François-Marie Arouet de Voltaire
La pulcella d'Orléans

CANTO UNDECIMO

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CANTO UNDECIMO

 

 

ARGOMENTO

 

Nelle spose di Cristo un'empia schiera

fa sacrilego stupro. In loro aita

scende Dionigi, e la fatal guerriera

di tanto oltraggio alla vendetta incita.

Fra due santi rivali arde una fiera

lite, e ciascun ne porta una ferita.

Gabriel le devote ire compone.

L'Eroina Vartonno a morte pone.

 

 

I. Senza inutil esordio vi vo' dire

che i nostri due claustrali innamorati,

quando il sol cominciava ad apparire,

ambedue sazi de' piacer vietati,

tranquillamente alfin diersi a dormire

l'un contro l'altro stesi, abbandonati;

ma nel colmo di quella dolce ebbrezza

ecco un fracasso, che il lor sonno spezza.

II. Con la falce di guerra ecco la Morte,

che orribilmente d'ognintorno vaga,

e il lor destarsi illumina, e alle porte

del convento il terren di sangue allaga.

Quella coorte inglese alla coorte

de' Francesi già data avea la paga:

fugge questa a traverso per lo piano

e quella le va dietro, il ferro in mano,

III, uccidendo e gridando: – Mascalzoni,

o rendetene Agnese, o qui la pelle

ne lascerete, pezzi di poltroni: –

ma niun di questi ne sapea novelle.

Collin, vecchio pastor di quei cantoni,

disse loro: – Il portento de le belle

jer, signori, pascendo io qui l'armento,

vidi entrar verso sera in quel convento. –

IV. – Questa è Agnese, per Dio; questa è sicura-

mente Agnese, gridàr con alte voci.

Amici entriam, ché certa è la cattura. –

Poi, come nell'ovil lupi feroci,

saltano dentro a quelle sacre mura,

senza rispetto ai santi ed alle croci;

ed eccoli frugar di cella in cella

il dormitorio tutto e la cappella.

V. Suor Orsola, suor Marta e suor Agnese,

perché fuggite e al ciel le mani alzate?

Voi mi parete, dal terror comprese,

altrettante colombe sgomentate.

Senza voce, tremanti ed indifese

accorrete all'altare e l'abbracciate;

santo temuto asilo, onde vi faccia

casto riparo dalle oscene braccia.

VI. Tenera inerme greggia, invan tu chiami

il celeste tuo sposo in tal periglio.

Al suo cospetto, all'ara sua gl'infami

spiegan su te lo scellerato artiglio.

Né v'ha cosa sì pia che li richiami

dal profanare il virginal tuo giglio,

e quella pura intemerata fede

che tu giurasti di quell'ara al piede.

VII. So ben che v'ha, lettori, assai bricconi,

gente senza pudor, gente molesta

alle spose di Dio, sciocchi buffoni,

che, senza un'oncia di cervello in testa,

ardiscono insultar, Dio gli perdoni,

alle fanciulle a cui s'alza la vesta.

Lasciateli cantar, sorelle care:

dura cosa co' matti aver da fare.

VIII. Non san qual sia dolor per tenerelle

timorose beltà, per delicati

cuori, qual Dio li fece alle sue ancelle,

cader fra l'ugne di crudi soldati,

e da questi empii sulle guance belle

ricever baci furiosi ingrati,

e vederli di strage ancor fumanti

piombarvi addosso bestemmiando i santi,

IX. e miste l'onte col piacer, sbuffando,

coglier d'amore con ferocia il frutto.

Taccio l'orribil fiato abbominando,

l'ispida barba, il corpo sozzo e brutto,

una manaccia ria che accarezzando

sembra dar morte; sì che, preso tutto,

veder demonii ti sarebbe avviso

che a gli angeli fan stupro in paradiso.

