IntraText Indice | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText |
I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio
Del suo furtivo ed infelice amore
l'aspro successo Dorotea racconta,
e come, acceso di nefando ardore,
lo zio prelato le volea far onta.
Poi come in man del crudo inquisitore
la die' l'infame. Ciò sentendo, monta
in furia Dunoè, che l'insolente
sbirraglia uccide e salva l'innocente.
I. Quando fui nell'april degli anni miei
abbandonato dalla donna mia,
morir dalla tristezza io mi credei,
e d'amor detestai la frenesia;
ma con lingua indiscreta unqua colei
non offesi che l'alma mi rapìa,
né mai di farla dolorosa il nero
disegno mi passò per lo pensiero.
II. Non è mio stile un cor porre in tormento:
e, se benigno io sono alle infedeli,
con più ragion voi fate indi argomento
che più rispetto i' porto alle crudeli.
Uom che, spinto da falso sentimento,
a vendicarsi d'una donna aneli
cui soggiogar non seppe e farla amante,
fa il peggio che mai far possa un birbante.
III. Se un bel volto che t'abbia il cor ferito,
ugual non sente l'amoroso ardore,
giogo cerca più dolce: amor schernito
per tutto trova medicina al core.
Bevi spesso: anche questo è buon partito.
Fosse piaciuto a Dio che monsignore,
pria che furia d'amor crudo il facesse,
questo consiglio seguitato avesse!
IV. All'afflitta donzella il gran Bastardo
già speranza e coraggio avea renduto;
ma il fallo, di che rea qualche bugiardo
l'ha fatta, non ancora egli ha saputo.
– Oh tu, diss'ella, ed abbassò lo sguardo,
angel divino, che, dal ciel venuto,
qui ti recasti alla difesa mia,
tu ben sai se innocente o rea mi sia. –
V. Dunoè le rispose: – Uomo son io,
qui da strana portato alta ventura
a preservar da sì crudele e rio
scempio una tanto bella creatura.
Non lègge in cor mortale altri che Dio:
eppur vi credo virtuosa e pura.
Vostre sventure non ho mai sentite,
né le saprò, se voi non me le dite. –
VI. Tergendo Dorotea le lagrimose
stille correnti da' begli occhi suoi,
disse: – Amor solo in tal pena mi pose.
Il bel Trimuglio conoscete voi? –
– È il mio amico miglior, l'altro rispose,
ed anima più bella han pochi eroi:
non ha re Carlo più fedel guerriero,
né il nimico un nimico così fiero.
VII. Fra quanti cavalier son prodi in arme,
null'altro più rispetto ed amor merta. –
– Gli è ver, diss'ella. È un anno, e un secol parme,
ch'egli in Milano mi lasciò deserta.
Qui amommi, ahi lassa!, e qui giurò d'amarme
costantissimamente: ed io son certa
ch'egli m'ha fido il suo gran cor serbato,
ch'ei m'ama ancora, perché troppo è amato. –
VIII. – Dubbio o sospetto di quell'alma amante
nessun vi prenda, o nobile donzella,
della sua fedeltà l'esser sì bella.
Ben lo conosco; egli è, qual io, costante
nell'amor del suo re, come di quella
ch'egli una volta del suo amor fe' dea. –
– Ah vel credo, signor, – l'altra dicea.
IX. Oh fortunato il dì ch'io lo mirai,
che dinanzi a me venne il giovanetto,
più bel, più buono, più gentil d'assai
d'ogni mortal nel garbo e nell'aspetto!
Signor del mio pensiero io lo creai,
e l'amava anche pria che l'intelletto
aver potesse conoscenza intera
se fatta io n'era amante, oppur non era.
X. Fu (con gioja il ricordo) ad un convito
dell'Arcivesco, che l'eroe garzone,
più fervido d'amor che d'appetito,
mi fe'... mi fe' la sua dichiarazione.
Un foco m'infiammò non più sentito:
persi il parlar, la vista e la ragione:
dei perigli d'amor nulla i' sapea,
né mangiar dal contento più potea.
