François-Marie Arouet de Voltaire
La pulcella d'Orléans

CANTO TREDICESIMO

«»

Link alle concordanze:  Normali In evidenza

I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio

CANTO TREDICESIMO

 

 

ARGOMENTO.

 

Trimuglio e Dorotea, Carlo ed Agnese,

Giovanna e il gran Bastardo in compagnia

stanno rincontro d'uno stuolo inglese

che a lor traversa a gran noja la via.

Giovanna con Sandò viene alle prese,

coglie il Prete una strana fantasia:

Sandò sfiorar l'Amazzone procaccia,

ma la salva il nodetto alla legaccia.

 

 

I. Era l'alma stagion che il dio di Delo

delle mèssi i bei sul carro adduce,

quando, allungando delle notti il velo,

torna i giorni a menar dell'aurea luce,

e lentamente trascorrendo il cielo,

ritroso all'equator si riconduce,

vago di contemplar quanto più puote

il mio bel clima dall'eteree ruote.

II. Corre allor la tua festa, o Precursore

santo Giovanni, de' Giovanni il primo,

che gridavi al deserto ascoltatore:

Lasciate, o genti, de' peccati il limo;

preparate le strade del Signore. –

Ti son servo, o gran Santo, e assai ti stimo,

e te stimo del par, Gianni secondo,

che viaggiasti della luna al mondo.

III. Deh, s'egli è vero, Apostolo divino,

ch'ivi Astolfo assumesti allor che rese

il cervello ad Orlando paladino,

rendi a me pure il mio, spirto cortese.

Tu proteggesti il grande e pellegrino

cantor che un la corte ferrarese

rallegrò con le tante (ah fosser mie!)

leggiadrissime sue coglionerie.

IV. Se al libero parlar désti perdono

ch'ei ti drizzò ne' lieti versi sui,

anche a me di tua grazia oggi fa' dono,

ché certo n'ho bisogno io più di lui.

Sai che i cervelli de' mortali or sono

manco discreti e più balordi e bui

che nol fùro a' bei giorni in che la stella

d'Ariosto facea l'Italia bella.

V. Tu dal biasmo mi salva e dalla rogna

dei censor gravi del mio stil leggero.

Se uno scherzo talor che par menzogna,

di riso adorna il mio lavor severo,

so poi serio tornar quando bisogna;

ma seccar non vorrei, per dirti il vero.

Tu mi assisti e presenta umili e schietti

al tuo compar Dionigi i miei rispetti.

VI. Al rumor che narrai, già la Pulcella

in sembianti accorrea tremendi e fieri,

quando, affacciata ad una finestrella,

vide arrivar cavalli e cavalieri:

leggiadra schiera, e seco una donzella

d'amabili sembianze, e assai scudieri,

che tenean nelle mani in vaga mostra

della guerra il corredo e della giostra.

VII. Cento scudi tenean su cui leggera

ripercoteva il tremolante lume

la queta delle notti alma corriera,

e cento elmetti d'òr carchi di piume,

e cento lance di ferrata e fiera

punta guarnite, e nastri di costume,

che di vario color trastullo ai vènti

dalle acute pendean cime lucenti.

VIII. Ciò vedendo, per fermo ebbe Giovanna

che questa è truppa di breton che audace

ha sorpreso il castello: ma s'inganna

goffamente Giovanna, con sua pace.

Nella guerra il veder nostro s'appanna,

come in ogni altro obbietto, e mi dispiace

che, in ciò peccando l'eroina spesse

volte, Dionigi mai non la corrèsse.

IX. Non fu dunque nimica compagnia

che preso allor Castel Cuttandro avea,

ma Dunoè che di Milan venìa,

quel grande Dunoè di cui sapea

la Pulcella sì ben la leggiadrìa.

È Trimuglio con esso e Dorotea,

tutta amor, tutta gaudio, e nol nasconde:

e certamente che ne avea ben donde.

X. Ella viaggia col suo caro amante,

col caro amante, di cui tempra il core

tenerezzapura, e cui costante

governa l'onestà, punge l'amore.

Ella ne segue con onor le piante,

né più téma ha del padre inquisitore.

Due a due, giusta l'uso, il buon drappello

penetrato la notte era in castello.

XI. Lieta Giovanna di cotal ventura,

lor vola incontro avvolta nella maglia.

Il buon re, che la vede e si figura

ch'ella scenda in quel punto alla battaglia,

piglia lo scudo anch'esso e l'armatura,

e dietro a quella con ardir si scaglia,

e nell'error che inganna il suo coraggio,

lascia di nuovo con Agnese il paggio.

XII. Felice paggio, e più felice assai

che il più grande de' regi e il più cristiano!

Quai grazie al Santo allor rese non hai

di cui sopra l'altare empiesti il vano?

Rivestirti convenne, e sopra i gai

lisci avori del tuo bel deretano

rassettar prontamente le tue vaghe

nido d'amore avventurose braghe.