X. Già trionfa il delitto, e, inverecondi

volgendo gli occhi, imporpora le gote

delle caste beltà. Suora Rebondi,

vaso di senno e fior delle devote,

del fier Sipunc, oimé, nei furibondi

amplessi è già caduta, e invan si scuote:

Barclay duro e Varton il mariuolo

fan di suora Amadonna un piatto solo.

XI. Pianti, preghi, bestemmie, ira e tumulto

e spinte d'ogni parte e ria tenzone.

Ecco in fuggendo che riceve insulto

suor Faccenda da Barde e da Parsone.

Era ad entrambi gli aspiranti occulto

che la madre Faccenda era garzone.

Né tu, Agnese gentile, in quella stretta

tutta sei per andartene negletta.

XII. Imperocché l'immobile tuo fato,

dolce fato ad un tempo e maledetto,

gli è giurar sempre di non far peccato,

e di sempre peccare a tuo dispetto.

Il capo di quegli empii, uomo spietato,

audace vincitor ti stringe al petto,

e riverenti in mezzo al lor furore

gli cedono i soldati un tanto onore.

XIII. Ma ne' consigli suoi tremendi e cupi

il giustissimo Iddio talvolta ai nostri

mali un termine pon. Mentre quei lupi,

quei d'Albione abbominandi mostri

la sua santa Sionne empiean di strupi,

il buon Dionigi dagli eterei chiostri,

all'innocenza amico ed alla Francia,

non si grattava, si suol dir, la pancia.

XIV. San Dionigi bel bello e con prudenza,

quale a un santo convien, si seppe tòrre

ai sospetti inquieti, all'avvertenza

del fier san Giorgio, che i Francesi abborre.

Scese adunque dal ciel con diligenza;

ma non si volle a cavalcion riporre

del consueto suo diurno raggio,

ché palese avrìa fatto il suo viaggio.

XV. Corse ratto a trovare il simulato

Dio del mistero, Dio prudente e fino,

nemico del rumor, che in ogni lato

vola e di notte suol far suo cammino.

Ei favorisce (e certo è gran peccato)

il birbante sovente e l'assassino,

ma scorta il saggio, e un scortava Amore;

vive in corte ed in chiesa a tutte l'ore.

XVI. Ei prima in una nube il Santo ascose;

indi prese la via dove è più raro

l'uman vestigio; al labbro il dito pose,

parlando basso e camminando al paro.

Giunti presso a Blois per tenebrose

strade, i divini pellegrin trovaro

la Pulcella che in groppa al mulattiero

battea soletta un picciolo sentiero.

XVII. Nudo aveva il bel corpo ed al Signore

venìa pregando la fatal donzella

di farle alfin trovar quel traditore

che l'arnese le tolse e la gonnella.

Videla appena il santo protettore,

che benigno le disse: – O mia Pulcella,

o Vergine serbata alla difesa

di fanciulle, di regi e della Chiesa;

XVIII. vieni al soccorso del pudor ridotto

dal furor pazzo a gli ultimi perigli;

vieni, e il tuo braccio, ch'è dal ciel condotto,

braccio vendicator degli aurei gigli,

salvi le figlie mie. Vedi sotto

quel convento? dentro fra li artigli

di brutal gente a quelle caste monache

senza timor di Dio s'alzan le tonache.

XIX. Vieni, vola. – Sì disse, e al monastero

la guerriera magnanima galoppa.

San Dionigi, facendo da scudiero,

a gran colpi di frusta sulla groppa,

arri, arri, affrettava il mulattiero.

Ecco ella giunge e piomba sulla coppa

a quei ribaldi, che con rabbia infame

van sparnazzando quelle sante dame.

XX. Verso lei, nuda dalla fronte al piede,

un lascivo breton volta la testa

all'improvviso, e, tosto che la vede,

a satisfare il suo desir s'appresta.

Si credette costui di buona fede

ch'ella venìa per esser della festa;

le corre incontro, e sul bel corpo nudo

va provocando la lussuria il crudo.

