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I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio
a mal partito Agnese la si vede.
La salva il bel Monroso, e non invano
alle sue fiamme refrigerio chiede.
Turba il loro gioir stuolo villano
d'armati inglesi. Di fuggir succede
alla bella infedel, che in un convento
del suo pudor fa nuovo esperimento.
I. Che? un prefazio inchiodato ad ogni canto?
La morale mi stucca. Una novella
semplicemente detta e senza vanto,
nuda vera succinta è assai più bella.
Poco studio, assai grazia: ecco l'incanto,
che la bocca alla critica suggella.
Dunque alla buona. Di gentil pittura
la cornice più bella è la natura.
II. Pria diciam di re Carlo, che galoppa
verso Orlean, di gaudio enfiando e speme
i suoi fieri campioni, e l'ancor zoppa
sorte di Francia rassicura insieme.
Non parla che di guerra, e gli par troppa
ogni tardanza, e allegramente preme;
ma sospira in segreto piano piano,
perché dalla sua bella va lontano.
III. Aver lasciato Agnese, aver potuto
d'un sol momento farne dipartita,
fu tratto di virtù non più veduto,
un lasciar la metà della sua vita.
Come alle stanze sue si fu renduto,
ed alquanto la furia fu svanita
del dimon della gloria, al mesto core
venne a dir sua ragion quello d'amore.
IV. Perorò con più forza e fu vincente.
Il buon prence ascoltò tutto distratto
il modesto cianciar della sua gente;
indi in camera sua si chiuse affatto.
Qui con trepida mano e cuor dolente
scrisse un foglio d'amor, che tratto tratto
bagnò di pianto. Oimé, che ad asciugarlo
non v'era il suo Bonel! Povero Carlo!
V. Portator della lettra fu spedito
un ordinario gentiluom balocco.
Dopo un'ora (oh rio caso!) ecco stordito
riede col foglio in mano il nostro allocco.
Da mortale paura il re colpito,
– Perché torni? gridò, che rechi, o sciocco?
il mio biglietto?... – Ah Sire, in voce fioca
risponde il messo, è fatto il becco all'oca.
VI. Tutto è perduto; armatevi, o mio Sire,
di virtù, perché brutta è la novella.
Oimé gl'Inglesi, oimé, non lo so dire,
gl'Inglesi han preso Agnese e la Pulcella. –
A questi incauti accenti tramortire,
cader si vede il re senza favella;
ed all'uso de' sensi non rinviene
che per sentir più intense le sue pene.
VII. Chi a tal colpo non perde il sentimento,
non è certo costui vero amadore.
Il re l'era, e siffatto avvenimento
lo trafiggea di rabbia e di dolore.
Ne' suoi fidi fu vano ogni argomento
per l'angoscia quetar del regal core.
Carlo n'ebbe a impazzir. Suo padre, oimé!
per molto meno il suo cervel perdé.
VIII. – Ah toglimi, dicea, sorte briccona,
e Giovanna e i miei duchi; poco male;
toglimi tutta quanta la Sorbona,
anche il mio direttor spirituale:
mi si tolga quel poco di corona,
che mi ha lasciato il mio destin fatale:
Breton crudele, toglimi più ancora,
ma lasciami colei che m'innamora.
IX. Oh monarca infelice! oh amor scortese!
Or ché sto qui la sorte a maledire?
a strapparmi i capegli? Oh cara Agnese!
Io l'ho perduta e converrà morire.
Io l'ho perduta, ahi lasso! e qualche inglese,
mentr'io piango, sta forse a insolentire,
a soggiogar beltà sì delicata,
che sol pe' baci de' Francesi è nata.
X. Dunque altra bocca a' tuoi be' labbri, o stelle!
rapir tanta dolcezza ora potrìa?
altra man carezzar membra sì belle?
un altro...? Oh ciel, che pena è questa mia!
E chi sa che tu pur tenera a quelle
tenerezze in quel bieco atto non sia?
Chi sa non faccia il tuo temperamento
al tuo misero amante un tradimento? –
XI. Più soffrir non potendo un tanto affanno
il re dolente, né sì rei timori,
va tosto a consultar sul proprio danno
sorbonisti, indovin, maghi, dottori,
ebrei, domenicani, e quanti sanno
l'alfabeto, e lor dice: – Uopo è, signori,
dirmi se Agnese è ancor fedel, se gira
a me la mente e sol per me sospira.