XIII. Con la tenera mano timorosa

ti stava intorno ad aitarti Agnese,

e la man si smarriva ed amorosa

errò sovente e il suo lavor riprese.

Quai baci della bocca in su la rosa

non raccolse nell'ora e quai non rese?

I begli occhi parean, mentre finìa,

pur dire: – Un'altra volta, anima mia. –

XIV. Monroso al parco scese zitto e quieto,

e il padre Bonifacio dal terrazzo

sospirò santamente in suo segreto,

passar veggendo così bel ragazzo.

Ché, sebben sulla carne avesse il veto,

pur dentro si sentìa qualche imbarazzo.

Agnese dal suo canto a meraviglia

compose il volto il favellar le ciglia.

XV. Venne quindi al re Carlo il confessore,

lo consolò, l'assicurò con dire

che nella nicchia un angel del Signore

era sceso dal ciel per avvertire

che il poter degl'Inglesi è all'ultim'ore,

che tra poco dovea tutto finire,

e che tutta dell'armi avrìa la gloria

il re Carlo ottenuta e la vittoria.

XVI. Era credulo il re, quindi ingojata

l'ha subito. Giovanna l'eloquenza

del reverendo appoggia, ed ispirata,

– Di Dio, grida, accettiam l'alta assistenza.

Gran re, venite, raggiungiam l'armata,

che a ragion duolsi della nostra assenza. –

– Venite, o Prence, – replicò veloce

Dunoè con Trimuglio ad alta voce.

XVII. E qui gli eroi la bella milanese

presentaro al buon re, che trasse il guanto;

e il bacio d'amistà gli porse Agnese

con quel bocchin, che tenterebbe un santo.

Alfin l'illustre compagnia francese

del castello partissi. Il cielo intanto,

che le bizzarre passion vedea

di questo mondo sublunar, ridea.

XVIII. Ridea, pei campi camminar mirando

questo d'amanti eroi scelto squadrone.

Presso ad Agnese il re va galoppando,

ed ella, ch'esser fida ognor dispone,

gli presenta la man di quando in quando,

stringe quella del re con passione;

e intanto (oh colmo di fralezza umana!)

va Monroso adocchiando alla lontana.

XIX. Il padre confessor vien loro appresso,

salmeggiando e dicendo l'ordinario

di chi viaggia, e s'interrompe spesso

fra cause tante di pensier contrario.

E distratto volgea l'occhio sovr'esso

Carlo, Agnese, il bel paggio e il suo breviario,

mentre Trimuglio, che d'amor si bea,

caracolla d'intorno a Dorotea.

XX. Ebbra di tenerezza, ella il suo dio

lo chiama, e quasi ad ogni detto scocca:

– Mio salvator, mia vita, idolo mio, –

con gli altri nomi che amor pone in bocca.

– Con voi, l'altro dicea, con voi vogl'io

viver dopo la guerra alla mia ròcca,

sol vivere con voi per cui mi moro:

quando verrà quest'ora, o mio tesoro? –

XXI. Dappresso ne venìa quella guerriera,

quel sostegno del trono, amor del cielo,

Giovanna in giubba e gonnellin di vera

amazzone, senz'arco e senza tèlo.

Ricco d'oro e di piume orna l'altera

sua fronte un cappellin che verde ha il pelo.

Tale in mostra ne vien l'alta donzella

sul fiero suo ronzin, rozza ma bella.

XXII. Or di trotto cammina, ora di passo,

or chiacchiera con questo, ora con quello:

sopra tutto col re gode far chiasso

e s'ingalluzza come un pavoncello;

pure talvolta sospirando basso

pel grande Dunoè d'armi fratello.

L'avea visto un nudo, e questa idea

in tumulto il suo cuor sempre tenea.

XXIII. Con la barba Bonel da patriarca,

sbuffando di sudor, chiude il cammino.

Oh d'un grande grandissimo monarca

servidor senza prezzo e pellegrino!

Ei pensa a tutto, ei due gran muli incarca

con due barili di nettareo vino,

di presciutti, salsicce e poltarelle,

di cappon cotti e crudi e mortadelle.

XXIV. Eran già lunge, allor che per la via

Sandò, cercando Agnese ed il suo paggio,

i nostri prodi ad incontrar venìa

in fondo a un bosco in non so qual passaggio.

Stuol di fieri bretoni lo seguìa

pari in numero a quello ed in coraggio

dell'amoroso re; ma veramente

d'una specie alcun poco differente.

XXV. Belle tette, begli occhi eran con Dio

tra i franchi, e nulla tra i breton di questo.

– Oh, oh, diss'egli minaccioso e rio

Messieurs galanti, che di cuor detesto,

voi dunque avete tre donzelle, ed io,

io Sandò neppur una? Animo, lesto,

quattro colpi, e vediam chi meglio adopra

lo stocco e l'asta e sa restar di sopra.

XXVI. