François-Marie Arouet de Voltaire
La pulcella d'Orléans

CANTO NONO

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CANTO NONO

 

 

ARGOMENTO.

 

L'ardita Rosamora a Martinguerra,

tremando Dorotea, taglia la testa:

Trimuglio ed Arondel cercan per terra

e per mare in balìa della tempesta

le rapite lor donne. I lidi afferra

della Provenza quella coppia e questa,

e a tutti quattro avvien sul balzo arcano

di Maddalena un dolce caso e strano.

 

 

I. Due guerrier, che a cavallo od alla scrima

siansi portate aspre percosse e crude

col brando o tronco di ferrata cima,

le membra armate di lorica, o nude,

l'uno ha per l'altro una segreta stima,

e ciascun d'essi esalta la virtude

e i colpi mastri del rival suo degno,

soprattutto passato ogni disdegno.

II. Ma se dopo il duel qualche sciagura,

qualche rio sconcio avvien, qualche accidente

ch'entrambi li percota, ell'è sicura

che il disastro gli unisce immantinente.

Madre dell'amicizia è la sventura,

e due miseri eroi subitamente

son due fratelli. Il caso iniquo e fello

di Trimuglio lo dica e d'Arondello.

III. Questo Arondello da natura tenne

un'alma rozza, indifferente, altera;

ma per Trimuglio allor molle divenne

quel cor che prima tutto di bronzo era.

E il buon Trimuglio, che allacciato venne

da' bei modi che formano la vera

amistade, seguì l'impulso in questo

del suo tenero cuor franco ed onesto.

IV. – Oh quanto mi conforta, egli dicea,

dolce amico, la vostra cortesia!

La mia bella e diletta Dorotea

mi fu dai ladri, oimé, portata via!

Ma rintracciar colei che il cor mi bea,

m'aiterà la vostra gagliardìa;

ed io, per porvi in braccio a Rosamora,

contento affronterò la morte ancora. –

V. Partìrsi adunque di conserva, e tosto

i due novelli amici innamorati

drizzaronsi a Livorno, sul deposto

d'un falso avviso, e si trovàr gabbati.

E il rubator tenea cammino opposto;

sì che, mentre colà da disperati

correan gli amanti, il tristo senza pena

la ricca preda assesta e via la mena.

VI. Fuor di strada la mena in sicurezza

dentro squallida ròcca al mar vicina:

casa d'orror, di lutto e di tristezza

fra Gaeta sepolta e Terracina.

L'insolenza v'alberga e la schifezza,

l'indecenza la gola e la rapina

e la fervida ebbrezza co' suoi figli,

le discordie le risse e li scompigli.

VII. L'impudicizia sporca e violenta,

che le fiamme d'amor spegne più tènere,

e tutti in breve i vizi che fomenta

ne' cor vili il furor di Bacco e Venere,

ivi fanno veder cosa diventa,

a sé stesso lasciato, l'uman genere.

Di Dio stupenda immagine perfetta,

ecco come l'han fatta, poveretta!

VIII. Giunto in quella biscazza, lo sfrontato

corsar si mette al desco, e le due belle

senza riguardi fa sedersi a lato:

ei siede in mezzo e mangia a crepapelle.

Cionca alla lor salute, e avvinazzato

dice loro così: – Madamigelle,

convenite fra voi chi dée venire

stanotte di voi due meco a dormire.

IX. Quanto a me, per me tutto è indifferente,

tutto si aggiusta e fa lo stesso effetto:

sia bionda o bruna o bassa od eminente,

in Cristo creda o creda in Maometto,

francese o inglese, non mi cal niente.

Stiamo allegri e beviamo. – A questo detto

sulle guance montò di Dorotea

un rossor che più bella la rendea.

X. Singhiozza, e sui begli occhi all'infelice

densa una nebbia di dolor s'aggrava,

donde pioggia di lagrime si elice

che il bel naso le riga e il mento lava;

il mento dove Amor le fea, si dice,

una pozzetta un ch'ei carezzava

quell'angelico volto: or vi concludo

ch'ella è sepolta in duol profondo e crudo.