XXI. Ella gli cala sul naso un fendente;

cade il ribaldo bestemmiando, e appresso

quella parola profferir si sente

tanto cara ai Francesi ed al bel sesso:

energica parola ed eloquente

consacrata al piacere, e cui sì spesso

il profan vulgo con la bocca indegna

è solito scoccar quando si sdegna.

XXII. Il sanguinoso corpo calpestando,

gridava l'eroina a quei furfanti:

Fermatevi, crudeli, un sì nefando

lavor cessate, non tirate avanti.

Temete Iddio, profani, e questo brando. –

Ma parmi che sien sordi i lavoranti

tutti in quella grand'opra affaccendati,

e sopra le lor suore appollajati.

XXIII. Tal d'asini uno stuolo i fior nell'orto

diserta e del padron sprezza le grida.

Visto il brutto lavor, di pio trasporto

e d'orror piena l'alma a Diofida,

freme Giovanna, ed il pregar suo pòrto

al buon Dionigi, che di sé l'affida,

di dosso in dosso il fatal brando mena,

di nuca in nuca e via di schiena in schiena.

XXIV. Col divin ferro li macella, e l'uno,

mentre vuol cominciar, fende per dritto;

spedisce l'altro all'aer morto e bruno,

mentre il sozzo finìa dolce delitto.

Miete insomma que' rei, sì che ciascuno

sulla monaca sua resta trafitto,

e nel mezzo al piacer l'alma perdendo,

passa all'inferno di piacer morendo.

XXV. Isacco Varton, anima dannata,

la cui lubrica rabbia aveva in quella

felicissimamente consumata

opera altrui sì turpe, a lui sì bella,

il solo fu costui che, abbandonata

la sua suora gentil, sceso di sella

e dritto in pie', ripresa l'armatura,

Giovanna attese in altra positura.

XXVI. Tu divo protettor del franco regno,

tu sì grande e sì buon, tu che la fiera

tenzon vedesti, piacciati al mio ingegno

questa istoria ridir famosa e vera.

Contami, tu che il sai, ciò che di degno

fe' combattendo allor l'alta guerriera.

Fremé da prima, e poscia: – Oh Santo mio,

stupefatta gridò, che mai vegg'io!

XXVII. O mio caro Dionigi, e non è quella

la celeste lorica e il corsaletto

e tutta l'armatura ornata e bella

che tu mi désti e mi ponesti al petto?

Or com'è che quest'arme il dosso abbella

di quel dannato inglese? Il maledetto

ha la mia cotta ancora e il mio cimiero. –

Così disse Giovanna, e disse il vero:

XXVIII. perocché, quando la divina Agnese

la gonna barattò nell'osteria,

quest'armatura di nascosto prese,

già v'è noto in qual modo, e fuggì via.

Sandò poscia le tolse un tale arnese,

quando nuda la tenne in sua balìa:

Isacco Varton suo scudiero appresso

tolse quell'arme, e ne adornò sé stesso.

XXIX. O Giovanna, o splendor dell'eroine,

tu combattesti allor per l'oltraggiato

tuo monarca, per l'armi tue divine,

per l'onor di Dionigi e pel macchiato

pudore delle sue benedettine.

E già l'ardita cento colpi ha dato

alla propria corazza ed all'elmetto,

in cui tremola vago un pennacchietto.

XXX. Nella calda fucina in Mongibello

di Vulcano i garzon guerci ed ignudi

sotto più tardo e più leggèr martello

risonar fanno le gementi incudi,

quando al maggior di Pluto alto fratello,

signor de' tuoni mormoranti e rudi,

preparano del ciel le colubrine,

che spaventano i topi e le galline.

XXXI. Rinculò stupefatto il fiero inglese,

vedendosi assalir da quell'irata

vispa brunetta, e al cor rimorso il prese

di ferirlanuda e delicata.

