François-Marie Arouet de Voltaire
La pulcella d'Orléans

CANTO OTTAVO

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CANTO OTTAVO

 

 

ARGOMENTO.

 

Viaggia di Loreto al santo ostello

con Dorotea Trimuglio. All'osteria

Rosamora ei ritrova ed Arondello

che superbo gli dice villanìa.

Mentre fanno fra lor fiero duello,

le due belle un ladron portasi via.

Fan pace per seguirla i due lor drudi;

ma stramazzano al suol feriti e nudi.

 

 

I. Egli è pur saggio interessante ed atto

questo libro a formar lo spirto e il core:

della virtù qui vedi ad ogni tratto

il trionfo sul vizio e sull'errore;

qui l'ordin, qui l'onor de' forti intatto,

e il regal dritto e il femminil pudore;

e un giardin che t'incanta e nel suo bello

sempre si varia che non par più quello.

II. Dappertutto vi regna la modestia,

castità, de' bei fiori il fior più grato,

simile al giglio che la bianca testa

alza vergine al ciel che l'ha piantato.

Figli miei, figlie mie, leggete questa

morale elementar che Dio n'ha dato

per le mani del nostro gran dottore

don Tritemo, del suo tempo splendore.

III. Di Giovanna e d'Agnese l'avventura

per suo tèma pigliò questo erudito;

ed io l'ammiro, e stimo assai ventura

l'aver sempre altamente preferito

castigata ed utile lettura

a quei romanzi di gusto scipito,

che, di vuoto cervel languenti aborti,

veggonsi nati tutto l'anno e morti.

IV. Di Giovanna al contrario la verace

famosa istoria trionfar vedrai

dell'invidia e del tempo: il ver mi piace,

e il solo vero non perisce mai.

Ma di questa eroina (abbilo in pace),

lettor, le imprese in altro tempo udrai,

ch'or Dunoè con Dorotea mi chiama

e quel Trimuglio che cotanto ell'ama.

V. Grandi sono i lor dritti al canto mio,

e schietto io debbo confessar che tu

n'hai del par di saper quale n'uscìo

da questo amor bell'opra di virtù.

Presso Orlean ricorderai, cred'io,

che Trimuglio, l'onor del Poitù,

pugnando con valor pel suo sovrano,

fino alla gola andò dentro un pantano.

VI. I suoi scudier con infinito stento

dalla gora tiràr di quel fossaccio

l'eroe contuso in cento parti e in cento,

un gomito dirotto e svolto un braccio.

Per le mura assediate a salvamento

portando lo brutto il mostaccio;

ma Talbò, che le cose antivedea,

precisi i passi d'Orleano avea.

VII. Per timor di sorpresa a Tursi addutto

fu il paladin per torte vie segrete;

città che il fato non iniquo in tutto

serbò fedele al re, come sapete.

Un veneziano ciurmador, condutto

dal caso, con sagge arti discrete

il braccio gli rimise che s'imperna

nell'ómero ed il moto ne governa.

VIII. Lo scudier, ch'era destro in avvertenza,

gli avvertì che in quel punto ei non potea

di Carlo ricondursi alla presenza,

perché il nemico ogni sentier chiudea.

Ma il cavalier, che viver non può senza

la sua diletta e bella Dorotea,

per uscir della noja in che languisce,

di cercar la sua donna statuisce.

IX. Fra mille rischi adunque al bel paese

de' Lombardi se n' corse. Di Milano

giunto alle porte il nostro poitese,

lo cinge, l'urta, il preme una gran mano

di popolo imbecille e discortese,

che con stupido sguardo e pie' villano

corre in città dai campi più vicini:

preti, frati, borghesi, contadini,

X. madre, figlie, ragazze; ed un fracasso,

un concorso, un subbuglio disonesto:

ognuno a gara precipita il passo:

e si cade, e si grida: – Facciam presto;

non avrem tutti i bello spasso. –

Dimanda il paladin: – Che vuol dir questo? –

e narrangli del rogo che la pia

lombarda gente a contemplar venìa.

XI. – Ciel! la mia Dorotea? – Dir questi accenti,

dar di sprone e partir fu un punto solo.

Il cavallo par ch'abbia al piede i vènti,

né l'occhio può veder se tocchi il suolo:

vola sopra la testa a quelle genti,

come sopra le frasche un calenzuolo,

e in quattro salti, o in meno, per dir vero,

trasporta nella piazza il cavaliero.

XII. Vede egli qui l'intrepido Bastardo

che lo stuol tutto di quei mostri ha spento,

e la sua Dorotea, che appena il guardo

osa levar nel suo desolamento.

Il nostro eloquentissimo piccardo

don Tritemo, con tutto il suo talento,

darne mai non poté giusto natura

di sì tenero quadro la pittura.

XIII. Lo stupor dico e il gaudio a cui s'aprìa

quella bell'alma nel veder l'amante.

E qual pennello colorir potrìa

mosse d'affetto così dolci e tante?

il dolor che nel volto le morìa,

il giubilo che inonda il cor tremante,

la vergogna e il pudor che a poco a poco

dànno all'ardente tenerezza il loco?

XIV. Ebbro d'amor Trimuglio lunga pezza

tiensela in braccio, dolce peso e caro,

stanca, languente e in mezzo alla dolcezza

molle i rai tuttavia di pianto amaro.

Abbraccia ei quindi e bacia di allegrezza

or l'amante or l'amico ora il somaro,

mentre tutto il bel sesso alle ringhiere

batte le palme e piange di piacere.

XV. Per mezzo al rogo, che atterrato e spento

nuota nel sangue, il resto della corte

episcopal fuggìa per lo spavento;

sopra quella ruina il grande e forte

Bastardo sembra Alcide al portamento,

che, incatenato Cerbero e la Morte,

rimette Alceste al suo dolente sposo,

benché fosse in segreto un po' geloso.

XVI. Dorotea tra onorata e nobil gente

in lettiga s'addusse al proprio tetto,

dai due guerrier guidata. Il seguente

il generoso Dunoè soletto

a veder si recò cortesemente

l'amante coppia che si stava in letto,

e disse: – Amici, inutile qui fia

ai piacer vostri la presenza mia.

XVII. Al suo fianco Giovanna mi rappella

e al fianco del mio re: forza è partire.

Io sento che mal debbe la Pulcella

del suo ronzin la perdita soffrire.

San Dionigi, non conto bagattella,

m'è comparso nel meglio del dormire,

m'è comparso stanotte, e visto ho lui

tutto d'un pezzo come veggo or vui.

XVIII. Per servir dama e rege, al mio valore

ei die' la santa sua cavalcatura.

Servita ho Dorotea, grazie al Signore;

or vo' Carlo servir con egual cura.

Voi godetevi lieti il vostro amore;

io pel mio prence e per le patrie mura

vado a morir. Vi lascio; il tempo affretta;

l'onor mi chiama, e l'asino m'aspetta. –

XIX. – Io vi seguo a cavallo in sull'istante, –

Trimuglio ripigliò. – Lo bramo anch'io,

soggiunge tosto la sua bella amante:

antico m'arde di veder desìo

la feconda d'eroi corte galante,

e Carlo e la Giovanna, a cui fe' Dio

dono di tanto ardire, e la cortese

arbitra del suo re tenera Agnese.

XX. Certa io son che voi due senza discorsi,

o miei cari guerrier, mi condurreste

pur del mondo alla fin. Ma quando io corsi

rischio d'esser qui cotta, e lo vedeste,

segreto un vóto alla Madonna io porsi,

che, se per suo favor dalle funeste

fiamme alfin salva mi foss'io rimasa,

visitata n'avrei la santa casa.

XXI. La gran madre di Dio l'ardente e casta

mia prece intese dall'eteree sfere,

e il valor vostro, a cui non si contrasta,

scender qui fece sul divin somiere.

Voi mi toglieste alla feral catasta,

per voi vivo, e il mio vóto ho da tenere;

altrimenti la vergine Maria

tutta ragion di castigarmi avrìa. –

XXII. – Il vostro ragionare è giusto e saggio,

le rispose Trimuglio; assai m'aggrada;

e per me questo pio peregrinaggio

fassi sacro dover, sebbene ho spada.

Permettete ch'io pur sia del viaggio;

amo Loreto e vi farò la strada.

Voi levatevi, amico, alle stellate

pianure, e al campo di Blois volate.

XXIII. Dentro un mese colà v'arriverò

con madonna. E tu vieni, alma beltà,

a sciorre il vóto. Un altro io qui ne fo,

che de' begli occhi tuoi degno sarà.

Per tutto a lancia e spada io proverò

a chiunque dinanzi mi verrà

che niuna al paragon donna o donzella

fra le più chiare è così saggia e bella. –

XXIV. Chinò i begli occhi, e a quel parlar divenne

tutta vermiglia Dorotea. Leggero

ponta i piedi frattanto e sulle penne

ratto s'inalza il volator somiero,

e porta in men che non si dice un'enne,

del Rodano alle fonti il cavaliero.

