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I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio
fa sacrilego stupro. In loro aita
scende Dionigi, e la fatal guerriera
di tanto oltraggio alla vendetta incita.
Fra due santi rivali arde una fiera
lite, e ciascun ne porta una ferita.
Gabriel le devote ire compone.
L'Eroina Vartonno a morte pone.
I. Senza inutil esordio vi vo' dire
che i nostri due claustrali innamorati,
quando il sol cominciava ad apparire,
ambedue sazi de' piacer vietati,
tranquillamente alfin diersi a dormire
l'un contro l'altro stesi, abbandonati;
ma nel colmo di quella dolce ebbrezza
ecco un fracasso, che il lor sonno spezza.
II. Con la falce di guerra ecco la Morte,
che orribilmente d'ognintorno vaga,
e il lor destarsi illumina, e alle porte
del convento il terren di sangue allaga.
Quella coorte inglese alla coorte
de' Francesi già data avea la paga:
fugge questa a traverso per lo piano
e quella le va dietro, il ferro in mano,
III, uccidendo e gridando: – Mascalzoni,
o rendetene Agnese, o qui la pelle
ne lascerete, pezzi di poltroni: –
ma niun di questi ne sapea novelle.
Collin, vecchio pastor di quei cantoni,
disse loro: – Il portento de le belle
jer, signori, pascendo io qui l'armento,
vidi entrar verso sera in quel convento. –
IV. – Questa è Agnese, per Dio; questa è sicura-
mente Agnese, gridàr con alte voci.
Amici entriam, ché certa è la cattura. –
Poi, come nell'ovil lupi feroci,
saltano dentro a quelle sacre mura,
senza rispetto ai santi ed alle croci;
ed eccoli frugar di cella in cella
il dormitorio tutto e la cappella.
V. Suor Orsola, suor Marta e suor Agnese,
perché fuggite e al ciel le mani alzate?
Voi mi parete, dal terror comprese,
altrettante colombe sgomentate.
Senza voce, tremanti ed indifese
accorrete all'altare e l'abbracciate;
santo temuto asilo, onde vi faccia
casto riparo dalle oscene braccia.
VI. Tenera inerme greggia, invan tu chiami
il celeste tuo sposo in tal periglio.
Al suo cospetto, all'ara sua gl'infami
spiegan su te lo scellerato artiglio.
Né v'ha cosa sì pia che li richiami
dal profanare il virginal tuo giglio,
e quella pura intemerata fede
che tu giurasti di quell'ara al piede.
VII. So ben che v'ha, lettori, assai bricconi,
gente senza pudor, gente molesta
alle spose di Dio, sciocchi buffoni,
che, senza un'oncia di cervello in testa,
ardiscono insultar, Dio gli perdoni,
alle fanciulle a cui s'alza la vesta.
Lasciateli cantar, sorelle care:
dura cosa co' matti aver da fare.
VIII. Non san qual sia dolor per tenerelle
cuori, qual Dio li fece alle sue ancelle,
cader fra l'ugne di crudi soldati,
e da questi empii sulle guance belle
e vederli di strage ancor fumanti
piombarvi addosso bestemmiando i santi,
IX. e miste l'onte col piacer, sbuffando,
coglier d'amore con ferocia il frutto.
Taccio l'orribil fiato abbominando,
l'ispida barba, il corpo sozzo e brutto,
una manaccia ria che accarezzando
sembra dar morte; sì che, preso tutto,
veder demonii ti sarebbe avviso
che a gli angeli fan stupro in paradiso.
X. Già trionfa il delitto, e, inverecondi
volgendo gli occhi, imporpora le gote
delle caste beltà. Suora Rebondi,
vaso di senno e fior delle devote,
del fier Sipunc, oimé, nei furibondi
amplessi è già caduta, e invan si scuote:
Barclay duro e Varton il mariuolo
fan di suora Amadonna un piatto solo.
XI. Pianti, preghi, bestemmie, ira e tumulto
e spinte d'ogni parte e ria tenzone.
Ecco in fuggendo che riceve insulto
suor Faccenda da Barde e da Parsone.
Era ad entrambi gli aspiranti occulto
che la madre Faccenda era garzone.
Né tu, Agnese gentile, in quella stretta
tutta sei per andartene negletta.
XII. Imperocché l'immobile tuo fato,
dolce fato ad un tempo e maledetto,
gli è giurar sempre di non far peccato,
e di sempre peccare a tuo dispetto.
Il capo di quegli empii, uomo spietato,
audace vincitor ti stringe al petto,
e riverenti in mezzo al lor furore
gli cedono i soldati un tanto onore.
