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I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio
ospiti sono d'un gentil barone.
Muore il fier cappellano in un duello
impertinente e senza confessione.
Carlo e la compagnia giunge al castello:
con Agnese si corca il bel garzone,
che, scoverto da Carlo, è in gran periglio,
ma gli salvano il cul tre fior di giglio.
I. Avea giurato di lasciar da parte
la morale e cantar netto e sincero
senza tanti preamboli e senz'arte.
Ma che non puote Amore? Egli è ciarliero,
e l'inegual mia penna sulle carte
coll'affilato suo becco leggero
scarabocchiando va velocemente
ciò ch'egli spira al mio cervello ardente.
II. Giovani donne, o vedove, o donzelle,
o spose, che d'amor serve già siete,
e vibrate le sue dolci facelle
ne' nostri petti e al par le ricevete,
rispondetemi un poco, o donne belle,
allorquando due amanti, supponete
giovani entrambi e di sembianti cari,
di talento, di grazia e merto pari,
III. del pari alle dolcezze alme di Venere
vi fanno invito ed irritando allettano
le vostre fibre sitibonde e tènere,
che or quinci or quindi refrigerio aspettano
all'incendio che par vi sciolga in cenere;
non è egli ver che in grande affar vi gettano?
Il vostro caso è quello, in due parole,
d'un certo ciuccio illustre nelle scuole.
IV. Fùro esposte da pranzo al poveretto
due misure di biada in tutto eguali,
equidistanti e d'uno stesso aspetto!
L'asino, attratto da due brame eguali,
dritto gli orecchi, immobile, interdetto,
nel giusto mezzo di due forze eguali,
per legge d'equilibrio e per timore
di scer male, di fame alfin si muore.
V. Questa filosofia non imitate,
e tutti e due, piuttosto, a un tempo istesso
consolate gli amanti, ed accordate
della vostra bontà pieno il possesso.
Come l'asino insomma non rischiate
la vostra vita per onor del sesso.
Ma ripigliam dell'opra il fil primiero,
e facciamo ritorno al monastero.
VI. Al sanguinoso monastero, io dico,
consternato e polluto, ove sì fiera
vendetta fece dello stuol pudico
delle spose di Dio l'alta guerriera.
A pochi passi è un bel castello antico,
del Ligeri propinquo alla riviera,
con ponti levatoj e torricelle
e le sue caditoje in cima a quelle.
VII. Scorre a piede un canal che trasparente
di sotto a quattrocento getti d'arco
gira intorno ed abbraccia vagamente
il grosso muro che difende il parco.
Un vegliardo baron, da quella gente
detto Cuttandro, in cortesia non parco,
di quel beato albergo era padrone,
sicuro e aperto a tutte le persone.
VIII. Uom di tenera pasta, in quelle mura
tutti egli accoglie e dice a tutti: – Entrate. –
Angli o franchi gli mandi la ventura,
voi l'amico di tutti in lui trovate.
Fosse a piedi, a cavallo od in vettura,
fosse principe, o turco, o prete, o frate,
tutti van colmi delle grazie sue:
ma bisognava entrarvi a due a due.
IX. Ogni barone ha qualche fantasia;
e questi avea per sempre risoluto
che in numer pari, e non mai caffo, sia
al suo castel ciascuno ricevuto.
Tal era di quell'uom la bizzarria.
Quando a coppia si giunge, il benvenuto
dicesi a tutti; ma colui meschino,
cui soletto colà porta il cammino!
X. O cenar malamente, o forza è attendere
che un altro il numer che prescritto fue,
felicemente venga intero a rendere;
numer perfetto che di due fa due.
Giovanna, giunta alfin l'armi a riprendere
che le fur tolte e sulle membra sue
risonarle facendo e chiacchierando,
vi trasse Agnese, già la notte instando.
XI. Quel cappellan, che l'inseguìa dappresso,
quel bollente di vizi empio vasello,
giunse sbuffando ed anelando anch'esso
alquanto dopo all'ospital castello.
Qual lupo che s'avea fra' denti messo,
ma non tutto ingozzato un grosso agnello,
bramoso di finir la sua pastura,
dà l'assalto all'ovile a notte oscura;
XII. tale, tutto lussuria per la vita,
quel ladron tonsurato e discortese
giva cercando della sua smarrita
gioja gli avanzi con pupille accese;
della gioja che allor gli fu rapita
che fra l'ugne tenea la dolce Agnese.