Verso Ancona Trimuglio in via si pone

con la dama, amendue col lor bordone.

XXV. Copre il capo un cappel da pellegrino

guarnito di conchiglie benedette;

pende al fianco il rosario che d'òr fino

frammischiate di perle ha le pallette.

Lo recita sovente il paladino,

e, com'egli dice ave, ella vi mette

un sospiro in risposta, ed – Io t'adoro

è il ritornello degli oremus loro.

XXVI. Passano Parma e la città del Potta,

Bologna, Urbino, e accolti in liete fronti

dentro alteri castelli, allorché annotta,

sono da duchi, cardinali e conti.

Per tutto il Paladin, senza che rotta

fosse mai l'asta, o ch'altri se n'adonti,

provò che il mondo beltà non avea

più saggia e più gentil di Dorotea.

XXVII. Niuno osò contraddir l'affermativa

di sì grand'uom; tanto erano garbati

del paese i signor, tanto appariva

aver costumi a cortesia formati.

Alfine, del Muson giunti alla riva,

su la via che conduce a Recanati,

i nostri peregrini da lontano

vider la Santa Casa a manca mano.

XXVIII. Queste son le famose e sacre mura

di Nazarette, al Papa e al cielcare,

cui gli angeli di Dio che l'hanno in cura,

fecero un per l'aria alto volare,

simiglianti a una nave che sicura

fende col soffio di buon vento il mare.

A Loreto fermàr gli angeli il volo,

e il sacro muro si piantò nel suolo.

XXIX. Da sé stesso piantossi e prese fondo;

poi quanto aver di raro e di pregiato

e di bello può l'arte in quadro e in tondo,

tutto vi s'impiegò per farlo ornato

mercé i papi, padron veri del mondo

e vicarii di Dio, com'è provato.

I nostri amanti di cavallo scesi

contriti si gettaro al suol prostesi.

XXX. Quindi il suo vóto ognun sciolse con pia

offerta di bei doni, a larghe mani

benignamente accolti da Maria

e da' suoi reverendi cerretani.

Si recàr per lo pranzo all'osteria;

e fu qui che trovàr dei più balzani

cervelli il fiore, un duro e brusco inglese,

che a niun pensiero mai facea le spese.

XXXI. Venuto per ispasso a dar di naso

in Loreto era il tomo ch'io vi dico,

di quelle storie nulla persuaso,

e tutto il resto non curante un fico;

perfetto inglese, che viaggia a caso,

il moderno comprando per antico,

che tutti guarda come un barbassoro,

e i santi ha in tasca e le reliquie loro.

XXXII. Mortal nemico de' Francesi, avea

nome costui Cristoforo Arondello:

pien di noja l'Italia trascorrea

senza mai ridercavar cappello.

Un'amica poi seco conducea,

ancor più irosa e rustica; un cervello

che poco parla, ma, per vero dire,

fatta sul tornio, e bella da stupire;

XXXIII. in letto agnella, a tavola serpente,

e, secondo che mette il suo lunario,

mansueta, stizzosa ed insolente;

alfin, di Dorotea tutto il contrario.

Trimuglio, che sapeva intero a mente

delle buone creanze il dizionario,

con molta grazia ad amendue fe' tosto

un complimento, a cui non fu risposto.

XXXIV. Poi parlò della Vergine Maria,

poi raccontò siccome avea già fatto

a san Dionigi un vóto in Lombardia,

di sostener dovunque a brando tratto

di sua donna l'onor la leggiadria;

poi soggiunse a quel fiero: – Io non ribatto

della vostra i gran pregi, e credo ch'ella

soprattutto sia saggia al par che bella:

XXXV. credo inoltre (sebben la vereconda

d'un solo detto ancor non ci consola)

ch'ella di spirto e d'accortezza abbonda:

ma Dorotea di merto la sorvola.

Nol negate; del resto, irne seconda

la può senz'onta sulla mia parola. –

Il truce inglese, alla favella onesta,

dai piedi lo squadrò fino alla testa.

XXXVI. – Per Dio, poi disse, non m'importa un'acca

il tuo vóto a Dionigi; e, se mi frulla,

m'importa meno se giovenca o vacca

o saggia o pazza sia la tua fanciulla.

Ciascun deve del ben a cui s'attacca,

ir pago e non si dar vanto di nulla.

