François-Marie Arouet de Voltaire
La pulcella d'Orléans

CANTO DODICESIMO

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CANTO DODICESIMO

 

 

ARGOMENTO.

 

La gran Giovanna e Agnese di Sorello

ospiti sono d'un gentil barone.

Muore il fier cappellano in un duello

impertinente e senza confessione.

Carlo e la compagnia giunge al castello:

con Agnese si corca il bel garzone,

che, scoverto da Carlo, è in gran periglio,

ma gli salvano il cul tre fior di giglio.

 

 

I. Avea giurato di lasciar da parte

la morale e cantar netto e sincero

senza tanti preamboli e senz'arte.

Ma che non puote Amore? Egli è ciarliero,

e l'inegual mia penna sulle carte

coll'affilato suo becco leggero

scarabocchiando va velocemente

ciò ch'egli spira al mio cervello ardente.

II. Giovani donne, o vedove, o donzelle,

o spose, che d'amor serve già siete,

e vibrate le sue dolci facelle

ne' nostri petti e al par le ricevete,

rispondetemi un poco, o donne belle,

allorquando due amanti, supponete

giovani entrambi e di sembianti cari,

di talento, di grazia e merto pari,

III. del pari alle dolcezze alme di Venere

vi fanno invito ed irritando allettano

le vostre fibre sitibonde e tènere,

che or quinci or quindi refrigerio aspettano

all'incendio che par vi sciolga in cenere;

non è egli ver che in grande affar vi gettano?

Il vostro caso è quello, in due parole,

d'un certo ciuccio illustre nelle scuole.

IV. Fùro esposte da pranzo al poveretto

due misure di biada in tutto eguali,

equidistanti e d'uno stesso aspetto!

L'asino, attratto da due brame eguali,

dritto gli orecchi, immobile, interdetto,

nel giusto mezzo di due forze eguali,

per legge d'equilibrio e per timore

di scer male, di fame alfin si muore.

V. Questa filosofia non imitate,

e tutti e due, piuttosto, a un tempo istesso

consolate gli amanti, ed accordate

della vostra bontà pieno il possesso.

Come l'asino insomma non rischiate

la vostra vita per onor del sesso.

Ma ripigliam dell'opra il fil primiero,

e facciamo ritorno al monastero.

VI. Al sanguinoso monastero, io dico,

consternato e polluto, ove sì fiera

vendetta fece dello stuol pudico

delle spose di Dio l'alta guerriera.

A pochi passi è un bel castello antico,

del Ligeri propinquo alla riviera,

con ponti levatoj e torricelle

e le sue caditoje in a quelle.

VII. Scorre a piede un canal che trasparente

di sotto a quattrocento getti d'arco

gira intorno ed abbraccia vagamente

il grosso muro che difende il parco.

Un vegliardo baron, da quella gente

detto Cuttandro, in cortesia non parco,

di quel beato albergo era padrone,

sicuro e aperto a tutte le persone.

VIII. Uom di tenera pasta, in quelle mura

tutti egli accoglie e dice a tutti: – Entrate. –

Angli o franchi gli mandi la ventura,

voi l'amico di tutti in lui trovate.

Fosse a piedi, a cavallo od in vettura,

fosse principe, o turco, o prete, o frate,

tutti van colmi delle grazie sue:

ma bisognava entrarvi a due a due.

IX. Ogni barone ha qualche fantasia;

e questi avea per sempre risoluto

che in numer pari, e non mai caffo, sia

al suo castel ciascuno ricevuto.

Tal era di quell'uom la bizzarria.

Quando a coppia si giunge, il benvenuto

dicesi a tutti; ma colui meschino,

cui soletto colà porta il cammino!

X. O cenar malamente, o forza è attendere

che un altro il numer che prescritto fue,

felicemente venga intero a rendere;

numer perfetto che di due fa due.

Giovanna, giunta alfin l'armi a riprendere

che le fur tolte e sulle membra sue

risonarle facendo e chiacchierando,

vi trasse Agnese, già la notte instando.

XI. Quel cappellan, che l'inseguìa dappresso,

quel bollente di vizi empio vasello,

giunse sbuffando ed anelando anch'esso

alquanto dopo all'ospital castello.