Suona, grida; al rumor corre il portiero,
e vede solo il nostro cavaliero.
XIII. Le due mobili travi, a cui pendente
da due catene è il tremolante piano
del ponte levatojo, immantinente
alzano, e il ponte se ne va lontano.
A quella vista bestemmiò furente,
chi mai? s'intende: il porco cappellano.
Segue con gli occhi il ponticel veloce,
alza le mani e resta senza voce.
XIV. Tale un gatto alla caccia d'un augello,
che alcun nell'uccelliera rinchius'abbia,
passa le zampe a traverso il cancello,
che rende vana del crudel la rabbia;
gira il gatto e rigira, e il poverello,
che si rannicchia in fondo della gabbia,
segue coll'occhio, e invan col pie' lavora.
Ma restò il prete più confuso ancora.
XV. Ecco vede arrivar fra le vicine
fronzute piante appunto in quel momento
un leggiadro garzon biondo il bel crine,
nero le ciglia, franco il portamento,
le grazie sulle guance porporine,
vivido il guardo e corto il pelo al mento,
almo di gioventù florido raggio.
– O questi è Amore, o certo il mio bel paggio. –
XVI. Era infatti Monroso, che cercato
dell'amor suo nascente avea l'obbietto
tutto quel giorno. Essendo capitato
quindi al convento, il vago giovinetto
a quelle sante suore era sembrato
più bello ancor nel garbo e nell'aspetto
dell'angel Gabriel, che dolce in viso
per benedirle vien dal paradiso.
XVII. Come vider beltà sì lusinghiera,
di rossor tutte in volto s'infiammarono,
fra sé dicendo: – Ah perché qui non era,
quando, mio buon Gesù, ci violarono? –
Poi gli fecero in cerchio un tiritera
che non finiva: alfin, come ascoltarono
ch'ei cerca Agnese, subito gli diero
il cavallo miglior del monastero.
XVIII. Ed oltre questo una sicura guida
onde a castel Cuttandro arrivar sano.
Giunt'egli al capo della via che guida
sopra il ponte, ritrova il cappellano.
Pien di giubilo e d'ira, – Oh sei tu, grida,
sei tu di Belzebù prete villano?
Per la salute mia, per la mia vaga,
i tuoi misfatti adesso avran la paga. –
XIX. Senza fargli risposta, il maledetto
prende con mano dal furor condotta
una pistola e toccane il grilletto:
cade il cane, fa foco e va la botta:
vola il piombo scagliato, e senza effetto
sibilando fuggì per l'aria rotta,
ché tremante la man di rabbia e d'ira
mal segnata da lungi avea la mira.
XX. Mirò più giusto il paggio, e più sicura
drizzò la palla nella fronte ardita,
in quella fronte spaventosa e dura,
su cui l'anima infame era scolpita.
Trabocca il prete sulla sabbia impura.
Il paggio, che lo vede uscir di vita,
sentì destarsi allor dolce nel core
la pietà che sublima il vincitore.
XXI. – Ah muori, disse, almen da battezzato,
se vivesti da cane, e a Dio, morendo,
chiedi perdono d'ogni tuo peccato,
digli contrito in manus tuas commendo. –
– No, rispose il pretaccio, io son dannato:
vado al diavolo: addio. – Così dicendo,
chiuse i lumi, e piombò l'anima ria
dell'inferno a ingrossar la compagnia.
XXII. Mentre così quel mostro impenitente
nel foco eterno ad arrostir andava,
il buon re Carlo, a cui l'augusta mente
la tristezza d'amor più sempre aggrava,
la sua vagante Agnese, e passeggiava,
per calmar l'amoroso suo dolore,
lungo il fiume con esso il confessore.
XXIII. Qui m'è d'uopo, lettor, farti avvisato:
quello per un teologo s'intende,
che un giovane monarca innamorato
per etichetta in direttor si prende.
Egli è un certo animal tutto impastato
d'indulgenza, un buon uom, che le faccende
del cor dirige, e che del mal, del bene
la fallace bilancia in man si tiene;
XXIV. e la fa dalla parte ove più vuole
inclinar dolcemente, e al ciel vi mena
per amabili vie piene di fole,
lasciandovi peccar senza dar pena.
Composto gli occhi i gesti e le parole,
tutto osserva, e con arte a sé incatena
il padron la padrona il favorito,
sempre accorto e gentil, sempre compìto.
XXV. Il direttor che Carlo confessava,
del buon santo Domenico era figlio,
uom dabben, da servizi e da consiglio.
Egli adunque al suo re così parlava
devoto il tuono, affettuoso il ciglio:
– Ah vi compiango! La parte animale
prende il disopra, e il caso è assai fatale.
XXVI. Amar Agnese, questo veramente
gli è peccato, mio re: ma la divina
misericordia il passa, e assai frequente
fra i gran santi fu già di Palestina.
Abram, quel padre d'ogni buon credente,
si tenne Agàr sua serva in concubina:
ella avea due begli occhi, onde gelosa
a ragion ne fu Sara e disdegnosa.
XXVII. Due sorelle sposò Giacobbe il giusto,
ed ogni patriarca ha conosciuto
degli amorosi cangiamenti il gusto.
Il santo Booz anch'esso ha ricevuto
nel vecchio letto, vecchierel robusto,
la vecchia e buona Ruth, dopo mietuto.
Senza contar la vaga Bersabea,
il buon Davidde un gran serraglio avea:
XXVIII. un serraglio di belve a suo piacere,
che il suo figlio Assalon, ch'era una fina
pelle da concia, egregio in quel mestiere,
ripassò tutte quante una mattina.
Salomone v'è noto: il suo sapere
e il più saggio dei re, con tutto questo,
fu dei re il più galante anco nel resto.
XXIX. Se voi fate altrettanto, ed or si spazia
fra i diletti la vostra giovinezza,
delle rose d'amore ancor non sazia,
calmatevi; il suo tempo ha la saggezza.
Giovin si pecca e vecchio s'ottien grazia. –
– Cazzo! (rispose Carlo con vivezza)
queste parole le son belle e buone:
ma ben lungi son io da Salomone.
XXX. Quanto l'invidio, oimé, quanto non debbe
i miei mali irritar la sua fortuna!
Pe' suoi reali passatempi egli ebbe
trecento belle; io non ne ho che una.
Ahi, non l'ho più! – Così dicendo, crebbe
del cor l'angoscia, e l'umor che s'aduna
nelle palpebre, corsegli veloce
sul regio naso e gli troncò la voce.
XXXI. Mentre piange così lungo la riva,
dentro un rozzo mantel, con un tarlato
collare al collo, un grosso ventre arriva
sovra un caval di trotto abbandonato.
Era Bonel, lui stesso: ognun che viva
nelle pene d'amor, sa quanto è grato,
dopo l'amato oggetto, il rivedere
il confidente d'ogni suo pensiere.
XXXII. Il re, prendendo e riprendendo lena,
con accenti di gaudio tremebondi
grida a Bonel: – Qual Dio mi ti rimena?
che fa Agnese? ove son gli occhi giocondi?
quali spiagge il suo sguardo rasserena?
ove trovarla? Di', parla, rispondi. –
Alle inchieste che Carlo infilza a josa,
tutto conta Bonel cosa per cosa.
XXXIII. Conta come l'avean messo in guarnello;
come servito avea nella cucina;
come a Sandò scappato era bel bello
per prodigio con fuga clandestina,
mentre coll'armi si facea macello;
come per tutto la beltà divina
si gìa cercando; alfin contò benissimo
ciò che sapea, ma non sapea nientissimo.
XXXIV. Egli ignorava il fatto disonesto
del brutal cappellano, il rispettoso
amor del paggio amato; anche l'incesto
del santo monaster gli era nascoso.
Dopo aver di quel dubbio e poi di questo
preso e ripreso il filo doloroso,
maladetta la sorte e gl'inimici,
si trovàr più che prima ambo infelici.
XXXV. Era la notte, e il solco rilucente
di Boote era giunto al suo finire,
quando il buon Bonifazio umilemente
al re pensoso così prese a dire:
– L'ora è tarda: vi prego aver presente
che, prence o frate, ogni mortale, o Sire,
s'ha giudizio, cercar debbe a quest'ora
per cenare e dormir qualche dimora. –
XXXVI. Non fe' risposta il re, tutto allo strazio
abbandonato dell'interna cura;
ma curvò il collo, e a mo' di Bonifazio
a galoppar si die' per la pianura.
Bonello, Carlo e il prete in poco spazio
si trovàr del castel sotto le mura;
del castel di Cuttandro, ove il bel paggio
sbatte i pensieri della luna al raggio.
XXXVII. Egli avea del dannato suo rivale
strascinato e sepolto entro il canale;
né già del suo cammin perdea l'obbietto.
Ma sospiroso il suo dolor mortale
va divorando nell'occulto petto,
fiso il guardo sul ponte discortese,
che lo divide dalla cara Agnese.
XXXVIII. Ma come della luna al raggio amico
vide quei tre, la speme al cor rinacque.
Con un garbo e una grazia che non dico,
presentossi, ma il nome e il suo amor tacque.
Il suo dire, il suo volto almo e pudico
ispirò tenerezza e al prence piacque,
e Bonifazio carezzò il bel viso
con la man con lo sguardo e col sorriso.
XXXIX. Fatto il numero pari, ecco uscir fuori
le scorrenti due travi, ecco abbassato
il mobil ponte. I quattro corridori
fan gemere del ponte il tavolato.
Il panciuto Bonel tutto in sudori
va dritto alla cucina, appena entrato.
Pensa alla cena, e il frate ivi presente
grazie ne rende a Dio devotamente.
XL. Prende Carlo altro none, e, pria che posto
siasi Cuttandro in letto, a lui s'invia.
Complimentollo il buon barone, e tosto
al suo quarto il menò con cortesia.
Qui star solo alcun poco ha il re disposto,
per gioir della sua malinconia
e per piangere Agnese. Ah non sapea
come vicini que' begli occhi avea!
LXI. Ben lo seppe Monroso. Egli al suo scopo
chiacchierar fece accortamente un paggio,
dir dove Agnese si riposa, e all'uopo
tutto osserva con occhio attento e saggio.
Quale un gatto talor che apposta il topo
con avide pupille al suo passaggio,
va piano piano, e la terra non sente
l'impressione dell'orme mute e lente;
XLII. poi, come il vede, addosso gli si caccia;
verso la bella, e innanzi invia le braccia,
tutto in punta di piedi, alto il tallone.
Agnese, Agnese, egli entra; alza la faccia.
Men veloce la paglia al paragone
vola all'ambra, e men pronto il ferro invita
con dolce simpatia la calamita.
XLIII. Il bel Monroso in arrivar si getta
alla sponda del letto a due ginocchi,
ove fra bianchi lini in sé ristretta
Agnese al sonno avea chiusi i begli occhi.
Né la forza né il tempo in quella fretta
ebbe alcun di far motto: appena tocchi,
prese foco la miccia, e un bacio ardente
unì l'avide bocche immantinente.
XLIV. Corse l'alma del labbro alle vivaci
rose e i begli occhi un dolce foco accese.
Le lingue loro si parlàr nei baci,
e solo il cor quell'eloquenza intese.
Muto linguaggio dei desiri audaci,
dolce preludio di più dolci imprese,
tregua un momento a musica sì bella;
date tempo al maestro di cappella.
XLV. Con sollecita mano Agnese intende
a dispogliar Monroso, a gettar via
l'incomodo vestir che le faccende
imbarazza d'amore e le disvia;
travestimento che natura offende,
che nell'età dell'oro era pazzia,
e cui principalmente abborre e sdegna
un dio ch'è nudo e d'andar nudo insegna.
XLVI. Oh Agnese! oh vista che rapisce il core!
è questa Flora e il volator marito?
è questa Psiche che carezza Amore?
o piuttosto la dea del pafio lito,
che in braccio del garzon languisce e muore,
dagli arabici tronchi partorito,
mentre Marte fra' Sciti il carro aggira
e in un di rabbia e gelosia sospira?
XLVII. Il Marte intanto della Francia Carlo
nel fondo del castel sospira anch'esso
con Bonello, e, d'amor punto dal tarlo,
mangia poco e mal bee, cotanto è oppresso.
Un vecchio camerier, per allegrarlo,
senza farsi pregar, senza permesso,
ciarlone di mestier, con gran franchezza
narra a sua regia taciturna altezza
XLVIII. qualmente due beltà, l'una virile,
d'aspetto militar, nero capello,
l'altra azzurra i be' rai, fresca, gentile,
dormivano ambedue dentro il castello.
Scosso il re, sulla coppia femminile
fa tosto i suoi sospetti, e dal donzello
si fa ben dire e ben ridire ancora
i tratti di colei che l'innamora;
XLIX. la rosea bocca, il crin, gli occhi, il pudico
portamento e il parlar che l'incatena.
– È dessa, è dessa, è l'idol mio, ti dico;
certo ne sono: al diavolo la cena.
Addio, Bonel; le corro in braccio, amico. –
Ciò detto, vola, ed in uscendo mena
un fracasso grandissimo. Ne nasca
che che si vuole, un re tutti ci ha in tasca.
L. – Agnese, ei grida, Agnese; – e il caro nome
d'Agnese ripeté tanto, che schietto
l'udì l'amante coppia, e se le chiome
non si rizzàr, tremò per altro il letto.
Come uscir d'imbarazzo? Udite, il come
l'ha tosto immaginato il pio paggetto.
Avea la stanza un grande armadio, e in quello
un picciolo oratorio e un altarello,
LI. ove a dir messa, se si vuol, talvolta
per venti soldi un cappuccin s'affretta.
Sopra il davanti in ben acconcia vòlta
s'apre una nicchia che il suo santo aspetta.
Questa sempre ai devoti occhi n'è tolta
da una sdrucita verde cortinetta.
Che fa Monroso? Come l'estro il piglia,
si caccia nella nicchia e s'accoviglia.
LII. Prende il posto del santo, e nudo nato
tiensi tremante in cor dietro le tele.
Vola re Carlo, e salta, appena entrato,
d'Agnese al collo e al gaudio apre le vele;
poi piagnendo usar crede il fortunato
dritto, cui gode ogni amator fedele,
principalmente un re. Freme a tai note
il santo ascoso e con rumor si scuote.
LIII. S'accosta il prence e tasta, e un corpo fresco
sente e s'arresta gridando: – Maria,
Satanasso, Gesù, santo Francesco! –
mezzo spavento e mezzo gelosia;
poi tira e tutta dell'altar sul desco
fa cader la cortina che coprìa
quella celeste amabile figura,
che a suo piacer formò l'alma natura.
LIV. Il bianco dorso, che il pudor volgea,
ai risguardanti, presentar si vede
ciò che senza pudor sottomettea
Cesare ne' begli anni a Nicomede;
ciò che nel vago Efestion piacea
tanto al famoso di Filippo erede;
ciò che Adriano in ciel mise dappoi.
Quanto deboli, o Dio, sono gli eroi!
LV. Se il mio lettore il fil non ha smarrito
di questa istoria, rammentar dovrìa
che Giovanna nel campo ostil col dito
da Dionigi diretto, a bizzarria,
tre bei fiori di giglio, in sul tornito
cul di Monroso disegnati avìa:
a quel culo, a quei gigli, a quel blasone
Carlo orando si prostra ginocchione.
LVI. Crede che il nero Belzebù gli ordisce
qualche malizia, qualche tradimento.
Cade Agnese in delirio e tramortisce
di rossor, di rimorso e di spavento.
Le tasta Carlo il polso e si smarrisce,
ché la trova già fuor di sentimento.
Grida: – Ajuto, soccorso alla donzella!
il demonio è nel corpo alla mia bella. –
LVII. A quei gridi turbato e brancolando,
di Carlo il confessor lascia la cena;
Bonel v'accorre ansando, traballando;
salta in piedi Giovanna, e surta appena,
con la terribil destra impugna il brando,
e va dove rumor tanto si mena:
Cuttandro in questa saporitamente
se la dormiva e non sentiva niente.
NOTE AL CANTO DODICESIMO
Caditoje (orig. mâchicoulis) son certe aperture lasciate fra i merli, dalle quali si può tirare sopra i nemici, mentre sono nei fossi.
Le pistole non furono inventate che molto tempo dopo a Pistoja.
In quel tempo non v'erano i frati cappuccini. Ma l'anacronismo non toglie nulla alla poesia.