XI. Il giorno dopo a visitar mi venne,
ma fu visita breve e lesta lesta.
Mentre ei partiva, il cor mettea le penne
per seguitarlo, e gli dicea: T'arresta!
Il dì dopo più a lungo si trattenne
da solo a sola, ma con guisa onesta.
Il premio di due baci il giorno appresso
da' miei labbri rapir gli fu concesso.
XII. Il giorno dopo più vantaggio ei prese,
e di farmi sua sposa mi giurò.
Il giorno dopo più la cosa estese...
Il giorno dopo alfin m'ingravidò.
Ahi perché l'error mio vi fo palese,
quando chi voi vi siate ancor non so?
Poiché le mie sventure udir volete,
piacciavi, degno eroe, dirmi chi siete. –
XIII. Allor, per puro d'obbedir desìo,
senza vantar sue gesta, il cavaliero
le fe' risposta: – Dunoè son io;
ed aggiunger di più non fa mestiero. –
– Dio, riprese la donna, o giusto Dio,
che il mio prego esaudisti, e sarà vero
che tua bontà spedisca a darmi ajuto
il braccio d'un eroe così temuto?
XIV. Generoso, magnanimo Bastardo,
nobilissimo core, alma sublime,
la vostra cortesia, s'io ben riguardo,
palese il vostro nascimento esprime:
misera amor m'ha fatta, ed un gagliardo
figlio d'amor mie pene ecco redime.
Giusto è il cielo, e l'afflitta alma smarrita
apre l'ali alla speme a tanta aita.
XV. Dovete, cavalier, dunque sapere
che dopo alquanti mesi irne alla guerra
fu costretto il mio sposo: un tal mestiere
sia maledetto e tutta l'Inghilterra!
Ei la voce ascoltò del suo dovere;
io restai disperata in questa terra.
Uno stato sì rio, certo, o signore,
voi conoscete, e che ne costa al core.
XVI. Questo crudo dover tutte egli solo
fa le nostre sventure: io lo provai
lagrimando, e nel cor chiusi il mio duolo,
morendo senza lamentarmi mai.
Pegno d'amore, ond'io pur mi consolo,
lasciommi il suo ritratto, in che trovai,
ingannando la sua crudele assenza,
mille volte trovai la sua presenza.
XVII. Un braccialetto inoltre lavorato
de' suoi crin biondi mi lasciò con esso;
un dolcissimo scritto, che vergato
fu dal dito d'Amor, d'Amore istesso.
Era questo, o signore, un attestato
della giurata fede, un segno espresso
de' suoi teneri e sacri sentimenti,
concepito nei termini seguenti:
XVIII. – Io giuro per l'amor, pel sovrumano
piacer che l'alma ancor m'incanta e bea,
di presto ritornarmene a Milano
a sposar la mia cara Dorotea. –
Così partissi, e corse in Orleano
il valore a portar che l'accendea.
Ahi lassa! e dentro quella ròcca ancora,
ove onor lo chiamò, forse dimora.
XIX. Oh i miei mali ei sapesse, e il prezzo orrendo
che qui raccolgo de' miei casti amori!
Oh il sapesse!... Ma no! meglio, il comprendo,
gli è meglio, o giusto ciel, che tutto ignori.
Ei dunque fe' partenza; ed io, fuggendo
della città i sospetti ed i romori,
cercai ne' campi un queto ermo ritiro
al mio stato conforme e al mio martiro.
XX. Orfana, sola, e libera nel mio
gran duolo, ascosa a tutti gli occhi, al mondo,
seppellii nel mistero e nell'oblio
i pianti e i segni del mio sen fecondo.
Ma la nipote, per mio mal, son io
dell'Arcivesco. – Ed un sospir profondo
trasse dal cor la donna a questi accenti,
i singhiozzi doppiando ed i lamenti.