Qual lupo che s'avea fra' denti messo,

ma non tutto ingozzato un grosso agnello,

bramoso di finir la sua pastura,

l'assalto all'ovile a notte oscura;

XII. tale, tutto lussuria per la vita,

quel ladron tonsurato e discortese

giva cercando della sua smarrita

gioja gli avanzi con pupille accese;

della gioja che allor gli fu rapita

che fra l'ugne tenea la dolce Agnese.

Suona, grida; al rumor corre il portiero,

e vede solo il nostro cavaliero.

XIII. Le due mobili travi, a cui pendente

da due catene è il tremolante piano

del ponte levatojo, immantinente

alzano, e il ponte se ne va lontano.

A quella vista bestemmiò furente,

chi mai? s'intende: il porco cappellano.

Segue con gli occhi il ponticel veloce,

alza le mani e resta senza voce.

XIV. Tale un gatto alla caccia d'un augello,

che alcun nell'uccelliera rinchius'abbia,

passa le zampe a traverso il cancello,

che rende vana del crudel la rabbia;

gira il gatto e rigira, e il poverello,

che si rannicchia in fondo della gabbia,

segue coll'occhio, e invan col pie' lavora.

Ma restò il prete più confuso ancora.

XV. Ecco vede arrivar fra le vicine

fronzute piante appunto in quel momento

un leggiadro garzon biondo il bel crine,

nero le ciglia, franco il portamento,

le grazie sulle guance porporine,

vivido il guardo e corto il pelo al mento,

almo di gioventù florido raggio.

– O questi è Amore, o certo il mio bel paggio. –

XVI. Era infatti Monroso, che cercato

dell'amor suo nascente avea l'obbietto

tutto quel giorno. Essendo capitato

quindi al convento, il vago giovinetto

a quelle sante suore era sembrato

più bello ancor nel garbo e nell'aspetto

dell'angel Gabriel, che dolce in viso

per benedirle vien dal paradiso.

XVII. Come vider beltàlusinghiera,

di rossor tutte in volto s'infiammarono,

fra sé dicendo: – Ah perché qui non era,

quando, mio buon Gesù, ci violarono? –

Poi gli fecero in cerchio un tiritera

che non finiva: alfin, come ascoltarono

ch'ei cerca Agnese, subito gli diero

il cavallo miglior del monastero.

XVIII. Ed oltre questo una sicura guida

onde a castel Cuttandro arrivar sano.

Giunt'egli al capo della via che guida

sopra il ponte, ritrova il cappellano.

Pien di giubilo e d'ira, – Oh sei tu, grida,

sei tu di Belzebù prete villano?

Per la salute mia, per la mia vaga,

i tuoi misfatti adesso avran la paga. –

XIX. Senza fargli risposta, il maledetto

prende con mano dal furor condotta

una pistola e toccane il grilletto:

cade il cane, fa foco e va la botta:

vola il piombo scagliato, e senza effetto

sibilando fuggì per l'aria rotta,

ché tremante la man di rabbia e d'ira

mal segnata da lungi avea la mira.

XX. Mirò più giusto il paggio, e più sicura

drizzò la palla nella fronte ardita,

in quella fronte spaventosa e dura,

su cui l'anima infame era scolpita.

Trabocca il prete sulla sabbia impura.

Il paggio, che lo vede uscir di vita,

sentì destarsi allor dolce nel core

la pietà che sublima il vincitore.

XXI. – Ah muori, disse, almen da battezzato,

se vivesti da cane, e a Dio, morendo,

chiedi perdono d'ogni tuo peccato,

digli contrito in manus tuas commendo. –

– No, rispose il pretaccio, io son dannato:

vado al diavolo: addio. – Così dicendo,

chiuse i lumi, e piombò l'anima ria

dell'inferno a ingrossar la compagnia.

XXII. Mentre così quel mostro impenitente

nel foco eterno ad arrostir andava,

il buon re Carlo, a cui l'augusta mente

la tristezza d'amor più sempre aggrava,

giva cercando sospirosamente

la sua vagante Agnese, e passeggiava,

per calmar l'amoroso suo dolore,

lungo il fiume con esso il confessore.

XXIII. Qui m'è d'uopo, lettor, farti avvisato:

quello per un teologo s'intende,

che un giovane monarca innamorato

per etichetta in direttor si prende.

Egli è un certo animal tutto impastato

d'indulgenza, un buon uom, che le faccende

del cor dirige, e che del mal, del bene

la fallace bilancia in man si tiene;

XXIV. e la fa dalla parte ove più vuole

inclinar dolcemente, e al ciel vi mena

per amabili vie piene di fole,

lasciandovi peccar senza dar pena.