Tremar la spada nella man s'intese:

si difende e combatte in ritirata,

e, i tesori ammirando e la bellezza

della nemica, i colpi ne disprezza.

XXXII. Del paradiso in sen Giorgio frattanto

più non veggendo il confratel Dionigi,

sospettò sceso l'avversario santo

ad ajutar quaggiù la Fiordiligi.

Gira torbido il guardo in ogni canto,

e, di lui non trovando in ciel vestigi,

al suo bravo destrier, di che favella

la leggenda, fa tosto impor la sella.

XXXIII. Venne il destriero, e Giorgio paladino,

coll'asta in pugno e lo spadone a lato,

l'orrendo trascorrea spazio azzurrino,

che invan l'umano ardire ha misurato.

Passa i cieli diversi, e da vicino

vede i fulgidi globi che Renato,

sublime sognator, raggira e volve

nella sua fina vorticosa polve.

XXXIV. Ne' vortici vo' dir che mai provarse

non potero, e che poi ratti spariro,

quando più illustre sognator comparse

Neuton, che tutto conquistò l'empiro,

e quei soli costrinse a rotearse

a traverso il gran vòto in altro giro,

dalla lor propria gravità sospinti,

e in eterna armonia nel corso avvinti.

XXXV. Giorgio il varca e piomba furibondo

dove il rival già tiensi vincitore.

Tal nella muta oscurità del mondo

diffonde una cometa atro splendore,

che in sua lunga carriera il rubicondo

crin si dislaccia e il vulgo empie d'orrore:

ne trema il papa e afflitto il contadino

teme in quell'anno carestia di vino.

XXXVI. Come Giorgio da lungi ebbe veduto

il sir Dionigi, dispettoso e fiero

scosse l'asta e drizzògli per saluto

queste parole sullo stil d'Omero:

– O Dionigi, Dionigi, o di perduto

popol sostegno, beccalite fiero,

dunque furtivo tu discendi in terra

a scannarmi gli eroi dell'Inghilterra?

XXXVII. Credi tu di mutar le vie del fato

col tuo ronzino e il tuo femmineo fusto?

temi ch'io rivegga, o sciagurato,

a te, a tua figlia il pel col mazzafrusto?

Quel capaccio, che un ti fu tagliato

e poi rimesso così mal sul busto,

in faccia alla tua chiesa tel vogl'io

dal collo torto dispiccar per Dio,

XXXVIII. ed in Parigi col tuo teschio in mano

rimandarti al sobborgo ov'hai la festa,

o de' baggiani protettor baggiano,

di nuovo a ribaciar la propria testa. –

Levò le palme al cielo in atto umano

Dionigi, e disse con favella onesta:

– O gran Giorgio, o possente mio fratello,

sarai dunque tu sempre un zolfanello?

XXXIX. Dal momento che il ciel coabitiamo,

altro che fele il pio tuo cor non serra;

e ti pare stia ben, santi che siamo,

santi incappati o festeggiati in terra,

noi che le genti edificar dobbiamo,

diffamarci l'un l'altro e farci guerra?

Vuoi tu della discordia alzar la face

fin nel soggiorno dell'eterna pace?

XL. E fino a quando i santi albionesi

porteranno l'inferno in paradiso?

Oh sempre duri e temerari inglesi,

sul cui labbro giammai non brilla il riso,

gelosi e sempre all'altrui danno intesi,

il cielo anch'esso, già per voi diviso,

gli è stufo omai di vostra prepotenza,

né più vuol santi di cotal semenza.

XLI. Dunque, o devoto brontolone, o tristo

avvocato di popolo inumano,

sii più discreto, e lasciami per Cristo

dar soccorso alla Francia e al mio sovrano. –

Fremer d'ira a quel dir Giorgio fu visto,

e l'ira raddoppiò forza alla mano,

rosso nel volto come un peperone,

perché Dionigi avea per un poltrone.

