhi suoi scoprìo
due cosce, opra d'Amore, un sen di neve,
insomma una beltà degna di Dio.
Tale il tuo senso, Adon, stato esser deve,
quando in fondo ad un bosco a te s'offrìo
sull'imbrunir del dì la dea che mise
nel suo letto divin Marte ed Anchise.
XXVII. Ben Venere più ornata avea la testa,
e una cavalla al suol non versò mica
l'immortal sua persona alla foresta,
priva di fiato e morta di fatica.
Berretto non avea né tutta pesta
la neve del bel cul; ma, il ver si dica,
vista nuda costei, avrìa sospese
Adon le brame tra Ciprigna e Agnese.
XXVIII. Un foco al paggio corse per la vita,
di timor mescolato e di rispetto.
Alza da terra Agnese tramortita,
e trepidando la raccoglie al petto.
– Siete forse, le dice, oh Dio, ferita? –
Ella il guardo in lui fissa languidetto,
indi con voce timida, indecisa,
sospirando, risponde in questa guisa:
XXIX. – O chiunque tu sia che qui fra l'arme
m'insegui, se non hai malvagio il core,
rispetta i mali miei, non oltraggiarme,
giovin stranier, conservami l'onore.
Tu m'assisti, tu salvami. – E qui parme
che dir oltre vietàr pianto e dolore:
declinò mesta il volto e fe' a sé stessa
d'esser fida al suo re nuova promessa.
XXX. Monroso un pezzo tacque, e poi d'un tuono
soavissimo: – O bella e riverita
de' cuor sovrana, ei disse, io tuo già sono,
tua questa man, quest'alma e questa vita,
e tutto il sangue mio. Questo sol dono
deh fammi, ch'io ti porga alcun'aita.
Se il tuo bel labbro il tuo desìo mi dice,
altra mercé non chieggo, e son felice. –
XXXI. Una boccetta allor d'acqua odorosa
trasse, tremante ne bagnò alla bella
le parti fatte di ligustro e rosa
che la caduta avea péste e la sella.
Rossa Agnese si fa, ma non sdegnosa,
né temeraria quella mano appella;
lo guata con piacer, ne sa perché,
sempre giurando serbar fede al re.
XXXII. Ciò fatto, il paggio le dicea: – Signora,
irne al borgo vicin vi si consiglia.
Prendiam questo stradello, e in men d'un'ora
v'arriverem, ché lungi è poche miglia.
Nessuna soldatesca ivi dimora;
ho soldi, e troverem cuffia, faldiglia,
e tutto che vorrai, viso dolcissimo,
degno proprio d'un re cristianissimo.
XXXIII. Piacque il saggio consiglio. Era Monroso
sì sommesso, sì tenero, ed avea
un garbo, un volto tanto grazioso,
e sì ben di piacer l'arte sapea,
che a seguirlo con pie' volonteroso
subitamente ognun persuadea.
Qualche censor qui forse romperà
il fil della mia storia e mi dirà:
XXXIV. – Com'è possibil mai ch'uno stordito,
ch'un giovinastro d'Albion, ch'un paggio
fosse al fianco d'Agnese sì pulito,
sì riservato, rispettoso e saggio? –
La censura è davver da scimunito.
Quel paggio amava e non avea coraggio.
La voluttà far suole audace un core,
ma umil lo rende e timoroso amore.
XXXV. Verso quel borgo adunque cammin fanno
amendue di conserva, e per la via
di bei fatti d'amor parlando vanno,
d'ardite imprese di cavalleria
e di vecchi romanzi, che ne dànno
precetti di creanza e cortesia.
Di quando in quando accostasi e le tocca
il bianco braccio con la rosea bocca.
XXXVI. E lo fa di tal grazia e tal rispetto,
che modo di sottrarsi ella non vede;
ma nulla più: l'ornato giovinetto
«brama assai, poco spera e nulla chiede».
Nel borgo appena entrati, il bel paggetto
por le fa stanca in un albergo il piede.
Ivi Agnese fra due bianche lenzuola
modestamente si riposa e sola.
XXXVII. Corre intanto Monroso a rinvenire
cibo, cuffia, calzar, scarpe e sottana
per degnamente e con onor servire
questa già del suo cor beltà sovrana.
O tu cui l'alma godono abbellire
amore ed onestade, ov'è l'umana
saggezza che qui possa, almo garzone,
venir di tua virtude al paragone?
XXXVIII. Nell'albergo medesmo era venuto
di Sandò, per dir tutto, un cappellano.
Un cappellan gli è muso risoluto
più assai che un paggio; ricordarlo è vano.
D'Agnese e di Monroso avea saputo
il cammin quel ribaldo; e che lontano
non più di quattro passi era il bel viso
ch'un di quelli parea del paradiso.
XXXIX. Dall'infame desìo punto il mal servo
di Dio, nel sangue avendo una fucina,
e schiodando bestemmie, entra protervo,
chiude la porta, tira la cortina,
briaco di lussuria e dritto il nervo.
Ma mentre qui l'affar così cammina,
uopo è dirti, lettor, tutto che fe'
sul quadrupede uccello Dunoè.
XL. Là dove l'Alpe con le bianche spalle
rompe le nubi e in ciel mette la testa,
verso il famoso scoglio ove Anniballe
aprì la porta a Roma sì funesta,
che serene ha le cime e nella valle
vede il tuono formarsi e la tempesta,
siede un palagio aperto a tutti i vènti,
di bellissimi marmi trasparenti.
XLI. Non ha tetto né imposta né vetrata:
a qualsiasi persona ivi condutta
aperto è sempre, e dentro intonacata
di fidi specchi la parete è tutta;
sì che al vivo in passar rappresentata
v'è qualunque sembianza o bella o brutta;
o giovane la gota, o grinza e vecchia,
ognuna in quelli come vuol si specchia.
XLII. Mille strade fan capo al vago albergo
onde a mirarsi ognun sì bene attende;
ma tutte rischi e abissi, e tai che il mergo
non varcherebbe quelle rupi orrende.
Tal v'ha spesso che giunge all'arduo tergo
di quell'Olimpo, e 'l come non comprende;
ciascun v'accorre, e mentre uno s'inalza,
cento romponsi il collo per la balza.
XLIII. Reina altera della reggia immensa
è quell'antica linguacciuta diva
che nome ha Fama, e cui talvolta incensa
l'alma ancor più modesta e la più schiva.
Il saggio dice che a costei non pensa,
ch'odia il grido e l'onor che ne deriva,
che la lode è il velen della ragione;
ma mènte il saggio, e parla da buffone.
XLIV. Qui tien la Fama adunque la sua sede:
le fan corte re, duchi, imperadori,
frati, pedanti, gente che si crede
toccar le stelle e mena alti romori:
pregano tutti, e gridano al suo piede:
– O Fama, o eccelsa dea che nulla ignori
e tutto narri che si dice e fa,
parla un poco di noi, per carità! –
XLV. Per appagar l'audace voglia e sciocca,
la dea loquace ognor due trombe ha pronte:
l'una, applicata alla sua larga bocca,
le belle imprese degli eroi fa conte;
l'altra, giacché pur dirvela mi tocca,
la se l'adatta al culo, e dal suo monte
con lo squillo di questa annunzia il muglio
degli scritti moderni e il guazzabuglio;
XLVI. di quei libri, vo' dir, che menzognera
venal penna schizzò, vo' dir di quella
d'ascrei lombrìci momentanea schiera
che a vicenda si schiaccia e si flagella;
libri nati il mattin, morti la sera,
che nel silenzio di fratesca cella
la polve e 'l roditor tarlo divora;
essi, e con essi i privilegi ancora.
XLVII. Vil mandra di scrittor devoti al boja,
Guyon, Freronne, Labaumel, Nonnotto,
de' buoni ingegni eterno strazio e noja;
e quella schiuma dello stuol bigotto,
quel Savatier, che sotto false cuoja
vende la penna per buscar lo scotto;
gente da gogna, ma superbi e fieri
mercatanti di fumo e vituperi.
XLVIII. E nondimen con questa mercanzia
osan portarsi della Fama in traccia,
e tumidi arroganti a quella iddia
carca di fango presentar la faccia.
A forti colpi di staffil la ria
turba dal santo luogo ella discaccia;
e appena è dato a quello stuol villano
di veder della diva il deretano.
XLIX. Gentile Dunoè, qui trasportato
dal tuo ronzino ti vedevi, e in questa
superba reggia il tuo nome laudato
trombarsi udivi dalla tromba onesta;
in quei lucidi spegli figurato
ti contemplasti; e che gaudio, che festa
non fu la tua, dipinte in quelle terse
lastre mirando tue virtù diverse!
L. Gli aspri assedii non pure ed i conflitti,
e quelle imprese che rumor fan tanto;
ma più rare virtù, dico gli afflitti
a cui tergesti generoso il pianto,
onde vai benedetto; e i derelitti
orfani tolti al ladro artiglio e santo
dei devoti tutori, e nell'infetto
sen delle corti il galantuom protetto.
LI. Contemplando in tal guisa il paladino
l'istoria di sue gesta, si godea
della sua gloria, e l'asino divino
di specchiarsi egli pur si compiacea;
tronfio come un pavone, il buon ronzino
da specchio a specchio in gravità correa:
quando improvviso da profonda nube
l'una udissi squillar delle due tube.
LII. E lo squillo dicea: – Per inumano
decreto tra le fiamme oggi si muore
la bella Dorotea dentro Milano.
Piangete, o cuori che intendete amore. –
– Che ascolto! – disse Dunoè; qual mano
segnò sentenza di cotanto orrore?
Giusto cielo! chi dunque è questa bella?
perché vuolsi bruciarla? e che fec'ella?