XI. Ma l'inglese Giuditta in suo pensiero

si raccolse un momento, e, riguardando

l'empio corsaro, con sembiante altero

certo moto di testa accompagnando,

Vo', diss'ella, aver io l'onor primiero

di passar questa notte al suo comando.

Vedrem che puote nel letto alle prese

con un bandito una donzella inglese. –

XII. A questo dire il bravo Martinguerra

d'un gran bacio l'imbratta e la sparnazza.

Viva, ei grida, le donne d'Inghilterra! –

poi la ribacia e vòta una gran tazza,

ne vòta un'altra, e incanna, e beve, e sferra

canzonacce e bestemmie, e poi sghignazza,

e villano, con man lubrica e rea,

Rosamora tasteggia e Dorotea.

XIII. Piange questa, ma l'altra né sembiante

cangialoco e lasciagli far tutto,

finché, già tartagliando e barcollante,

s'alza, gli occhi di sangue e di vin brutto;

e con un gesto da corsar galante,

– State ai patti, – le dice, e caccia un rutto.

Così con lo splendor di Bacco in testa

alla pugna di Venere s'appresta.

XIV. Ma Dorotea confusa e stupefatta

dice all'inglese: – E voi, mia cara, in letto

oserete la voglia impura e matta

consumar di quel porco meledetto?

vi par che una beltà di questa fatta

debba abbassarsi al suo brutal diletto? –

– Io pretendo cavargli un'altra sete,

risponde Rosamora, e lo vedrete.

XV. La mia gloria il mio volto e l'adorato

mio fido amante vendicar vogl'io:

due braccia nerborute il ciel m'ha dato

per sua grazia, e Giuditta è il nome mio.

Aspettatemi qui senza trar fiato,

lasciate fare, ma pregate Iddio. –

Parte, ciò detto, e va con capo altero

a coricarsi accanto al masnadiero.

XVI. Già la notte d'un velo atro copriva

le marce travi di quel rio covile:

de' malandrin la turba digeriva

la crapula, sdrajati entro il cortile.

Soletta in quell'orror la si moriva

dalla paura Dorotea gentile,

e il corsaro annegato avea i pensieri

nel vapore de' piatti e de' bicchieri.

XVII. Di sonno più che d'amor vinto, abbraccia

e con stupida man palpa la fiera

Giuditta, che profónde alla bestiaccia

di mentite carezze una miniera.

Ne' fili dell'amore alfin l'allaccia

stanco de' vani sforzi, di maniera

che, pria che venga all'atto nelle forme,

sbadiglia il crudo, volta il capo e dorme.

XVIII. Al capezzal pendea l'orrido brando

onde altrui sì temuto era il ladrone.

Rosamora lo snuda, ed invocando

Giael, Giuditta, Dèbora e Simone,

Simone Barion, quell'ammirando

d'orecchie tagliator, la manca pone

stretta all'ispido crin dell'animale,

che ronfar si sentia come un majale.

XIX. Gli solleva la testa, che pesava

qual se fosse di piombo o travertino,

e con la destra valorosa e brava,

ziffe, il capo recise al malandrino.

Il gran tronco, che largo zampillava,

tutto il letto allagò di sangue e vino,

e di sangue zampilli e di vernaccia

all'eroina imporporàr la faccia.

XX. Salta allor la magnanima dal letto,

e, stretta in man la testa sanguinosa,

se n' vola a Dorotea, che a quell'aspetto

le cade in braccio come morta cosa.

Alfin riprese i sensi e l'intelletto:

– Oh! giusto Iddio, che donna coraggiosa!

oh che impresa! che colpo! che periglio!

ove s'ha da fuggir? Cielo, consiglio!

XXI. Se qualcuno risvegliasi in quest'ora,

siamo uccise senz'altro. – Dite piano,

dite piano, rispose Rosamora,

fate coraggio, datemi la mano:

la mia mission non è finita ancora. –

L'altra fa cuor, ma trema in modo strano.

In traccia loro intanto dappertutto

li due amanti correan, ma senza frutto.

XXII. Cerche per terra invan lor donne avendo,

per mar cercarle s'avvisàr dolenti.