XLII. Indi sovr'esso scagliasi feroce,

come sopra un piccion falco spietato.

Rinculò l'assalito, e ad alta voce

il suo fido chiamò ronzino alato.

– Vieni, sostegno mio, vieni veloce,

salva, grida, i miei . – Dimenticato,

così parlando, il buon Dionigi avea

che patir morte un santo non potea.

XLIII. Tornava dall'Italia appunto in quella

il quadrupede uccello benedetto,

e perché venne, in semplice favella

istorico succinto, io l'ho già detto.

Giunto, presenta al suo signor la sella;

e quei d'un salto vi si lancia netto,

e il santo deretano ha tocco appena

le groppe, che rinasce al cor la lena.

XLIV. Destramente raccolto ha giù di terra

d'un morto inglese la spadaccia, e, questa

terribile rotando, incalza e serra

Giorgio, e senza dar posa lo tempesta.

Giorgio pieno di rabbia gli disserra

ruinoso tre colpi sulla testa;

ma l'altro, che al suo capo avea gran cura,

tutti gli para con assai bravura.

XLV. E una furia di bòtte disperate

al cavallo dirizza e al cavaliero:

le spade insieme orribilmente urtate

gettan lampi, e il conflitto è ognor più fiero.

Van le crude percosse e le stoccate

al collare alla nuca ed al cimiero

all'aureòla e al delicato sito

ov'è l'usbergo al pettignone unito.

XLVI. La vittoria pendea, quando intonò

l'asino un raglio orribile e feroce:

tremonne il cielo, e l'eco replicò

dai cupi boschi la tremenda voce.

Impallidì san Giorgio. Allor cavò

san Dionigi una finta, e via veloce

d'un rovescio recise, oh strano caso!

netto al gran santo d'Albione il naso.

XLVII. La sanguinosa punta rotolando

cade sopra l'arcion. Giorgio, che perso

non ha col naso il cor, tosto è col brando

l'onor del volto a vendicar converso.

Giusta il bell'uso inglese sagratando,

e tirando a Dionigi di traverso,

la parte gli tagliò che Pietro un

cader fe' a Malco un certo giovedì.

XLVIII. A spettacolo tale, a la sonora

terribil voce del santo ronzino,

tutto si scosse il ciel. Le porte allora

si spalancàr del tetto adamantino,

e degli archi stelliferi uscir fuora

si vide Gabriel nunzio divino,

che, librato sull'ale in mezzo ai lampi,

dolcemente fendea gli eterei campi.

XLIX. In man la verga avea che sì famoso

fe' sul Nilo Mosè, quando il mar truce,

a' suoi cenni sospeso e rispettoso,

eserciti sommerse in un col duce.

– Che veggo io qui? (gridò l'angelo iroso)

due gran santi, due figli della luce,

d'un Dio di pace consiglier divini,

si dànno a dosso come due facchini?

L. Ah! lasciate ai mortali il ferro e l'ire!

abbandonate alla lor trista sorte

i villani lor corpi, per patire

nati dal fango e fatti per la morte.

Ma voi cui pure il ciel gode nutrire

del suo nèttare, voi dalle ritorte

della misera carne già sottratti,

siete stanchi del ciel? siete voi matti?

LI. Oh cielo! un naso ed un'orecchia! Oimé,

di Dio la grazia e la misericordia

v'avea formati tutti e due, perché

predicaste la pace e la concordia,

e voi da pazzi per non so quai re

seminate la guerra e la discordia.

Orsù, del cielo la rinunzia fate,

o tosto il capo al mio voler piegate.

LII. Nel fodero quei ferri, e raccendete

nel vostro cor la carità sopita:

Giorgio, a voi, quell'orecchia raccogliete;

raccoglietela, dico, e sia finita.

E voi, signor Dionigi, prendete

quel naso con le vostre sante dita.