XXI. Poi, tutta in pianto, al ciel volgendo il ciglio,
– Dell'amor mio furtivo, soggiungea,
in quel segreto solitario esiglio
già dato in luce il dolce frutto avea.
Del mio duol consolandomi col figlio,
dell'amante il ritorno ivi attendea,
quando il diavol, cred'io, mise nel core
uno strano capriccio a monsignore.
XXII. Gli mise in capo di veder la mesta
nipote in fondo a una campagna, e quale
vita vi mena; e per la mia foresta
dimenticò il palazzo episcopale.
La mia poca beltà gli die' alla testa;
questo caro del ciel dono fatale,
questa beltà, che or tanto maledico,
mortalmente ferì quell'impudico.
XXIII. Spiegossi: e chi può dir la mia sorpresa?
Del dover di suo stato io gli parlai,
dei legami del sangue; e che l'impresa
era piena d'orror gli dimostrai,
e oltraggiosa a natura ed alla Chiesa
sovra ogni modo: in somma, adoperai
tutti argomenti; ma parlai col sordo,
e fu vano ogni prego, ogni ricordo.
XXIV. Di speranze chimeriche pasciuto,
si lusingava che il mio cor ritroso
amor non conoscesse, e prevenuto
non l'avesse alcun senso affettuoso.
Quindi il trionfo fu da lui tenuto
il più facile e men pericoloso;
quindi di brame ributtanti e impure
e di noje m'oppresse e di premure.
XXV. Un giorno, oimé, che, in preda al mio cordoglio,
quella dolce promessa in man tenea,
di lagrime bagnando il caro foglio,
mi fu sopra il crudel, mentre leggea;
e, con rabbia strappando e con orgoglio
lo scritto che i miei casi contenea,
lesse, e vide in quel foglio (oh Dio!) fatale
la mia fiamma segreta e il suo rivale.
XXVI. E vinto da furor, da gelosia
e da lussuria in lui fatta più fiera,
sempre sull'erta, sempre sulla spia,
scoprì ben tosto che già madre io m'era.
Certo uscito in quel punto altri sarìa
d'ogni sperar; ma il prete, anima nera,
più appetenza ne prese e più coraggio,
tutto su me sentendo il suo vantaggio.
XXVII. – Bravissima! (dicea) dunque voi fate
con me solo la saggia e la ritrosa?
ed interi i favor vostri serbate
al tristo che v'ha fatto quella cosa?
e oppormi appresso resistenza osate?
Poiché non merti l'amor mio, fraschetta,
renditi, o trema della mia vendetta. –
XXVIII. A' suoi ginocchi io mi gettai tremante,
Dio chiamando, e piangendo, meschinella.
Ei, d'amore e di rabbia delirante,
in quello stato mi trovò più bella:
mi riversa sul letto e petulante
già mi stende, già m'alza la gonnella;
ma soccorso gridai: del resto.... oh Dio,
soffrir tal onta da un prelato e zio?
XXIX. Tutto allora l'amor volge in disdegno,
e di pugni mi pesta il viso afflitto.
Corre gente allo strepito, e l'indegno
giunge al primo più grave altro delitto:
– Cristiani, egli gridò con tale un segno
di raccapriccio e d'uom tutto sconfitto,
la mia nipote è un'empia; ed io per unico
zelo dal ciel la scarto e la scomunico.
XXX. Sappiate che un eretico, un dannato
subornator, consenziente lei,
l'onor le ha tolto, e 'l figlio di lor nato
è frutto d'adulterio in facie Dei.
Or dunque Dio ne stermini il peccato
nella madre e nel figlio, e, poiché i rei
han già incorsa la mia maledizione,
sien tradotti alla Santa Inquisizione. –
XXXI. Disse, e al vento non fu sparsa la voce
né la minaccia. L'inumano il piede
mette appena in città, che del feroce
inquisitore in potestà mi cede.
Mi pigliano, mi gettano veloce
in loco che di sol raggio non vede,
sotterraneo profondo, ove mio solo
amarissimo cibo è 'l pianto e 'l duolo.
XXXII. Scorsi tre giorni, traggonmi da quella
stanza di morte e tomba dei viventi,
ma per morir nell'età mia più bella
fra queste fiamme incesa e fra i tormenti.
Questo è il letto di morte che m'appella:
qui spirar mi conviene, e qui di venti,
di venti anni, signor, mi fia rapita,
senza voi, coll'onore ancor la vita.
XXXIII. Più d'un guerriero a mia difesa estrema
avrìa chiesto l'agon; ma tutto invola
dai cuor l'ardire dello zio la téma,
e ognun di chiesa agghiaccia alla parola.
Che da gente sperar che fugge e trema
d'una chierca alla vista e d'una stola?
Ma un cor francese di terrore è spoglio,
e sfiderebbe un papa in Campidoglio. –
XXXIV. Sprone acuto all'onor del cavaliero
fu questo ragionar dell'innocente.
Dell'accusata il volto lusinghiero,
l'orror del vile che la fea dolente,
tutto a un tempo assalendo il suo pensiero,
d'ira lo fanno e di pietà fremente:
già di vincer sicuro, onde far prova
del suo valore, loco ei più non trova.
XXXV. Ma stupito restò, quando una stiva
vide intorno di sgherri, che di dietro
mentre un chierco in sottana da feretro
ed in quadrato berrettin s'udiva
gridare in cupo lamentevol metro:
– Da parte della Chiesa e del piissimo
nostro degno pastor reverendissimo,
XXXVI. per la gloria divina si notifica
a qualunque devoto e buon cattolico
qualmente il forestier, che si qualifica
campion di Dorotea, mostro diabolico,
danniamo al foco, stante la verifica
ch'egli è mago, pagano, anticattolico:
perciò tosto si bruci ed esso e il ciuccio.
Firmato: il padre inquisitor Copuccio. –
XXXVII. Oh in veste di prelato empio Busiri!
del tuo mestier ben degno è l'artifizio.
Questo campion tu temi, e quindi il tiri
nell'artiglio, se il puoi, del Santo Uffizio.
Così col pianto di giustizia aspiri
a celar il tuo nero malefizio,
opprimendo chi può squarciarne il velo:
ma, se il mondo è minchion, veggente è il cielo.
XXXVIII. Dal Sant'Uffizio accorre, non mai tarda
ai delitti, la ciurma, e già si crede
il nostro eroe ghermir: ma la codarda
due passi avanza e tre ne retrocede;
poi di nuovo s'avanza, e poi sogguarda,
fassi il segno di croce, e ferma il piede.
Sacrogorgon lor duce – Andiam, gridava,
o si prenda o si muoja! – e poi scappava.
XXXIX. Tutti intanto i canonici in roccetto
sulla piazza coi chierci s'indirizzano.
Un tiene l'aspersorio, uno il secchietto
dell'acqua salsa con la qual si sprizzano
in giro all'assemblea la fronte e il petto.
Strapazzano il demonio e l'esorcizzano,
e tremando il prelato bacchettone
trincia a tutti la sua benedizione.
XL. Saltò la mosca a Dunoè, mirando
che per un messo del tartareo regno
costor l'han preso; e 'l formidabil brando
con fierezza impugnato e con disdegno,
ed un rosario nella manca alzando
(sacro amuleto e manifesto segno
ch'ei Cristo adora), – Nel nome di Dio
a me, disse, a me tosto, asino mio! –
XLI. Scende la bestia, e Dunoè la monta
superbamente, e in men che non si volta
una palma di man, la torma affronta
di quei furfanti temeraria e stolta.
Ad un la lancia nello sterno ponta;
ad un l'orecchio, ad un la spalla è tolta:
quei l'osso atlante ha rotto, e a questi, oh caso!
cader si vede la mascella e 'l naso.
XLII. Altri muore, altri langue, ed altri piglia
la fuga orando, e per qual via non mira.