Ma, poiché tu qui vuoi con impudenza

sovra un inglese aver la preferenza,

XXXVII. voglio insegnarti, pazzo scimunito,

il tuo dover: ti mostrerò di botto

ch'ogni inglese in tai casi a qual più ardito

siasi francese fa pagar lo scotto;

che la mia donna, in viso e colorito,

sen, braccia e cosce, e quanto ella tien sotto,

anche in senno ed onor, senza jattanza,

questa zingara tua di molto avanza.

XXXVIII. Ancor ti proverò che il mio sovrano

(del qual, ti giuro, non fo stima alcuna),

quando voglia davver metterci mano,

abbasserà di Francia la fortuna,

e quel tuo re tre volte cristiano,

e l'eroina sua panciuta e bruna. –

– Or ben, riprese il buon Trimuglio, usciamo

tosto di questo loco, e combattiamo.

XXXIX Sostener mi lusingo a vostre spese

il mio re la mia patria e la mia dama.

Ma, perché vuolsi ognora esser cortese

e villania tra noi non die' mai fama,

del modo di finir nostre contese

lascio la scelta a tutta vostra brama:

a pie', a cavallo, tutt'uno mi fia:

la vostra scelta sarà scelta mia. –

XL. – A pie', per Cristo, a pie', disse il Bretone:

non vo' che parta meco la fatica

e l'onor della palma uno stallone!

A casa l'elmo, a casa la lorica.

Queste son armi tutte da poltrone:

fa troppo caldo, e battersi all'antica

non è caso. Alle corte, senz'arnesi

e nudo voglio sostener la tèsi.

XLI. Le due belle cagion di nostra lite

meglio dei colpi giudicar potranno. –

– Ben volentieri, – dignitoso e mite

rispose il buon Francese al fier Britanno.

Ma Dorotea, le rie disfide udite,

misera di timor trema e d'affanno,

benché, a dirla, in vedersi essa l'oggetto

del duello, in suo cor gode un pochetto.

XLII. Teme che d'Arondello una stoccata

non fóri e squarci al suo gagliardo Achille

la finissima cute, e desolata

il bacia e lava di dolenti stille.

All'inglese l'inglese imperturbata

porge ardir con secure alte pupille:

non conobbe mai lagrime il suo ciglio,

né il cor fiero esultò che nel periglio.

XLIII. I suoi graditi passatempi ognora

fur le zuffe dei galli in Inghilterra:

avea nome Giuditta Rosamora,

di Cambridge e Bristòl cara alla terra.

In campo chiuso e mozza ogni dimora,

ecco i nostri guerrier pronti alla guerra,

di rischiar lieti, in generosa lite,

alla patria e all'onor le proprie vite.

XLIV. La persona in profilo, alta la testa,

il ferro dritto, il braccio teso e il piede,

ciascun la spada incrocia, e con tempesta

in terza e in quarta fulminar si vede;

or si rannicchia, or s'alza, ora s'arresta,

or si copre, or si mostra, or cresce, or cede,

para e salta e fa finte; e si dàn bòtte

belle a vedersi, or scarse ora ridotte.

XLV. Tale in queta talor notte serena,

che veder chiaro in ciel lascia le stelle,

quando di Sirio il sol l'ire disfrena

e al celeste Lion scalda la pelle,

tutto d'intorno l'orizzon' balena

di mille sottilissime fiammelle

che fan barbaglio e, appena passa un lampo,

ratto un altro lo segue e riga il campo.

XLVI. Drizza Trimuglio un colpo di bravura

del superbo Cristoforo alla barba,

poi salta indietro e in guardia s'assicura:

Cristoforo, a cui poco il colpo garba,

risponde in terza, e, stretta la misura,

un altro all'avversario ne rimbarba;

lo ferisce alla coscia, e di sanguigne

stille il candido avorio gli dipigne.

XLVII. Mentre ognun più s'infuria e farsi uccidere

vuol nobilmente onde acquistar la stima

della sua donna, e per tal via decidere

qual debba di bellezze andar la prima,

un bandito del papa ecco a dividere

vien nel più bello quella calda scrima,

con la sua truppa entrato in quei cantoni

sol per farvi le sue devozioni.

XLVIII. Martinguerra il furfante era nomato,

ladro al chiaro e all'oscuro, e prode al ballo

di corsal, ma devoto e a dire usato

il rosario ogni giorno senza fallo,

onde mai non peccar. Vede nel prato

le due belle, e con lor più d'un cavallo

con bellissime selle, e cinque o sei

muli carichi d'oro e d'agnusdei.

