François-Marie Arouet de Voltaire
La pulcella d'Orléans

CANTO DECIMO

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CANTO DECIMO

 

 

ARGOMENTO.

 

In poter d'un lascivo cappellano

a mal partito Agnese la si vede.

La salva il bel Monroso, e non invano

alle sue fiamme refrigerio chiede.

Turba il loro gioir stuolo villano

d'armati inglesi. Di fuggir succede

alla bella infedel, che in un convento

del suo pudor fa nuovo esperimento.

 

 

I. Che? un prefazio inchiodato ad ogni canto?

La morale mi stucca. Una novella

semplicemente detta e senza vanto,

nuda vera succinta è assai più bella.

Poco studio, assai grazia: ecco l'incanto,

che la bocca alla critica suggella.

Dunque alla buona. Di gentil pittura

la cornice più bella è la natura.

II. Pria diciam di re Carlo, che galoppa

verso Orlean, di gaudio enfiando e speme

i suoi fieri campioni, e l'ancor zoppa

sorte di Francia rassicura insieme.

Non parla che di guerra, e gli par troppa

ogni tardanza, e allegramente preme;

ma sospira in segreto piano piano,

perché dalla sua bella va lontano.

III. Aver lasciato Agnese, aver potuto

d'un sol momento farne dipartita,

fu tratto di virtù non più veduto,

un lasciar la metà della sua vita.

Come alle stanze sue si fu renduto,

ed alquanto la furia fu svanita

del dimon della gloria, al mesto core

venne a dir sua ragion quello d'amore.

IV. Perorò con più forza e fu vincente.

Il buon prence ascoltò tutto distratto

il modesto cianciar della sua gente;

indi in camera sua si chiuse affatto.

Qui con trepida mano e cuor dolente

scrisse un foglio d'amor, che tratto tratto

bagnò di pianto. Oimé, che ad asciugarlo

non v'era il suo Bonel! Povero Carlo!

V. Portator della lettra fu spedito

un ordinario gentiluom balocco.

Dopo un'ora (oh rio caso!) ecco stordito

riede col foglio in mano il nostro allocco.

Da mortale paura il re colpito,

– Perché torni? gridò, che rechi, o sciocco?

il mio biglietto?... – Ah Sire, in voce fioca

risponde il messo, è fatto il becco all'oca.

VI. Tutto è perduto; armatevi, o mio Sire,

di virtù, perché brutta è la novella.

Oimé gl'Inglesi, oimé, non lo so dire,

gl'Inglesi han preso Agnese e la Pulcella. –

A questi incauti accenti tramortire,

cader si vede il re senza favella;

ed all' de' sensi non rinviene

che per sentir più intense le sue pene.

VII. Chi a tal colpo non perde il sentimento,

non è certo costui vero amadore.

Il re l'era, e siffatto avvenimento

lo trafiggea di rabbia e di dolore.

Ne' suoi fidi fu vano ogni argomento

per l'angoscia quetar del regal core.

Carlo n'ebbe a impazzir. Suo padre, oimé!

per molto meno il suo cervel perdé.

VIII. – Ah toglimi, dicea, sorte briccona,

e Giovanna e i miei duchi; poco male;

toglimi tutta quanta la Sorbona,

anche il mio direttor spirituale:

mi si tolga quel poco di corona,

che mi ha lasciato il mio destin fatale:

Breton crudele, toglimi più ancora,

ma lasciami colei che m'innamora.

IX. Oh monarca infelice! oh amor scortese!

Or ché sto qui la sorte a maledire?

a strapparmi i capegli? Oh cara Agnese!

Io l'ho perduta e converrà morire.

Io l'ho perduta, ahi lasso! e qualche inglese,

mentr'io piango, sta forse a insolentire,

a soggiogar beltàdelicata,

che sol pe' baci de' Francesi è nata.

X. Dunque altra bocca a' tuoi be' labbri, o stelle!

rapir tanta dolcezza ora potrìa?

altra man carezzar membrabelle?

un altro...? Oh ciel, che pena è questa mia!

E chi sa che tu pur tenera a quelle

tenerezze in quel bieco atto non sia?