Seconda il fier somaro a meraviglia
del Paladino l'ardimento e l'ira:
in mezzo alla crudel strage vermiglia
vola, morde, spetezza e calci tira,
e col pie' vincitor calpesta quella
d'atterriti facchini atra procella.
XLIII. Sacrogorgon con gli altri anch'ei si mesce
e a calata visiera alto tarocca;
ma poi rincula, ché morir gl'incresce.
Dunoè lo raggiunge e gliel'accocca,
nel pube gliel'accocca: il ferro gli esce
sanguinoso pel cul: l'empio trabocca:
e il popolazzo, che cader l'ha scorto,
grida: – Lodato Iddio, quel birbo è morto! –
XLIV. Lo scellerato ancor si dibattea
con palpitante cor sopra l'arena,
quando l'eroe gli disse: – Anima rea,
il diavolo laggiù t'aspetta a cena.
Confessa che un mitrato da galea,
uno spergiuro, un ladro, una cancrena
di vizi è l'Arcivescovo: confessa
che sua nipote è l'innocenza istessa;
XLV. ch'ella è fedele al suo fedele amante,
e che uno sciocco, un mascalzon tu sei. –
– Sì signor, sì signor, sono un furfante,
sono uno sciocco, è chiaro, ha ragion Lei:
la sua spada provollo già bastante... –
E dir non poté mente, e corse a' rei
nel foco eterno. Così da poltrone
morì l'altiero e fier Sacrogorgone.
XLVI. Nel punto che l'infame masnadiero
a Belzebù rendea l'alma sprezzata,
ecco in piazza arrivare uno scudiero
portante lancia d'oro e la celata.
Due postiglioni gli facean sentiero
con livrea che di giallo è ricamata:
sicuro indizio che lontan non era
un qualche cavalier di prima sfera.
XLVII. A quella vista Dorotea rapita
d'amor, di meraviglia: – E non m'inganno?
che sia desso, gran Dio? ch'abbia sentita
il ciel pietade del mio lungo affanno...?
ch'io sia dagli occhi e dal desìo tradita? –
Così parla la bella. Intanto stanno
a guardar lo scudiero e i postiglioni.
XLVIII. Ma tu, caro lettor, non ti vergogni
quel popolo imitar leggero e vano,
che sì con gli occhi della mente agogni
veder che dopo avvenne entro Milano?
Lo scopo è questo del lavor cui, d'ogni
tuo ben desideroso, ho posta mano?
Pensa a Carlo, lettor, pensa alla dura
oste che stringe d'Orlean le mura.
XLIX. Pensa all'invitta amazzone donzella
vendicatrice della Fiordiligi,
che, a centauro simìl, senza gonnella,
senza cuffia se n' corre, e fa prodigi,
più che nel suo valor, modesta e bella,
in Dio sperando e nel suo buon Dionigi,
che per Francia salvar par che la voglia
contro san Giorgio, e in ciel le carte imbroglia.
L. Soprattutto, o lettor, dell'avvenente
tenera Agnese ricordar ti déi,
e lo spirto aver pieno, il cor, la mente
della dolcezza di quegli occhi bei.
Chiunque gentilezza ed amor sente,
parmi che debba dilettarsi in lei.
Ov'è l'alma sì dura e sì malnata
che d'Agnese non resti innamorata?
LI. E il prodigio, a dir ver, con che dal foco
tolse il ciel Dorotea, gli è caso raro:
ma se l'oggetto a cui nel cor dài loco,
che sospiri ti costa e pianto amaro,
casca in braccio ad un prete, o sembra un poco
per un paggio languir fiorito e caro,
il caso è forse più comun: l'evento
non ha bisogno di verun portento.
LII. Gli è sol per questo che mi aggradan tanto
quelle avventure che van via senz'arte,
il cui successo al ver s'appone in quanto
dalla via natural non si diparte:
perché son uomo io pure, e aver mi vanto
nell'umane follie la mia gran parte:
amai pur io nei dì che aprile infiora,
e il palpito del cor m'è dolce ancora.