XLIX. Li vide, e tosto non si vider piue:

e le donne e i cavalli e i muli attrappa

lesto lesto il ribaldo, e, delle sue

prede esultando, come lampo scappa.

Seguian lor pugna tuttavolta i due

combattenti, e ciascun si fóra e strappa

coll'impugnate fulminanti lame,

e tutto per onor di quelle dame.

L. Fu Trimuglio che avvidesi primiero

della sua dolce Dorotea sparita:

correr vede lontano il suo scudiero,

e riman come cosa stupidita.

La sua spada, il suo braccio, il suo pensiero

pèrdon subito e moto e forza e vita:

Arondello è di sasso, e come allocchi

restano tutt'e due con tanto d'occhi.

LI. Stati un pezzo co' bracci ciondoloni,

l'un contro l'altro con aperta bocca,

– Oh oh! (disse il Breton) Dio mi perdoni,

n'han rubate le donne; e noi qui sciocca-

mente ci diamo orrendi stramazzoni.

Corriam dietro al ladron che ce l'accocca;

racquistiamle; e, trovate che l'avremo,

pe' lor begli occhi all'arme torneremo. –

LII. Piacque l'avviso, differìr la festa

da buoni amici di lor donne in traccia.

Ma, fatta poca strada alla foresta,

l'un grida: – Oimé la coscia! oimé le braccia! –

– Oimé il petto! quell'altro, oimé la testa! –

e mancar vedi sulla smorta faccia

quello spirto animal che, i vasi in noi

irrigando del cor, forma gli eroi.

LIII. L'ardor che gli accendea, perduto elli hanno

col sangue che pugnando s'è consunto:

rotti, deboli, entrambi per l'affanno

cascano a terra ad un medesmo punto,

e rossa l'erba di lor sangue fanno.

Intanto gli scudier, perché raggiunto

sia Martinguerra, con veloci piante

n'inseguono la pésta e vanno avante.

LIV. Così que' nostri eroi senza vestito,

senza valletto, e più senza quattrini,

stesi a terra e di tutto a mal partito,

all'ultim'ora si credean vicini;

quando a ventura nel deserto lito

passò una vecchia, e, visti i due tapini

nudi, secchi, arrabbiati, avvicinosse,

e di lor stato a pietà si commosse.

LV. Alla sua casa sopra una barella

portar gli fece, e con ristorativi

lor fe' tosto tornar fiorita e bella

la carne e i sensi vigorosi e vivi.

Oprar potea la buona vecchierella

questo raro prodigio, perché quivi

ella avea quell'odor, con buon rispetto,

che odor fra noi di santità vien detto.

LVI. Né beata, né santa avvi per tutto

il devoto paese anconitano

in cui la grazia del Signor con frutto

si palesi più chiaro e sovrumano.

Predice il tempo buono e il tempo brutto;

con olii e preci vi rimanda sano

d'ogni ferita, s'è leggera, e il core

spesso converte ancor del peccatore.

LVII. Le contaro i lor casi i due guerrieri

E la pregàr che il suo consiglio aprisse.

Raccolse la vegliarda i suoi pensieri,

la Madonna invocando, e così disse:

Ite in pace ed amate, o cavalieri,

le vostre donne ognor, ma senza risse;

non vogliate ammazzarvi a lor cagione,

e amatele con santa intenzione.

LVIII. So dirvi intanto che in un brutto affare

or si stan elle. La lor sorte ria

compiango e voi; perciò d'uopo è trovare

tosto abiti e cavalli e tornar via.

Ma badate il sentier non isbagliare.

Il ciel si degna per la bocca mia

farvi aperto saper che per trovarle

non altro s'ha da far che seguitarle. –

LIX. Trimuglio del discorso fu incantato.

Credo al suo profetar, disse l'Inglese:

il ladro seguirem, poiché trovato

avrem buoni cavalli e buon arnese. –

– Il tutto vi sarà somministrato,

la vecchia replicò, con poche spese.

Per vostra sorte è qui un figliuol d'Abramo

fatto per far servizi, e ve lo chiamo. –

LX. Chiamato comparì questo portento

d'onestà, questo fior de' sprepuziati,

e gentilmente al quaranta per cento

duemila scudi a lor ebbe prestati,

giusta gli us che nel vecchio testamento

al popol santo da Mosè fur dati;

e il ritratto profitto fu diviso

fra quella santa vecchia e il circonciso.

 

 

NOTE AL CANTO OTTAVO

 

Ottava 11, v. 8:

Don Tritemo è il Turpino del Voltaire. V. Il principio del c. XV.


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