XIII. Ma ne' consigli suoi tremendi e cupi
il giustissimo Iddio talvolta ai nostri
mali un termine pon. Mentre quei lupi,
quei d'Albione abbominandi mostri
la sua santa Sionne empiean di strupi,
il buon Dionigi dagli eterei chiostri,
all'innocenza amico ed alla Francia,
non si grattava, si suol dir, la pancia.
XIV. San Dionigi bel bello e con prudenza,
quale a un santo convien, si seppe tòrre
ai sospetti inquieti, all'avvertenza
del fier san Giorgio, che i Francesi abborre.
Scese adunque dal ciel con diligenza;
ma non si volle a cavalcion riporre
del consueto suo diurno raggio,
ché palese avrìa fatto il suo viaggio.
XV. Corse ratto a trovare il simulato
Dio del mistero, Dio prudente e fino,
nemico del rumor, che in ogni lato
vola e di notte suol far suo cammino.
Ei favorisce (e certo è gran peccato)
il birbante sovente e l'assassino,
ma scorta il saggio, e un dì scortava Amore;
vive in corte ed in chiesa a tutte l'ore.
XVI. Ei prima in una nube il Santo ascose;
indi prese la via dove è più raro
l'uman vestigio; al labbro il dito pose,
parlando basso e camminando al paro.
Giunti presso a Blois per tenebrose
strade, i divini pellegrin trovaro
la Pulcella che in groppa al mulattiero
battea soletta un picciolo sentiero.
XVII. Nudo aveva il bel corpo ed al Signore
venìa pregando la fatal donzella
di farle alfin trovar quel traditore
che l'arnese le tolse e la gonnella.
Videla appena il santo protettore,
che benigno le disse: – O mia Pulcella,
di fanciulle, di regi e della Chiesa;
XVIII. vieni al soccorso del pudor ridotto
dal furor pazzo a gli ultimi perigli;
vieni, e il tuo braccio, ch'è dal ciel condotto,
braccio vendicator degli aurei gigli,
salvi le figlie mie. Vedi là sotto
quel convento? Là dentro fra li artigli
di brutal gente a quelle caste monache
senza timor di Dio s'alzan le tonache.
XIX. Vieni, vola. – Sì disse, e al monastero
la guerriera magnanima galoppa.
San Dionigi, facendo da scudiero,
a gran colpi di frusta sulla groppa,
arri, arri, affrettava il mulattiero.
Ecco ella giunge e piomba sulla coppa
a quei ribaldi, che con rabbia infame
van sparnazzando quelle sante dame.
XX. Verso lei, nuda dalla fronte al piede,
un lascivo breton volta la testa
all'improvviso, e, tosto che la vede,
a satisfare il suo desir s'appresta.
Si credette costui di buona fede
ch'ella venìa per esser della festa;
le corre incontro, e sul bel corpo nudo
va provocando la lussuria il crudo.
XXI. Ella gli cala sul naso un fendente;
cade il ribaldo bestemmiando, e appresso
quella parola profferir si sente
tanto cara ai Francesi ed al bel sesso:
consacrata al piacere, e cui sì spesso
il profan vulgo con la bocca indegna
è solito scoccar quando si sdegna.
XXII. Il sanguinoso corpo calpestando,
gridava l'eroina a quei furfanti:
– Fermatevi, crudeli, un sì nefando
lavor cessate, non tirate avanti.
Temete Iddio, profani, e questo brando. –
Ma parmi che sien sordi i lavoranti
tutti in quella grand'opra affaccendati,
e sopra le lor suore appollajati.
XXIII. Tal d'asini uno stuolo i fior nell'orto
diserta e del padron sprezza le grida.
Visto il brutto lavor, di pio trasporto
e d'orror piena l'alma a Dio sì fida,
freme Giovanna, ed il pregar suo pòrto
al buon Dionigi, che di sé l'affida,
di dosso in dosso il fatal brando mena,
di nuca in nuca e via di schiena in schiena.
XXIV. Col divin ferro li macella, e l'uno,
mentre vuol cominciar, fende per dritto;
spedisce l'altro all'aer morto e bruno,
mentre il sozzo finìa dolce delitto.
Miete insomma que' rei, sì che ciascuno
sulla monaca sua resta trafitto,
e nel mezzo al piacer l'alma perdendo,
passa all'inferno di piacer morendo.
XXV. Isacco Varton, anima dannata,
la cui lubrica rabbia aveva in quella
opera altrui sì turpe, a lui sì bella,
il solo fu costui che, abbandonata
la sua suora gentil, sceso di sella
e dritto in pie', ripresa l'armatura,
Giovanna attese in altra positura.
XXVI. Tu divo protettor del franco regno,
tu sì grande e sì buon, tu che la fiera
tenzon vedesti, piacciati al mio ingegno
questa istoria ridir famosa e vera.
Contami, tu che il sai, ciò che di degno
fe' combattendo allor l'alta guerriera.
Fremé da prima, e poscia: – Oh Santo mio,
stupefatta gridò, che mai vegg'io!
XXVII. O mio caro Dionigi, e non è quella
la celeste lorica e il corsaletto
e tutta l'armatura ornata e bella
che tu mi désti e mi ponesti al petto?
Or com'è che quest'arme il dosso abbella
di quel dannato inglese? Il maledetto
ha la mia cotta ancora e il mio cimiero. –
Così disse Giovanna, e disse il vero:
XXVIII. perocché, quando la divina Agnese
la gonna barattò nell'osteria,
quest'armatura di nascosto prese,
già v'è noto in qual modo, e fuggì via.
Sandò poscia le tolse un tale arnese,
quando nuda la tenne in sua balìa:
Isacco Varton suo scudiero appresso
tolse quell'arme, e ne adornò sé stesso.
XXIX. O Giovanna, o splendor dell'eroine,
tu combattesti allor per l'oltraggiato
tuo monarca, per l'armi tue divine,
per l'onor di Dionigi e pel macchiato
pudore delle sue benedettine.
E già l'ardita cento colpi ha dato
alla propria corazza ed all'elmetto,
in cui tremola vago un pennacchietto.
XXX. Nella calda fucina in Mongibello
di Vulcano i garzon guerci ed ignudi
sotto più tardo e più leggèr martello
risonar fanno le gementi incudi,
quando al maggior di Pluto alto fratello,
signor de' tuoni mormoranti e rudi,
preparano del ciel le colubrine,
che spaventano i topi e le galline.
XXXI. Rinculò stupefatto il fiero inglese,
vedendosi assalir da quell'irata
vispa brunetta, e al cor rimorso il prese
di ferirla sì nuda e delicata.
Tremar la spada nella man s'intese:
si difende e combatte in ritirata,
e, i tesori ammirando e la bellezza
della nemica, i colpi ne disprezza.
XXXII. Del paradiso in sen Giorgio frattanto
più non veggendo il confratel Dionigi,
sospettò sceso l'avversario santo
ad ajutar quaggiù la Fiordiligi.
Gira torbido il guardo in ogni canto,
e, di lui non trovando in ciel vestigi,
al suo bravo destrier, di che favella
la leggenda, fa tosto impor la sella.
XXXIII. Venne il destriero, e Giorgio paladino,
coll'asta in pugno e lo spadone a lato,
l'orrendo trascorrea spazio azzurrino,
che invan l'umano ardire ha misurato.
Passa i cieli diversi, e da vicino
vede i fulgidi globi che Renato,
sublime sognator, raggira e volve
nella sua fina vorticosa polve.
XXXIV. Ne' vortici vo' dir che mai provarse
non potero, e che poi ratti spariro,
quando più illustre sognator comparse
Neuton, che tutto conquistò l'empiro,
e quei soli costrinse a rotearse
a traverso il gran vòto in altro giro,
dalla lor propria gravità sospinti,
e in eterna armonia nel corso avvinti.
XXXV. Giorgio il varca e là piomba furibondo
dove il rival già tiensi vincitore.
Tal nella muta oscurità del mondo
diffonde una cometa atro splendore,
che in sua lunga carriera il rubicondo
crin si dislaccia e il vulgo empie d'orrore:
ne trema il papa e afflitto il contadino
teme in quell'anno carestia di vino.
XXXVI. Come Giorgio da lungi ebbe veduto
il sir Dionigi, dispettoso e fiero
scosse l'asta e drizzògli per saluto
queste parole sullo stil d'Omero:
– O Dionigi, Dionigi, o di perduto
popol sostegno, beccalite fiero,
dunque furtivo tu discendi in terra
a scannarmi gli eroi dell'Inghilterra?
XXXVII. Credi tu di mutar le vie del fato
col tuo ronzino e il tuo femmineo fusto?
Né temi ch'io rivegga, o sciagurato,
a te, a tua figlia il pel col mazzafrusto?
Quel capaccio, che un dì ti fu tagliato
e poi rimesso così mal sul busto,
in faccia alla tua chiesa tel vogl'io
dal collo torto dispiccar per Dio,
XXXVIII. ed in Parigi col tuo teschio in mano
rimandarti al sobborgo ov'hai la festa,
o de' baggiani protettor baggiano,
di nuovo a ribaciar la propria testa. –
Levò le palme al cielo in atto umano
Dionigi, e disse con favella onesta:
– O gran Giorgio, o possente mio fratello,
sarai dunque tu sempre un zolfanello?
XXXIX. Dal momento che il ciel coabitiamo,
altro che fele il pio tuo cor non serra;
e ti pare stia ben, santi che siamo,
santi incappati o festeggiati in terra,
noi che le genti edificar dobbiamo,
diffamarci l'un l'altro e farci guerra?
Vuoi tu della discordia alzar la face
fin nel soggiorno dell'eterna pace?
XL. E fino a quando i santi albionesi
porteranno l'inferno in paradiso?
Oh sempre duri e temerari inglesi,
sul cui labbro giammai non brilla il riso,
gelosi e sempre all'altrui danno intesi,
il cielo anch'esso, già per voi diviso,
gli è stufo omai di vostra prepotenza,
né più vuol santi di cotal semenza.
XLI. Dunque, o devoto brontolone, o tristo
sii più discreto, e lasciami per Cristo
dar soccorso alla Francia e al mio sovrano. –
Fremer d'ira a quel dir Giorgio fu visto,
e l'ira raddoppiò forza alla mano,
rosso nel volto come un peperone,
perché Dionigi avea per un poltrone.
XLII. Indi sovr'esso scagliasi feroce,
come sopra un piccion falco spietato.
Rinculò l'assalito, e ad alta voce
il suo fido chiamò ronzino alato.
– Vieni, sostegno mio, vieni veloce,
salva, grida, i miei dì. – Dimenticato,
così parlando, il buon Dionigi avea
che patir morte un santo non potea.
XLIII. Tornava dall'Italia appunto in quella
il quadrupede uccello benedetto,
e perché venne, in semplice favella
istorico succinto, io l'ho già detto.
Giunto, presenta al suo signor la sella;
e quei d'un salto vi si lancia netto,
e il santo deretano ha tocco appena
le groppe, che rinasce al cor la lena.
XLIV. Destramente raccolto ha giù di terra
d'un morto inglese la spadaccia, e, questa
terribile rotando, incalza e serra
Giorgio, e senza dar posa lo tempesta.
Giorgio pieno di rabbia gli disserra
ruinoso tre colpi sulla testa;
ma l'altro, che al suo capo avea gran cura,
tutti gli para con assai bravura.
XLV. E una furia di bòtte disperate
al cavallo dirizza e al cavaliero:
le spade insieme orribilmente urtate
gettan lampi, e il conflitto è ognor più fiero.
Van le crude percosse e le stoccate
al collare alla nuca ed al cimiero
all'aureòla e al delicato sito
ov'è l'usbergo al pettignone unito.
XLVI. La vittoria pendea, quando intonò
l'asino un raglio orribile e feroce:
tremonne il cielo, e l'eco replicò
dai cupi boschi la tremenda voce.
Impallidì san Giorgio. Allor cavò
san Dionigi una finta, e via veloce
d'un rovescio recise, oh strano caso!
netto al gran santo d'Albione il naso.
XLVII. La sanguinosa punta rotolando
cade sopra l'arcion. Giorgio, che perso
non ha col naso il cor, tosto è col brando
l'onor del volto a vendicar converso.
Giusta il bell'uso inglese sagratando,
e tirando a Dionigi di traverso,
la parte gli tagliò che Pietro un dì
cader fe' a Malco un certo giovedì.
XLVIII. A spettacolo tale, a la sonora
terribil voce del santo ronzino,
tutto si scosse il ciel. Le porte allora
si spalancàr del tetto adamantino,
e degli archi stelliferi uscir fuora
si vide Gabriel nunzio divino,
che, librato sull'ale in mezzo ai lampi,
dolcemente fendea gli eterei campi.
XLIX. In man la verga avea che sì famoso
fe' sul Nilo Mosè, quando il mar truce,
a' suoi cenni sospeso e rispettoso,
eserciti sommerse in un col duce.
– Che veggo io qui? (gridò l'angelo iroso)
due gran santi, due figli della luce,
d'un Dio di pace consiglier divini,
si dànno a dosso come due facchini?
L. Ah! lasciate ai mortali il ferro e l'ire!
abbandonate alla lor trista sorte
i villani lor corpi, per patire
nati dal fango e fatti per la morte.