Chi sa non faccia il tuo temperamento

al tuo misero amante un tradimento? –

XI. Più soffrir non potendo un tanto affanno

il re dolente, né sì rei timori,

va tosto a consultar sul proprio danno

sorbonisti, indovin, maghi, dottori,

ebrei, domenicani, e quanti sanno

l'alfabeto, e lor dice: – Uopo è, signori,

dirmi se Agnese è ancor fedel, se gira

a me la mente e sol per me sospira.

XII. Non m'ingannate, tutto dite, e nulla

tacciasi al vostro re sul suo destino. –

Ed essi, ben pagati, erba trastulla

tosto in greco gli dànno ed in latino.

Un di Carlo su e giù volta la brulla

mano, e attento la scruta, altro indovino

un quadrato disegna, e prende augurio

da Venere quell'altro e da Mercurio.

XIII. Un altro scartabella il suo saltero

ed in segreto brontolando va;

questi guarda nel fondo ad un bicchiero,

e questi un cerchio nella terra fa;

perocché sempre a questo modo il vero

fu solita cercar l'antichità:

sudano, fanno; alfin, la bocca aprendo,

concludon tutti, Iddio benedicendo,

XIV. che può Sua Maestà dormir sicura;

che a lui solo fra tutti il ciel concede

per favor sommo un'amica che pura

e immacolata serbagli la fede;

che Agnese è saggia e gli amator non cura.

Ma, oimé! la cosa va d'un altro piede;

ama Agnese e già fatta è la frittata.

Or credete alla gente letterata!

XV. Quel terribile, duro e ben complesso

cappellan che di sopra io già v'ho detto,

còlto il punto propizio e pretermesso

d'Agnese il pianto e i gridi, il maledetto,

del suo bel corpo avea preso possesso:

e un piacer ne rapìa turpe, imperfetto,

una villana voluttà, che vòta

di dolcezza ad Amor non fu mai nota.

XVI. E chi vorrìa per vero fra le braccia

una bella tenersi che si lagna,

che disvia dalla vostra la sua faccia,

e i lin non d'altro che di pianto bagna?

Un galantuom va d'altri gusti in traccia;

e felice è sol quando alla compagna

rende il preso piacer: ma un nerboruto

cappellano non va tanto al minuto.

XVII. Punge egli il suo ronzon, che va dirotto

e fa la strada come bestia pazza,

senza punto informarsi se di sotto

sente gusto o nol senta la ragazza.

L'amabil paggio intanto, che condotto

a cercar frettoloso erasi in piazza

di che la dea servir che l'ha captivo,

arriva alfin; ma è tardo, oimé! l'arrivo.

XVIII. Entra e vede il ghiotton, che, furioso

per diabolico foco sessuale,

divora la sua preda, ed affannoso

dimenasi nel suo gaudio brutale.

A quella vista, ahi vista! il bel Monroso

tira il ferro e s'avventa all'animale,

la cui furia villana e disonesta

cede al bisogno di salvar la testa.

XIX. Salta dal letto, e, preso alla ventura

un nodoso baston, tronco di faggio,

fa risposta all'offese, e con bravura

si spinge sotto e aggrappasi col paggio.

L'uno e l'altro è campion senza paura.

Monroso è d'amor pieno e di coraggio,

e il fiero cappellan sembra una furia,

che di rabbia muggisce e di lussuria.

XX. Tali i queti cultor delle capanne,

di bella pace e d'innocenza ostello,

veggon lupo talor che con le zanne

strazia nel bosco un innocente agnello.

Mentre il crudele con bramose canne

stassi il sangue a succhiar del meschinello,

se un can di corta orecchia ed occhi ardenti

gli soprarriva digrignando i denti,

XXI. il vorace animal, tosto che il mira,

dalla spumante bocca cader lassa

la vittima innocente, e con grand'ira

corre al can, che l'assalta e lo scardassa.

Morso il lupo rimorde e a strozzar tira

l'altier nimico che d'ardir lo passa,

mentre il povero agnello, che già muore,

fa vóti a Dio pel cane, e ben di cuore.

XXII. Tale il robusto cappellan, che univa

a molta forza un cor feroce in petto,

si dibattea fremendo, e si schermiva

dall'amoroso ardente giovinetto;

mentre Agnese tremante e semiviva

premio del vincitor resta nel letto.

L'oste e l'ostessa intanto e una lor figlia

salgono a quel rumor con la famiglia.