Composto gli occhi i gesti e le parole,

tutto osserva, e con arte a sé incatena

il padron la padrona il favorito,

sempre accorto e gentil, sempre compìto.

XXV. Il direttor che Carlo confessava,

del buon santo Domenico era figlio,

e padre Bonifazio si nomava;

uom dabben, da servizi e da consiglio.

Egli adunque al suo re così parlava

devoto il tuono, affettuoso il ciglio:

– Ah vi compiango! La parte animale

prende il disopra, e il caso è assai fatale.

XXVI. Amar Agnese, questo veramente

gli è peccato, mio re: ma la divina

misericordia il passa, e assai frequente

fra i gran santi fu già di Palestina.

Abram, quel padre d'ogni buon credente,

si tenne Agàr sua serva in concubina:

ella avea due begli occhi, onde gelosa

a ragion ne fu Sara e disdegnosa.

XXVII. Due sorelle sposò Giacobbe il giusto,

ed ogni patriarca ha conosciuto

degli amorosi cangiamenti il gusto.

Il santo Booz anch'esso ha ricevuto

nel vecchio letto, vecchierel robusto,

la vecchia e buona Ruth, dopo mietuto.

Senza contar la vaga Bersabea,

il buon Davidde un gran serraglio avea:

XXVIII. un serraglio di belve a suo piacere,

che il suo figlio Assalon, ch'era una fina

pelle da concia, egregio in quel mestiere,

ripassò tutte quante una mattina.

Salomone v'è noto: il suo sapere

riputato venìa cosa divina;

e il più saggio dei re, con tutto questo,

fu dei re il più galante anco nel resto.

XXIX. Se voi fate altrettanto, ed or si spazia

fra i diletti la vostra giovinezza,

delle rose d'amore ancor non sazia,

calmatevi; il suo tempo ha la saggezza.

Giovin si pecca e vecchio s'ottien grazia. –

Cazzo! (rispose Carlo con vivezza)

queste parole le son belle e buone:

ma ben lungi son io da Salomone.

XXX. Quanto l'invidio, oimé, quanto non debbe

i miei mali irritar la sua fortuna!

Pe' suoi reali passatempi egli ebbe

trecento belle; io non ne ho che una.

Ahi, non l'ho più! – Così dicendo, crebbe

del cor l'angoscia, e l'umor che s'aduna

nelle palpebre, corsegli veloce

sul regio naso e gli troncò la voce.

XXXI. Mentre piange così lungo la riva,

dentro un rozzo mantel, con un tarlato

collare al collo, un grosso ventre arriva

sovra un caval di trotto abbandonato.

Era Bonel, lui stesso: ognun che viva

nelle pene d'amor, sa quanto è grato,

dopo l'amato oggetto, il rivedere

il confidente d'ogni suo pensiere.

XXXII. Il re, prendendo e riprendendo lena,

con accenti di gaudio tremebondi

grida a Bonel: – Qual Dio mi ti rimena?

che fa Agnese? ove son gli occhi giocondi?

quali spiagge il suo sguardo rasserena?

ove trovarla? Di', parla, rispondi. –

Alle inchieste che Carlo infilza a josa,

tutto conta Bonel cosa per cosa.

XXXIII. Conta come l'avean messo in guarnello;

come servito avea nella cucina;

come a Sandò scappato era bel bello

per prodigio con fuga clandestina,

mentre coll'armi si facea macello;

come per tutto la beltà divina

si gìa cercando; alfin contò benissimo

ciò che sapea, ma non sapea nientissimo.

XXXIV. Egli ignorava il fatto disonesto

del brutal cappellano, il rispettoso

amor del paggio amato; anche l'incesto

del santo monaster gli era nascoso.

Dopo aver di quel dubbio e poi di questo

preso e ripreso il filo doloroso,

maladetta la sorte e gl'inimici,

si trovàr più che prima ambo infelici.

XXXV. Era la notte, e il solco rilucente

di Boote era giunto al suo finire,

quando il buon Bonifazio umilemente

al re pensoso così prese a dire:

– L'ora è tarda: vi prego aver presente

che, prence o frate, ogni mortale, o Sire,

s'ha giudizio, cercar debbe a quest'ora

per cenare e dormir qualche dimora. –

XXXVI. Non fe' risposta il re, tutto allo strazio

abbandonato dell'interna cura;

ma curvò il collo, e a mo' di Bonifazio

a galoppar si die' per la pianura.

Bonello, Carlo e il prete in poco spazio

si trovàr del castel sotto le mura;

del castel di Cuttandro, ove il bel paggio

sbatte i pensieri della luna al raggio.

XXXVII. Egli avea del dannato suo rivale

l'abbominevol corpo maledetto

strascinato e sepolto entro il canale;

né già del suo cammin perdea l'obbietto.

Ma sospiroso il suo dolor mortale

va divorando nell'occulto petto,

fiso il guardo sul ponte discortese,

che lo divide dalla cara Agnese.

XXXVIII. Ma come della luna al raggio amico

vide quei tre, la speme al cor rinacque.

Con un garbo e una grazia che non dico,

presentossi, ma il nome e il suo amor tacque.

Il suo dire, il suo volto almo e pudico

ispirò tenerezza e al prence piacque,

e Bonifazio carezzò il bel viso

con la man con lo sguardo e col sorriso.

XXXIX. Fatto il numero pari, ecco uscir fuori

le scorrenti due travi, ecco abbassato

il mobil ponte. I quattro corridori

fan gemere del ponte il tavolato.

Il panciuto Bonel tutto in sudori

va dritto alla cucina, appena entrato.

Pensa alla cena, e il frate ivi presente

grazie ne rende a Dio devotamente.

XL. Prende Carlo altro none, e, pria che posto

siasi Cuttandro in letto, a lui s'invia.

Complimentollo il buon barone, e tosto

al suo quarto il menò con cortesia.

Qui star solo alcun poco ha il re disposto,

per gioir della sua malinconia

e per piangere Agnese. Ah non sapea

come vicini que' begli occhi avea!

LXI. Ben lo seppe Monroso. Egli al suo scopo

chiacchierar fece accortamente un paggio,

dir dove Agnese si riposa, e all'uopo

tutto osserva con occhio attento e saggio.

Quale un gatto talor che apposta il topo

con avide pupille al suo passaggio,

va piano piano, e la terra non sente

l'impressione dell'orme mute e lente;

XLII. poi, come il vede, addosso gli si caccia;

così Monroso avanzasi tentone

verso la bella, e innanzi invia le braccia,

tutto in punta di piedi, alto il tallone.

Agnese, Agnese, egli entra; alza la faccia.

Men veloce la paglia al paragone

vola all'ambra, e men pronto il ferro invita

con dolce simpatia la calamita.

XLIII. Il bel Monroso in arrivar si getta

alla sponda del letto a due ginocchi,

ove fra bianchi lini in sé ristretta

Agnese al sonno avea chiusi i begli occhi.

Né la forza né il tempo in quella fretta

ebbe alcun di far motto: appena tocchi,

prese foco la miccia, e un bacio ardente

unì l'avide bocche immantinente.

XLIV. Corse l'alma del labbro alle vivaci

rose e i begli occhi un dolce foco accese.

Le lingue loro si parlàr nei baci,

e solo il cor quell'eloquenza intese.

Muto linguaggio dei desiri audaci,

dolce preludio di più dolci imprese,

tregua un momento a musicabella;

date tempo al maestro di cappella.

XLV. Con sollecita mano Agnese intende

a dispogliar Monroso, a gettar via

l'incomodo vestir che le faccende

imbarazza d'amore e le disvia;

travestimento che natura offende,

che nell'età dell'oro era pazzia,

e cui principalmente abborre e sdegna

un dio ch'è nudo e d'andar nudo insegna.

XLVI. Oh Agnese! oh vista che rapisce il core!

è questa Flora e il volator marito?

è questa Psiche che carezza Amore?

o piuttosto la dea del pafio lito,

che in braccio del garzon languisce e muore,

dagli arabici tronchi partorito,

mentre Marte fra' Sciti il carro aggira

e in un di rabbia e gelosia sospira?

XLVII. Il Marte intanto della Francia Carlo

nel fondo del castel sospira anch'esso

con Bonello, e, d'amor punto dal tarlo,

mangia poco e mal bee, cotanto è oppresso.

Un vecchio camerier, per allegrarlo,

senza farsi pregar, senza permesso,

ciarlone di mestier, con gran franchezza

narra a sua regia taciturna altezza

XLVIII. qualmente due beltà, l'una virile,

d'aspetto militar, nero capello,

l'altra azzurra i be' rai, fresca, gentile,

dormivano ambedue dentro il castello.

Scosso il re, sulla coppia femminile

fa tosto i suoi sospetti, e dal donzello

si fa ben dire e ben ridire ancora

i tratti di colei che l'innamora;

XLIX. la rosea bocca, il crin, gli occhi, il pudico

portamento e il parlar che l'incatena.

– È dessa, è dessa, è l'idol mio, ti dico;

certo ne sono: al diavolo la cena.

Addio, Bonel; le corro in braccio, amico. –

Ciò detto, vola, ed in uscendo mena

un fracasso grandissimo. Ne nasca

che che si vuole, un re tutti ci ha in tasca.

L.Agnese, ei grida, Agnese; – e il caro nome

d'Agnese ripeté tanto, che schietto

l'udì l'amante coppia, e se le chiome

non si rizzàr, tremò per altro il letto.

Come uscir d'imbarazzo? Udite, il come

l'ha tosto immaginato il pio paggetto.

Avea la stanza un grande armadio, e in quello

un picciolo oratorio e un altarello,

LI. ove a dir messa, se si vuol, talvolta

per venti soldi un cappuccin s'affretta.

Sopra il davanti in ben acconcia vòlta

s'apre una nicchia che il suo santo aspetta.

Questa sempre ai devoti occhi n'è tolta

da una sdrucita verde cortinetta.

Che fa Monroso? Come l'estro il piglia,

si caccia nella nicchia e s'accoviglia.

LII. Prende il posto del santo, e nudo nato

tiensi tremante in cor dietro le tele.

Vola re Carlo, e salta, appena entrato,

d'Agnese al collo e al gaudio apre le vele;

poi piagnendo usar crede il fortunato

dritto, cui gode ogni amator fedele,

principalmente un re. Freme a tai note

il santo ascoso e con rumor si scuote.

LIII. S'accosta il prence e tasta, e un corpo fresco

sente e s'arresta gridando: – Maria,

Satanasso, Gesù, santo Francesco! –

mezzo spavento e mezzo gelosia;

poi tira e tutta dell'altar sul desco

fa cader la cortina che coprìa

quella celeste amabile figura,

che a suo piacer formò l'alma natura.

LIV. Il bianco dorso, che il pudor volgea,

ai risguardanti, presentar si vede

ciò che senza pudor sottomettea

Cesare ne' begli anni a Nicomede;

ciò che nel vago Efestion piacea

tanto al famoso di Filippo erede;

ciò che Adriano in ciel mise dappoi.

Quanto deboli, o Dio, sono gli eroi!

LV. Se il mio lettore il fil non ha smarrito

di questa istoria, rammentar dovrìa

che Giovanna nel campo ostil col dito

da Dionigi diretto, a bizzarria,

tre bei fiori di giglio, in sul tornito

cul di Monroso disegnati avìa:

a quel culo, a quei gigli, a quel blasone

Carlo orando si prostra ginocchione.

LVI. Crede che il nero Belzebù gli ordisce

qualche malizia, qualche tradimento.

Cade Agnese in delirio e tramortisce

di rossor, di rimorso e di spavento.

Le tasta Carlo il polso e si smarrisce,

ché la trova già fuor di sentimento.

Grida: – Ajuto, soccorso alla donzella!

il demonio è nel corpo alla mia bella. –

LVII. A quei gridi turbato e brancolando,

di Carlo il confessor lascia la cena;

Bonel v'accorre ansando, traballando;

salta in piedi Giovanna, e surta appena,

con la terribil destra impugna il brando,

e va dove rumor tanto si mena:

Cuttandro in questa saporitamente

se la dormiva e non sentiva niente.

 

 

NOTE AL CANTO DODICESIMO

 

Ottava VI, v. 8:

Caditoje (orig. mâchicoulis) son certe aperture lasciate fra i merli, dalle quali si può tirare sopra i nemici, mentre sono nei fossi.

Ottava XIX, v. 2-3:

Le pistole non furono inventate che molto tempo dopo a Pistoja.

Ottava LI, v. 1-2:

In quel tempo non v'erano i frati cappuccini. Ma l'anacronismo non toglie nulla alla poesia.


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