XII. Non m'ingannate, tutto dite, e nulla
tacciasi al vostro re sul suo destino. –
Ed essi, ben pagati, erba trastulla
tosto in greco gli dànno ed in latino.
Un di Carlo su e giù volta la brulla
mano, e attento la scruta, altro indovino
un quadrato disegna, e prende augurio
da Venere quell'altro e da Mercurio.
XIII. Un altro scartabella il suo saltero
ed in segreto brontolando va;
questi guarda nel fondo ad un bicchiero,
e questi un cerchio nella terra fa;
perocché sempre a questo modo il vero
sudano, fanno; alfin, la bocca aprendo,
concludon tutti, Iddio benedicendo,
XIV. che può Sua Maestà dormir sicura;
che a lui solo fra tutti il ciel concede
per favor sommo un'amica che pura
e immacolata serbagli la fede;
che Agnese è saggia e gli amator non cura.
Ma, oimé! la cosa va d'un altro piede;
ama Agnese e già fatta è la frittata.
Or credete alla gente letterata!
XV. Quel terribile, duro e ben complesso
cappellan che di sopra io già v'ho detto,
còlto il punto propizio e pretermesso
d'Agnese il pianto e i gridi, il maledetto,
del suo bel corpo avea preso possesso:
e un piacer ne rapìa turpe, imperfetto,
di dolcezza ad Amor non fu mai nota.
XVI. E chi vorrìa per vero fra le braccia
una bella tenersi che si lagna,
che disvia dalla vostra la sua faccia,
e i lin non d'altro che di pianto bagna?
Un galantuom va d'altri gusti in traccia;
e felice è sol quando alla compagna
rende il preso piacer: ma un nerboruto
cappellano non va tanto al minuto.
XVII. Punge egli il suo ronzon, che va dirotto
e fa la strada come bestia pazza,
senza punto informarsi se di sotto
sente gusto o nol senta la ragazza.
L'amabil paggio intanto, che condotto
a cercar frettoloso erasi in piazza
di che la dea servir che l'ha captivo,
arriva alfin; ma è tardo, oimé! l'arrivo.
XVIII. Entra e vede il ghiotton, che, furioso
divora la sua preda, ed affannoso
dimenasi nel suo gaudio brutale.
A quella vista, ahi vista! il bel Monroso
tira il ferro e s'avventa all'animale,
la cui furia villana e disonesta
cede al bisogno di salvar la testa.
XIX. Salta dal letto, e, preso alla ventura
un nodoso baston, tronco di faggio,
fa risposta all'offese, e con bravura
si spinge sotto e aggrappasi col paggio.
L'uno e l'altro è campion senza paura.
Monroso è d'amor pieno e di coraggio,
e il fiero cappellan sembra una furia,
che di rabbia muggisce e di lussuria.
XX. Tali i queti cultor delle capanne,
di bella pace e d'innocenza ostello,
veggon lupo talor che con le zanne
strazia nel bosco un innocente agnello.
Mentre il crudele con bramose canne
stassi il sangue a succhiar del meschinello,
se un can di corta orecchia ed occhi ardenti
gli soprarriva digrignando i denti,
XXI. il vorace animal, tosto che il mira,
dalla spumante bocca cader lassa
la vittima innocente, e con grand'ira
corre al can, che l'assalta e lo scardassa.
Morso il lupo rimorde e a strozzar tira
l'altier nimico che d'ardir lo passa,
mentre il povero agnello, che già muore,
fa vóti a Dio pel cane, e ben di cuore.
XXII. Tale il robusto cappellan, che univa
a molta forza un cor feroce in petto,
si dibattea fremendo, e si schermiva
dall'amoroso ardente giovinetto;
mentre Agnese tremante e semiviva
premio del vincitor resta nel letto.
L'oste e l'ostessa intanto e una lor figlia
salgono a quel rumor con la famiglia.
XXIII. Si frappongon di mezzo, ed a quel brutto
ribaldo prete fan trovar le scale;
ognun difende il paggio: dappertutto
gioventù, leggiadria sempre prevale.