Ma voi cui pure il ciel gode nutrire
del suo nèttare, voi dalle ritorte
della misera carne già sottratti,
siete stanchi del ciel? siete voi matti?
LI. Oh cielo! un naso ed un'orecchia! Oimé,
di Dio la grazia e la misericordia
v'avea formati tutti e due, perché
predicaste la pace e la concordia,
e voi da pazzi per non so quai re
seminate la guerra e la discordia.
Orsù, del cielo la rinunzia fate,
o tosto il capo al mio voler piegate.
LII. Nel fodero quei ferri, e raccendete
nel vostro cor la carità sopita:
Giorgio, a voi, quell'orecchia raccogliete;
raccoglietela, dico, e sia finita.
E voi, signor Dionigi, sù prendete
quel naso con le vostre sante dita.
Via da bravi, al suo posto naturale
sia rimessa ogni cosa tale e quale. –
LIII. Allora con modestia il buon Dionigi
rimise immantinente il naso a Giorgio,
e Giorgio rese pure a san Dionigi
l'orecchia che gli avea tronca san Giorgio.
Dettosi poi da Giorgio e da Dionigi
un oremus gentil, Dionigi e Giorgio
più non serbàr nel corpo e nella faccia
della recente zuffa alcuna traccia.
LIV. E fibre e sangue e carne e tuttoquanto
consolidossi a segno, che rimaso
non fu vestigio all'uno e all'altro santo
di tronca orecchia e di tagliato naso.
Tanto la ciccia ben nutrita e tanto
puro i santi han l'umore in ogni vaso.
Poi Gabriele in tuon di presidente:
– Qua, datevi un amplesso allegramente, –
LV. disse: e baciò Dionigi il suo rivale
sinceramente e senza fiele in core.
Ma Giorgio, umor feroce e bestiale,
l'avversario abbracciò da traditore,
giurando di poi dargli il pan col sale,
e sfogar meglio altrove il suo rancore.
L'angelo bello dopo questo abbraccio
prese entrambi i miei santi sotto il braccio,
LVI. e con aria benigna e graziosa
li ricondusse alla celeste sede,
ove di dolce ambrosia rugiadosa
piena una tazza a tracannar lor diede.
Più d'un lettore a questa sanguinosa
battaglia forse non darà gran fede;
ma non videro un dì di Troja i fiumi
scendere armati dall'Olimpo i numi?
LVII. E non vide Miltòn per le campagne
del paradiso gli angeli rivali
trincerarsi per valli e per montagne
e ferir con le spade e coi pugnali?
e, ciò di che il buon senso ancora piagne,
colubrine adoprar, bombe e mortali?
Se con quest'armi Satana e Michele
decisero del ciel l'alte querele,
LVIII. a più forte ragion Giorgio potea
e il buon Dionigi per soverchio zelo
venir tra loro a zuffa iniqua e rea,
tagliarsi il naso e scardassarsi il pelo.
Ma per tornare a noi, se si vedea
restituirsi la concordia in cielo,
givan le cose assai diverse in terra,
maledetto soggiorno della guerra.
LIX. Carlo ansante correa per ogni strada
cercando Agnese, e col suo nome in bocca
sempre a gli occhi ha di pianto una rugiada.
Giovanna in questo fulminando tocca
con la vittrice sanguinosa spada
il superbo Vartonne, e gliel'incocca
verso l'enorme orribile strumento,
con che l'iniquo profanò il convento.
LX. Vacilla il crudo e fuor delle tremanti
pugna gli fugge il brando derelitto:
cade e qui spira, rinnegando i santi.
Delle suore più vecchie il gregge afflitto,
mirando il cavalier steso davanti
alla guerriera, a mezza via trafitto,
sclamavano: – Gesù ne sia lodato,
che il peccator percote ov'ha peccato! –
LXI. Suor Rebondi, che stata in sacristia
era sotto quell'empio, al suo Signore
grazie molte col labbro riferìa,
piangendo il traditor dentro del core.
Con la coda dell'occhio ella venìa
misurando per terra il peccatore,
e con voce dicea caritatevole:
– Oimé, oimé, nessun fu più colpevole. –
Allusione ai vortici del Descartes, e alla stia materia sottile: fantasie ridicole, che furon di moda per tanto tempo. Non si sa perché l'autor nostro dia l'epiteto di sognatore al Newton, che ha dimostrato l'esistenza del vuoto; ma la ragione è forse questa, che il suddetto Newton sospetta uno spirito supremamente elastico esser la causa della gravitazione.
Nel quinto canto del Paradiso perduto.