XXIII. Si frappongon di mezzo, ed a quel brutto

ribaldo prete fan trovar le scale;

ognun difende il paggio: dappertutto

gioventù, leggiadria sempre prevale.

Da solo a sola adunque ecco ridutto

Monroso con Agnese. Il suo rivale,

audace nella sua disfatta istessa,

senza scomporsi, va a cantar la messa.

XXIV. Ma la povera Agnese, per acuta

doglia fuor di sé stessa, e vergognosa

che un uom di sagrestia l'abbia polluta,

e più ancor che un bel paggio in quella cosa

l'abbia con onta soggiacer veduta,

piange, e guardarlo in volto più non osa:

desia che pronta la morte fin pogna

alla sua vita ed alla sua vergogna.

XXV. Per tutti accenti, nel crudel suo stato,

– Ah, signor, ammazzatemi, – dicea.

– Voi, mia vita, morir? L'ultimo fato

rapirvi a me? – Monroso rispondea.

– E cagion ne sarìa quell'impiccato!

Ah crediate che, ancor che foste rea,

viver fa d'uopo e prender pazienza

tocca a voi forse il farne penitenza?

XXVI. Del vostro cor gli è vano ogni rimorso,

divina Agnese. E non vedete quanto

error sarebbe dell'altrui trascorso

scontar la pena? Raffrenate il pianto. –

S'eloquente non era il suo discorso,

era il suo sguardo. Un dolce foco intanto

istillava alla bella intenerita

qualche desir di conservar la vita.

XXVII. Pranzar convenne; perocché, malgrado

i nostri guai (n'ho fatto esperienza),

noi poveri mortali amiam di rado

darci, quantunque afflitti, all'astinenza.

Anche nell'ira un bel mangiare è a grado.

Quei vati il san tenuti in reverenza,

il buon Virgilio, io dico, ed il ciarliero

pur ne' suoi sogni venerato Omero.

XXVIII. Ne' suoi conflitti ognor qualche banchetto

egli suole introdur, qualche festino.

La bella Agnese adunque a canto al letto

testa a testa pranzò col suo paggino.

Da principio ciascun vergognosetto

fissi gli occhi tenea sul suo tondino;

poi l'uno e l'altro arditi si guatarono;

poi l'uno e l'altro alfin si vagheggiarono.

XXIX. Sapete che degli anni in sul bel fiore,

quando salute brilla per la vita,

un buon pranzo destar vi fa nel core

de' dolci affetti la semenza ardita.

Cede l'alma al bisogno dell'amore,

dalle punte dolcissime ferita

d'un benigno calor che vi tormenta.

La carne è frale e il diavolo vi tenta.

XXX. Monroso nell'ardor che lo saetta,

poiché propizia e tentatrice è l'ora,

della mesta sua bella al pie' si getta:

– O caro volto; o tu cui l'alma adora!

pietà d'un cuor che t'ama e ti rispetta,

o per l'affanno converrà ch'io muora.

Negherai tu, mia vita, all'amor mio

ciò che un barbaro a forza ti rapìo?

XXXI. Ah se un delitto lui beato rese,

a un virtuoso amor che non dovrai?

Ei parla; odil, per Dio, – disse ad Agnese.

Questo argomento trovò sorte assai,

e il peso ne sentì, ma si difese

anche un'altr'ora, ognor chinando i rai;

e differì la sua felicità

per por d'accordo amore ed onestà.

XXXII. Sa che più vale un po' di resistenza

che troppa compiacenza. Alfine i dritti

godé il paggio d'amor, la quintessenza

del vero ben con tutti i suoi profitti.

Degl'Inglesi la gloria e la potenza

non si stendea che sopra i re sconfitti.

Prese Enrico la Francia e serva félla;

di Monroso la sorte era più bella.

XXXIII. Ma la gioja è pur corta e ingannatrice!

ogni bene è pur cosa fuggitiva!

Appena cominciato ha quel felice

giovinetto a gustar la pura e diva

voluttà de' suoi sensi inondatrice,

che un picchetto d'inglesi soprarriva.

Montan le scale, gettan l'uscio a terra

ed entrano facendo un serraserra.

XXXIV. A gli amanti di gaudio ebbri e d'amore

questa burla avea fatto il cappellano.

Tosto Agnese svenuta di terrore

col paggio è presa dallo stuol villano.

Si menano a Sandò. Nel suo furore

oh chi sa che farà quell'inumano!