Salpan dunque da Genova, correndo

a chiederne notizia ai quattro vènti;

e i quattro vènti, a mo' di saliscendo,

or portanli a' bei lidi obbedienti

al buon padre del popolo cristiano,

che umil tiene del ciel le chiavi in mano,

XXIII. or nel fondo dell'Adria, ove con Teti

si sposa il vecchio Doge in berrettino,

or di Napoli ai lidi ameni e lieti,

u' Sincero a Maron troppo è vicino.

Questi dèi gonfiagote irrequieti,

che non son più d'astreo seme divino,

sulla turbata liquida pianura

gli sbalzano a capriccio e alla ventura.

XXIV. Gli sbalzano allo scoglio infame e reo,

ove inghiottiva ed or più non inghiotte

Cariddi il mare, e dal latrar scilleo

non son più l'aure spaventate e rotte.

Gli sbalzan dove sotto Etna Tifeo

più non gitta dal sen piogge dirotte

di cenere di foco e fumo immondo.

Tanto cangia il cangiar degli anni il mondo!

XXV. Di procede quella coppia errante

a salutar la fonte d'Aretusa,

che più non mena a quella dell'amante

l'onde di canne or tutta circonfusa;

poi la costa scoprìr dall'ignorante

mussulmano tiranno oppressa e chiusa,

or nido di ladron, ma illustre riva

ove Cartago ed Agostin fioriva.

XXVI. Della vaga Provenza alle dilette

beate sponde il vento alfin li posa:

sponde liete d'olivi, ove al ciel mette

le sue torri Marsiglia, opra famosa,

e bella ancor d'antiche alme dilette

dalla Jonia venute. Oh gloriosa

città, libera un , libera e greca;

or di questo splendore e di quel cieca!

XXVII. Meglio t'è star de' regi alla catena,

che, siccome san tutti, è una dolcezza.

Ma de' bei colli tuoi ricca è l'arena

d'un tesor che più giova e più s'apprezza.

Conosce ognun la bella Maddalena

che, ad amor dato il fior di giovinezza,

la rosa che appassia diede al Signore,

e la sua vanità pianse di core;

XXVIII. e, lasciato il Giordan, venne in Provenza,

ove nell'antro sacro a Massimino

le chiappe si frustò per penitenza.

Da quel momento un balsamo divino

empì quell'aria di soave olenza.

Più d'una putta e più d'un libertino

monta lo scoglio e fa d'amor l'abjura,

che spirto è detto di malizia impura.

XXIX. Fama è che un la penitente ebrea,

sentendosi morir, chiese una grazia

a santo Massimin, che dirigea

quella bell'alma già del mondo sazia.

Ottenetemi, padre, ella dicea,

che, se allo scoglio mio mai per disgrazia

vien qualche amante coppia ad abboccarse

con voglia (che so io?) di sollazzarse,

XXX. m'ottenete da Dio ch'estinto pèra

l'impuro foco d'amendue nel petto,

e che una forte avversion sincera

sia de' cuori cangiati il solo affetto. –

Così parlò la santa avventuriera.

La prece il confessor trasse ad effetto,

e quel luogo d'allor santificato

l'odio vi desta dell'oggetto amato.

XXXI. Poiché i due paladini ebber Marsiglia

visto sino a far stanca la persona,

e rada e porto e ogn'altra maraviglia

di che loro l'orecchio ognor s'introna,

v'ha chi veder la balza li consiglia

San Balsamo nomata, di cui suona

tanto la fama e tanto il frate ciancia,

e che tutta d'onor empie la Francia.

XXXII. Curioso desìo spinge l'inglese,

divozion Trimuglio. I paladini,

salendo il sasso, videro prostese

persone assai dal basso, sui gradini

vicino al tempio a dir le preci intese,

e due donzelle in mezzo ai pellegrini,

sdegnosa l'una e in pie', ma inginocchiata

con le man giunte l'altra ed inchinata.

XXXIII. Oh dolce vista! oh inopinato istante!

Riconoscon lor donne i due felici.

Eccoli dunque al fatal tempio innante

giunti in un peccatori e peccatrici.