Da solo a sola adunque ecco ridutto
Monroso con Agnese. Il suo rivale,
audace nella sua disfatta istessa,
senza scomporsi, va a cantar la messa.
XXIV. Ma la povera Agnese, per acuta
doglia fuor di sé stessa, e vergognosa
che un uom di sagrestia l'abbia polluta,
e più ancor che un bel paggio in quella cosa
l'abbia con onta soggiacer veduta,
piange, e guardarlo in volto più non osa:
desia che pronta la morte fin pogna
alla sua vita ed alla sua vergogna.
XXV. Per tutti accenti, nel crudel suo stato,
– Ah, signor, ammazzatemi, – dicea.
– Voi, mia vita, morir? L'ultimo fato
rapirvi a me? – Monroso rispondea.
– E cagion ne sarìa quell'impiccato!
Ah crediate che, ancor che foste rea,
viver fa d'uopo e prender pazienza
tocca a voi forse il farne penitenza?
XXVI. Del vostro cor gli è vano ogni rimorso,
divina Agnese. E non vedete quanto
error sarebbe dell'altrui trascorso
scontar la pena? Raffrenate il pianto. –
S'eloquente non era il suo discorso,
era il suo sguardo. Un dolce foco intanto
istillava alla bella intenerita
qualche desir di conservar la vita.
XXVII. Pranzar convenne; perocché, malgrado
i nostri guai (n'ho fatto esperienza),
noi poveri mortali amiam di rado
darci, quantunque afflitti, all'astinenza.
Anche nell'ira un bel mangiare è a grado.
Quei vati il san tenuti in reverenza,
il buon Virgilio, io dico, ed il ciarliero
pur ne' suoi sogni venerato Omero.
XXVIII. Ne' suoi conflitti ognor qualche banchetto
egli suole introdur, qualche festino.
La bella Agnese adunque a canto al letto
testa a testa pranzò col suo paggino.
Da principio ciascun vergognosetto
fissi gli occhi tenea sul suo tondino;
poi l'uno e l'altro arditi si guatarono;
poi l'uno e l'altro alfin si vagheggiarono.
XXIX. Sapete che degli anni in sul bel fiore,
quando salute brilla per la vita,
un buon pranzo destar vi fa nel core
de' dolci affetti la semenza ardita.
Cede l'alma al bisogno dell'amore,
dalle punte dolcissime ferita
d'un benigno calor che vi tormenta.
La carne è frale e il diavolo vi tenta.
XXX. Monroso nell'ardor che lo saetta,
poiché propizia e tentatrice è l'ora,
della mesta sua bella al pie' si getta:
– O caro volto; o tu cui l'alma adora!
pietà d'un cuor che t'ama e ti rispetta,
o per l'affanno converrà ch'io muora.
Negherai tu, mia vita, all'amor mio
ciò che un barbaro a forza ti rapìo?
XXXI. Ah se un delitto lui beato rese,
a un virtuoso amor che non dovrai?
Ei parla; odil, per Dio, – disse ad Agnese.
Questo argomento trovò sorte assai,
e il peso ne sentì, ma si difese
anche un'altr'ora, ognor chinando i rai;
per por d'accordo amore ed onestà.
XXXII. Sa che più vale un po' di resistenza
che troppa compiacenza. Alfine i dritti
godé il paggio d'amor, la quintessenza
del vero ben con tutti i suoi profitti.
Degl'Inglesi la gloria e la potenza
non si stendea che sopra i re sconfitti.
Prese Enrico la Francia e serva félla;
di Monroso la sorte era più bella.
XXXIII. Ma la gioja è pur corta e ingannatrice!
ogni bene è pur cosa fuggitiva!
Appena cominciato ha quel felice
giovinetto a gustar la pura e diva
voluttà de' suoi sensi inondatrice,
che un picchetto d'inglesi soprarriva.
Montan le scale, gettan l'uscio a terra
ed entrano facendo un serraserra.
XXXIV. A gli amanti di gaudio ebbri e d'amore
questa burla avea fatto il cappellano.
Tosto Agnese svenuta di terrore
col paggio è presa dallo stuol villano.
Si menano a Sandò. Nel suo furore
oh chi sa che farà quell'inumano!
la vendetta, e ben d'onde ella n'avea.