Quella tenera coppia ne temea

la vendetta, e ben d'onde ella n'avea.

XXXV. Sapean, miseri, a prova che costui

un'anima di cane avea nel seno:

quindi confusi e tremanti ambidui

tu li vedi i bei rai chini al terreno.

A lei l'ambascia il cor divora, a lui

disperanza, dispetto; e nondimeno

si guatano sottocchi, vergognosi

d'essersi fatti insieme avventurosi.

XXXVI. Che diranno a Sandò? Buona fortuna

volle che questa soldatesca inglese,

nell'ora che la notte e il ciel s'imbruna,

venne a scontrarsi in un drappel francese:

venti guerrier che al lume della luna

van facendo la ronda pel paese,

per aver, se si può, qualche novella

tanto d'Agnese che de la Pulcella.

XXXVII. Quando due galli o due mastini a vista,

o scontransi due amanti a naso a naso,

quando trova un austero giansenista

un gesuita di malizia vaso,

quando un fier luterano o calvinista

in un prete roman s'abbatte a caso,

appiccasi una zuffa immantinente

a colpi d'asta, o penna, o grifo, o dente.

XXXVIII. Tali i franchi guerrier, visti i bretoni,

piomban come falcon leggero e presto:

ma gl'inglesi non fur vili o poltroni;

quindi rendono acerbo per agresto.

Il cavallo d'Agnese era de' buoni;

svelto e giovin com'ella, e però lesto

gira ruota s'impenna, e su la sella

Agnese a rischio di cascar saltella.

XXXIX. Al rumor delle spade, più feroce

divien la bestia e il fren spumante allenta:

con la timida mano e con la voce

Agnese indarno governarla tenta.

Prende quella il galoppo e va veloce;

questa pur ritenerla s'argomenta:

ma troppo fiacchi ha i polsi, e al matto ubino

forza è alfin che rimetta il suo destino.

XL. Non può il paggio in quel rio combattimento

veder che sia di lei. Vola il corsiero,

e, fatte già sei miglia come vento,

in un queto vallon prende il sentiero,

e si ferma alla porta d'un convento.

Sorge un bosco daccanto al monastero;

presso al bosco un ruscel con lunghi errori

volge i liquidi argenti in mezzo ai fiori.

XLI. Un monticel sorgeva più lontano

a cui l'autunno il verde dosso indora

di quel dolce gentil frutto sovrano

di che dotar Noè ci volle allora

che, a riparar l'assorto germe umano,

alfin dal suo gran cofano uscì fuora,

e, stanco di ber l'acqua, fece il vino

con artifizio tutto pellegrino.

XLII. Il dolce fiato dell'aurette, il riso

di Pomona e di Flora empion di mille

dolci fragranze quel novello Eliso,

che rapisce e non sazia le pupille.

De' nostri primi padri il paradiso

convalli più ridenti e più tranquille

giammai non ebbe, né giammai natura

più bella apparve, più feconda e pura.

XLIII. L'aria che in questo spira ermo ricetto,

all'agitato cor porta la calma,

e, le cure placando in mezzo al petto,

l'amor dello star solo infonde all'alma.

La bella Agnese in riva al ruscelletto

tra' fior posò la travagliata salma,

e, i begli occhi fissando in quel convento,

sentì quetar de' sensi il turbamento.

XLIV. Un convento era questo, o lettor mio,

di monachelle. – Oh sacri amici orrori,

Agnese disse, nel cui seno Iddio

de' beneficii suoi versa i tesori!

Qui l'innocenza, qui la pace; ed io

della grazia del ciel che tocca i cuori,

vengo qui forse a posta ora spedita

per piangervi l'error della mia vita.

XLV. Stuol di sagge e pudiche verginelle,

tutte del buon Gesù spose felici,

fanno intorno odorose di lor belle

angeliche virtù queste pendici;

ed io perdo i miei giorni in bagattelle

d'amor, famosa fra le peccatrici. –

Così parlando Agnese ad alta voce,

al sommo del porton vide una croce.

XLVI. Con profonda umiltà dinanzi al segno,

che l'uom redense dall'eterno danno,

prostrossi, ed adorando il santo legno

compunta un poco, e il cor pieno d'affanno,

di confessarsi già facea disegno.

Devozione e amore non distanno

che d'un sol passo, essendo questa e quello

o di cor debolezza o di cervello.