Con brevi detti d'Arondel l'amante

narra in che modi le sue mani ultrici,

soccorrendo al pudor, stesero a terra

coll'ajuto del cielo Martinguerra.

XXXIV. Com'ebbe antiveggenza al tempo stesso

di pigliarsi un borsotto di gran pondo,

che al morto appartenea, fatto riflesso

che il denaro non serve all'altro mondo.

Così, il mal chiuso muro nel più spesso

bujo varcando del recinto immondo,

col ferro in pugno, alla vicina riva

la compagna menò che sbigottiva.

XXXV. Poi come in un caicco si raccolse,

e il capitan destando e i marinari,

nel tranquillo Tirreno il legno sciolse

presto presto, pagati assai denari.

Così del vento, che a guidar li tolse,

il capriccio, o più presto il ciel, che i vari

casi pel meglio ne dispon, li mena

tutti quattro dinanzi a Maddalena.

XXXVI. Oh virtù sovrumana, oh gran portento!

A ogni motto che il labbro proferisce

di Giuditta, ogni dolce sentimento

nel gran cor dell'amante intepidisce.

Che disgusto, Gesù, che increscimento!

e quant'odio in un tratto ribadisce

il più tenero amor! Ma vi so dire

ch'ella gli rende pane da bollire.

XXXVII. E quel Trimuglio, a cui già Dorotea

del sol più bella un solea parere,

or la ritrova sucida e babbea,

storta, sgarbata, e voltale il messere.

Ella il re de' minchioni in lui scorgea,

l'odia lo schifa e più nol può vedere:

e Maddalena da una nube, a questa

conversion, mettea lieta la testa.

XXXVIII. Ma Maddalena, oimé, restò gabbata;

ché il ciel, gli è vero, gli accordò l'effetto

che qualunque persona innamorata

a capitar venisse al suo ricetto,

la cagion di sue fiamme avrìa scordata

finché stésse in quel luogo benedetto;

ma questa santa nelle sue dimande

un punto omise d'importanza grande.

XXXIX. Dico il patto che in nuovo amor non fòra

il guarito amadore unqua caduto:

e Massimino, benché santo, allora

questo caso non ebbe preveduto.

Fu perciò che l'infida Rosamora

corse in braccio a Trimuglio, e il suo liuto

Arondello accordò con Dorotea,

che con dolce tenor gli rispondea.

XL. Anzi vuolsi (e pretendelo di fatto

don Tritemo, scrittor sempre verace)

che Maddalena, visto quel baratto,

ne sorrise dal cielo e si die' pace.

E ben creder si puote un cotal fatto,

giustificarlo ancor: la virtù piace;

pur, malgrado il suo impero, a parlar giusto,

mai del primo mestier si perde il gusto.

XLI. Di San Balsamo appena si partiro

i quattro amanti, che cessò l'incanto,

il qual non operava che nel giro

e nello speco dello scoglio santo.

Appiè del monte Trimuglio, deliro

dell'odio avuto a Dorotea cotanto,

alla beltà di lei resa la stima,

la ritrovò più tenera che prima.

XLII. Più di prima le feo carezze e festa;

ed ella, in preda al duolo che l'accora,

ogni suo fallo ad espiar fu presta

nei cari amplessi dell'eroe che adora.

Anche Arondello, toltasi di testa

ogni stizza, riprese Rosamora:

tutti amor come prima; e Maddalena

(dir lo posso) gli assolse senza pena.

XLIII. Con le lor donne in groppa frettolosi

a Orleano avviàrsi i cavalieri,

di vendicar la patria desiosi

e raggiunger ciascuno i suoi guerrieri.

Buoni amanti e nemici generosi,

fean viaggio siccome amici veri,

senza di nuovo perigliar la pelle

pel re loro, e neppur per le lor belle.

 

 

NOTE AL CANTO NONO

 

Ottava XXIII, v. 4:

Il testo: Sannazzar est trop pres de Virgile.

Ottava XXVIII, v. 2:

La Rocca di san Massimino è vicinissima a Marsiglia, su la strada che mena alla Sainte-Baume.


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