LIII. Se brutta, poco mal; ma sulle brage
arrostire una giovine bellezza,
sono cose, per Dio, troppo malvage;
e in Milano son matti da cavezza. –
Mentre va col pensiero in queste ambage,
la tromba replicò: – Se la prodezza
d'un cavalier cortese non t'ajuta,
povera Dorotea, tu sei perduta! –
LIV. A questo grido nel Bastardo sorge
di soccorrer la donna alto desire:
perché, dovunque occasion si porge
di far palese il generoso ardire,
vendicando un oltraggio, ei non iscorge
che il dover degli eroi. Senz'altro dire,
– Qua, disse al suo corsier, vola veloce
ove ti chiama dell'onor la voce. –
LV. Tosto l'asino aprì le sue grand'ale:
un cherubin va meno a precipizio.
Già la città si mostra ove il ferale
rogo s'appresta per lo rio supplizio:
trecento sgherri, timida e brutale
canaglia, ingorda ognor di malefizio,
fan largo, divietando all'affollato
popolazzo l'entrar nello steccato.
LVI. Dappertutto le dame alla finestra
attendon l'ora col pianto alle ciglia:
l'arcivesco, stipato a manca e a destra
dalla chiercuta sua negra famiglia,
dal balcone qua e là l'occhio balestra
in aria d'uom che niente se ne piglia.
Fra quattro arcieri intanto ecco in catene
nuda in camicia Dorotea se n' viene.
LVII. Disperazion, confusione, affanno,
che il cor di mezzo al petto omai le han tolto,
su' begli occhi una nugola le fanno
d'amaro pianto che le copre il volto.
Vede il rogo feral traverso il panno
delle lagrime sue: lo vede, e, sciolto
ogni freno al dolor che la ferìa,
fra i singulti al parlar schiude la via.
LVIII. – O caro amante, o tu che nel cor mio
anche in questo terribile momento... –
Né dir oltre poté; l'onda del rio
dolor sul labbro soffocò l'accento.
Cadde, e cadendo balbettar s'udio
il nome dell'amante; e immoto e spento
ogni color, parea giglio reciso:
ma il pallore era bello in su quel viso.
LIX. Un certo mascalzon, denominato
Sacrogorgone, un vile che l'Orlando
era dell'arcivescovo, impugnato
un coltellaccio ch'egli avea per brando,
di ferro il capo e d'impudenza armato,
verso il rogo s'avanza, alto gridando:
– Signori, udite; io giuro a Dio che rea
e degna di quel foco è Dorotea.
LX. Avvi alcun che ne prenda la difesa?
avvi alcun che pugnar voglia per lei?
Se v'ha chi porsi ardisca a questa impresa,
venga innanzi e si mostri a gli occhi miei:
con un colpo di questo alla distesa
darògli un tasto nel memento mei. –
In così dir, levando il coltellaccio,
fieramente cammina e fa il bravaccio.
LXI. Torcea gli occhi e la bocca sozza e nera,
sì che al feroce aspetto ognun fremea,
che fosse oso pugnar per Dorotea.
Sacrogorgon pigliava aria più fiera:
piangevan tutti, e niun gli rispondea:
e il nostro monsignor reverendissimo
dal balcone al briccon dicea: – Bravissimo. –
LXII. A Dunoè, che in aria sulla piazza
pendea librato, di costui l'ardire
parve una cosa stravagante e pazza:
dall'altra parte il pianto ed il martire
di Dorotea rendea quella ragazza
sì commovente e bella in sul morire,
che il cavaliero a prima vista ha scorto
ch'ella è innocente e che si muore a torto.
LXIII. Salta a terra, ed in suono alto di sdegno,
– Son io, gli grida, faccia d'impiccato,
che qui col mio coraggio a provar vegno
che di costei gli è falso ogni reato;
che un mentitore, uno spavaldo degno
di mille forche, un partigian sfacciato
pria dir mi debbe di che vuolsi rea.
LXIV. Vo' saper sue vicende, e per qual dura
legge in Milano abbruciansi le belle. –
Disse: e il popolo applaude, e di sicura
speme e di gioja un grido alza alle stelle.
Sacrogorgon si muore di paura;
pur simula baldanza. Anche la pelle
di monsignor s'increspa, ed il mentito
volto mal cela il cor già sbigottito.
LXV. Rivolse allor magnanimo e gentile
l'eroe la voce a Dorotea, che i rai
china, e sospira, e in doloroso stile
il tenor conta de' sofferti guai.
L'asino asceso in cima al campanile
parea del caso intenerito assai;
e il Milanese a benedir si mette
Dio, cui prende pietà delle tosette.
È quel medesimo paggio su le cui parti deretane Giovanna avea disegnato tre fiordalisi.
Verso del Tasso (Gerus., c. II, ott. 16).
Fréron, La Beaumelle, Nonotte.
Ivi, v. 5:
Vedi intorno al Sabatier, detto qui Savatier per ischerno, e intorno pure a tutti quelli altri signori, il testo e le note del XVIII canto.