XLVII. Da due giorni in città la veneranda

abbadessa era gita a parlamento

coll'avvocato, perché meglio intenda

a sostener le cause del convento,

in suo luogo lasciando suor Faccenda

madre vicaria di quel santo armento.

Questa in gran fretta al parlatorio scese

e fece aprir per introdurre Agnese.

XLVIII. – Entrate, disse, amabil pellegrina;

qual protettor, qual sorte avventurosa

a pie' de' nostri altari oggi incammina

questa al mondo beltàperigliosa?

Siete forse una santa, una divina

angelica sostanza in carne ascosa,

che al ciel s'invola per venir quaggiù

a consolar le spose di Gesù? –

XLIX. – Troppo onor, madre mia, disse il bel viso:

io non son che una povera terrena,

e, se giammai mi tocca il paradiso,

non istarò che a canto a Maddalena:

tanto è il mio corpo di peccati intriso.

Il destin, che a capriccio suo mi mena,

l'Angel Custode ed il cavallo mio

m'han qui condotto, e il come lo sa Dio.

L. Da gran rimorso ho l'anima ferita:

nella colpa indurito il cor mi porto:

amo il ben, ma la traccia io n'ho smarrita;

ed or la trovo in questo santo porto.

Sento la grazia che a venir m'invita

qui per salute mia. – Tacque, e conforto

die' suor Faccenda con parlar prudente

ma soave alla bella penitente.

LI. Poi, la grazia di Dio magnificata,

menando Agnese in cella ne venìa:

pulita cella e bene illuminata,

che di fragranze peregrine olìa,

con un soffice letto: insomma, ornata

dalle mani d'Amor la si dirìa.

Loda Agnese in suo cuor la Provvidenza,

e un zucchero le par la penitenza.

LII. Terminata la cena (giacché mai

ne' miei versi non hassi a preterire

questo bel punto interessante assai),

suor Faccenda così le prese a dire:

– La notte avanza, o cara, e l'ora omai,

lo sapete, s'appressa in che venire

suol dell'inferno l'incubo vagante

ne' sacri luoghi per tentar le sante.

LIII. Uopo è far dunque un'opra che ne giovi:

dormiamo insieme, acciò, se il diavol fia

che n'ordisca una trama, in due ne trovi,

e in campo contro due men forte sia. –

Par che la donna la proposta approvi:

ponsi in letto, e far crede opera pia.

Santa si crede e d'ogni fallo assolta;

ma l'insegue il destin pur questa volta.

LIV. Narrar poss'io, lettor, senza rossore

suor Faccenda chi fosse? Io non vi metto

salolio, e vado con candore.

Suor Faccenda era un caro giovinetto

ch'avea d'Alcide il nerbo ed il vigore

e in un d'Adone il grazioso aspetto.

Di ventun anno e mezzo, come latte

bianco è di carni rugiadose intatte.

LV. L'Abbadessa da saggia se n'avea

fatto il suo vago da non molto, ed ella,

anzi egli suora baccellier pascea

dentro la gentil sua pecorella.

Tal nella reggia un licomedea

Achille ascoso in femminil gonnella,

bear dai dolci baci si sentìa

della tenera sua Deidamìa.

LVI. Appena dunque in letto si trovò

con la suora la nostra penitente,

che nuova e strana in lei che l'abbracciò,

mutazion sentì farsi repente.

Certo ch'ella in tal cambio guadagnò.

Che far dovea? lagnarsi, chiamar gente?

metter sossopra il monaster! Ciò fòra

uno scandalo, massime in quell'ora.

LVII. A pazienza rassegnarsi, e mute

tener le labbra è tutto che può fare,

e in queste occasioni imprevedute

rade volte s'ha tempo da pensare.

Come di suor Faccenda un po' sbattute

si fur le forze in quel giocondo affare

(però che dàlli dàlli, alfin convenne

pigliar pur fiato ed abbassar le penne),

LVIII. non senza contrizion la bella Agnese

seco medesma fa questo riflesso:

Dunque d'esser onesta invan mi prese

finor la voglia e tutto il cor v'ho messo?

Dunque in vano (e lo provo alle mie spese)

fatto ho quel che può fare il nostro sesso?

Concluse adunque che per esser casta

la buona volontà sempre non basta.


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