XXXV. Sapean, miseri, a prova che costui
un'anima di cane avea nel seno:
quindi confusi e tremanti ambidui
tu li vedi i bei rai chini al terreno.
A lei l'ambascia il cor divora, a lui
disperanza, dispetto; e nondimeno
si guatano sottocchi, vergognosi
d'essersi fatti insieme avventurosi.
XXXVI. Che diranno a Sandò? Buona fortuna
volle che questa soldatesca inglese,
nell'ora che la notte e il ciel s'imbruna,
venne a scontrarsi in un drappel francese:
venti guerrier che al lume della luna
van facendo la ronda pel paese,
per aver, se si può, qualche novella
tanto d'Agnese che de la Pulcella.
XXXVII. Quando due galli o due mastini a vista,
o scontransi due amanti a naso a naso,
quando trova un austero giansenista
quando un fier luterano o calvinista
in un prete roman s'abbatte a caso,
appiccasi una zuffa immantinente
a colpi d'asta, o penna, o grifo, o dente.
XXXVIII. Tali i franchi guerrier, visti i bretoni,
piomban come falcon leggero e presto:
ma gl'inglesi non fur vili o poltroni;
quindi rendono acerbo per agresto.
Il cavallo d'Agnese era de' buoni;
svelto e giovin com'ella, e però lesto
gira ruota s'impenna, e su la sella
Agnese a rischio di cascar saltella.
XXXIX. Al rumor delle spade, più feroce
divien la bestia e il fren spumante allenta:
con la timida mano e con la voce
Agnese indarno governarla tenta.
Prende quella il galoppo e va veloce;
questa pur ritenerla s'argomenta:
ma troppo fiacchi ha i polsi, e al matto ubino
forza è alfin che rimetta il suo destino.
XL. Non può il paggio in quel rio combattimento
veder che sia di lei. Vola il corsiero,
e, fatte già sei miglia come vento,
in un queto vallon prende il sentiero,
e si ferma alla porta d'un convento.
Sorge un bosco daccanto al monastero;
presso al bosco un ruscel con lunghi errori
volge i liquidi argenti in mezzo ai fiori.
XLI. Un monticel sorgeva più lontano
a cui l'autunno il verde dosso indora
di quel dolce gentil frutto sovrano
di che dotar Noè ci volle allora
che, a riparar l'assorto germe umano,
alfin dal suo gran cofano uscì fuora,
e, stanco di ber l'acqua, fece il vino
con artifizio tutto pellegrino.
XLII. Il dolce fiato dell'aurette, il riso
di Pomona e di Flora empion di mille
dolci fragranze quel novello Eliso,
che rapisce e non sazia le pupille.
De' nostri primi padri il paradiso
convalli più ridenti e più tranquille
giammai non ebbe, né giammai natura
più bella apparve, più feconda e pura.
XLIII. L'aria che in questo spira ermo ricetto,
all'agitato cor porta la calma,
e, le cure placando in mezzo al petto,
l'amor dello star solo infonde all'alma.
La bella Agnese in riva al ruscelletto
tra' fior posò la travagliata salma,
e, i begli occhi fissando in quel convento,
sentì quetar de' sensi il turbamento.
XLIV. Un convento era questo, o lettor mio,
di monachelle. – Oh sacri amici orrori,
Agnese disse, nel cui seno Iddio
de' beneficii suoi versa i tesori!
Qui l'innocenza, qui la pace; ed io
della grazia del ciel che tocca i cuori,
vengo qui forse a posta ora spedita
per piangervi l'error della mia vita.
XLV. Stuol di sagge e pudiche verginelle,
tutte del buon Gesù spose felici,
fanno intorno odorose di lor belle
angeliche virtù queste pendici;
ed io perdo i miei giorni in bagattelle
d'amor, famosa fra le peccatrici. –
Così parlando Agnese ad alta voce,
al sommo del porton vide una croce.
XLVI. Con profonda umiltà dinanzi al segno,
che l'uom redense dall'eterno danno,
prostrossi, ed adorando il santo legno
compunta un poco, e il cor pieno d'affanno,
di confessarsi già facea disegno.
Devozione e amore non distanno
che d'un sol passo, essendo questa e quello
o di cor debolezza o di cervello.