Via da bravi, al suo posto naturale

sia rimessa ogni cosa tale e quale. –

LIII. Allora con modestia il buon Dionigi

rimise immantinente il naso a Giorgio,

e Giorgio rese pure a san Dionigi

l'orecchia che gli avea tronca san Giorgio.

Dettosi poi da Giorgio e da Dionigi

un oremus gentil, Dionigi e Giorgio

più non serbàr nel corpo e nella faccia

della recente zuffa alcuna traccia.

LIV. E fibre e sangue e carne e tuttoquanto

consolidossi a segno, che rimaso

non fu vestigio all'uno e all'altro santo

di tronca orecchia e di tagliato naso.

Tanto la ciccia ben nutrita e tanto

puro i santi han l'umore in ogni vaso.

Poi Gabriele in tuon di presidente:

– Qua, datevi un amplesso allegramente, –

LV. disse: e baciò Dionigi il suo rivale

sinceramente e senza fiele in core.

Ma Giorgio, umor feroce e bestiale,

l'avversario abbracciò da traditore,

giurando di poi dargli il pan col sale,

e sfogar meglio altrove il suo rancore.

L'angelo bello dopo questo abbraccio

prese entrambi i miei santi sotto il braccio,

LVI. e con aria benigna e graziosa

li ricondusse alla celeste sede,

ove di dolce ambrosia rugiadosa

piena una tazza a tracannar lor diede.

Più d'un lettore a questa sanguinosa

battaglia forse non darà gran fede;

ma non videro un di Troja i fiumi

scendere armati dall'Olimpo i numi?

LVII. E non vide Miltòn per le campagne

del paradiso gli angeli rivali

trincerarsi per valli e per montagne

e ferir con le spade e coi pugnali?

e, ciò di che il buon senso ancora piagne,

colubrine adoprar, bombe e mortali?

Se con quest'armi Satana e Michele

decisero del ciel l'alte querele,

LVIII. a più forte ragion Giorgio potea

e il buon Dionigi per soverchio zelo

venir tra loro a zuffa iniqua e rea,

tagliarsi il naso e scardassarsi il pelo.

Ma per tornare a noi, se si vedea

restituirsi la concordia in cielo,

givan le cose assai diverse in terra,

maledetto soggiorno della guerra.

LIX. Carlo ansante correa per ogni strada

cercando Agnese, e col suo nome in bocca

sempre a gli occhi ha di pianto una rugiada.

Giovanna in questo fulminando tocca

con la vittrice sanguinosa spada

il superbo Vartonne, e gliel'incocca

verso l'enorme orribile strumento,

con che l'iniquo profanò il convento.

LX. Vacilla il crudo e fuor delle tremanti

pugna gli fugge il brando derelitto:

cade e qui spira, rinnegando i santi.

Delle suore più vecchie il gregge afflitto,

mirando il cavalier steso davanti

alla guerriera, a mezza via trafitto,

sclamavano: – Gesù ne sia lodato,

che il peccator percote ov'ha peccato! –

LXI. Suor Rebondi, che stata in sacristia

era sotto quell'empio, al suo Signore

grazie molte col labbro riferìa,

piangendo il traditor dentro del core.

Con la coda dell'occhio ella venìa

misurando per terra il peccatore,

e con voce dicea caritatevole:

– Oimé, oimé, nessun fu più colpevole. –

 

 

NOTE AL CANTO UNDECIMO

 

Ottava XXXIII, v. 6-8:

Allusione ai vortici del Descartes, e alla stia materia sottile: fantasie ridicole, che furon di moda per tanto tempo. Non si sa perché l'autor nostro dia l'epiteto di sognatore al Newton, che ha dimostrato l'esistenza del vuoto; ma la ragione è forse questa, che il suddetto Newton sospetta uno spirito supremamente elastico esser la causa della gravitazione.

Ottava LVII, v. 1-6:

Nel quinto canto del Paradiso perduto.


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