XLVII. Da due giorni in città la veneranda
abbadessa era gita a parlamento
coll'avvocato, perché meglio intenda
a sostener le cause del convento,
in suo luogo lasciando suor Faccenda
madre vicaria di quel santo armento.
Questa in gran fretta al parlatorio scese
e fece aprir per introdurre Agnese.
XLVIII. – Entrate, disse, amabil pellegrina;
qual protettor, qual sorte avventurosa
a pie' de' nostri altari oggi incammina
questa al mondo beltà sì perigliosa?
Siete forse una santa, una divina
angelica sostanza in carne ascosa,
che al ciel s'invola per venir quaggiù
a consolar le spose di Gesù? –
XLIX. – Troppo onor, madre mia, disse il bel viso:
io non son che una povera terrena,
e, se giammai mi tocca il paradiso,
non istarò che a canto a Maddalena:
tanto è il mio corpo di peccati intriso.
Il destin, che a capriccio suo mi mena,
l'Angel Custode ed il cavallo mio
m'han qui condotto, e il come lo sa Dio.
L. Da gran rimorso ho l'anima ferita:
nella colpa indurito il cor mi porto:
amo il ben, ma la traccia io n'ho smarrita;
ed or la trovo in questo santo porto.
Sento la grazia che a venir m'invita
qui per salute mia. – Tacque, e conforto
die' suor Faccenda con parlar prudente
ma soave alla bella penitente.
LI. Poi, la grazia di Dio magnificata,
menando Agnese in cella ne venìa:
pulita cella e bene illuminata,
che di fragranze peregrine olìa,
con un soffice letto: insomma, ornata
dalle mani d'Amor la si dirìa.
Loda Agnese in suo cuor la Provvidenza,
e un zucchero le par la penitenza.
LII. Terminata la cena (giacché mai
ne' miei versi non hassi a preterire
questo bel punto interessante assai),
suor Faccenda così le prese a dire:
– La notte avanza, o cara, e l'ora omai,
lo sapete, s'appressa in che venire
suol dell'inferno l'incubo vagante
ne' sacri luoghi per tentar le sante.
LIII. Uopo è far dunque un'opra che ne giovi:
dormiamo insieme, acciò, se il diavol fia
che n'ordisca una trama, in due ne trovi,
e in campo contro due men forte sia. –
Par che la donna la proposta approvi:
ponsi in letto, e far crede opera pia.
Santa si crede e d'ogni fallo assolta;
ma l'insegue il destin pur questa volta.
LIV. Narrar poss'io, lettor, senza rossore
suor Faccenda chi fosse? Io non vi metto
né sal né olio, e vado con candore.
Suor Faccenda era un caro giovinetto
ch'avea d'Alcide il nerbo ed il vigore
e in un d'Adone il grazioso aspetto.
Di ventun anno e mezzo, come latte
bianco è di carni rugiadose intatte.
LV. L'Abbadessa da saggia se n'avea
fatto il suo vago da non molto, ed ella,
anzi egli suora baccellier pascea
là dentro la gentil sua pecorella.
Tal nella reggia un dì licomedea
Achille ascoso in femminil gonnella,
LVI. Appena dunque in letto si trovò
con la suora la nostra penitente,
che nuova e strana in lei che l'abbracciò,
Certo ch'ella in tal cambio guadagnò.
Che far dovea? lagnarsi, chiamar gente?
metter sossopra il monaster! Ciò fòra
uno scandalo, massime in quell'ora.
LVII. A pazienza rassegnarsi, e mute
tener le labbra è tutto che può fare,
e in queste occasioni imprevedute
rade volte s'ha tempo da pensare.
Come di suor Faccenda un po' sbattute
si fur le forze in quel giocondo affare
(però che dàlli dàlli, alfin convenne
pigliar pur fiato ed abbassar le penne),
LVIII. non senza contrizion la bella Agnese
seco medesma fa questo riflesso:
Dunque d'esser onesta invan mi prese
finor la voglia e tutto il cor v'ho messo?
Dunque in vano (e lo provo alle mie spese)
fatto ho quel che può fare il nostro sesso?
Concluse adunque che per esser casta
la buona volontà sempre non basta.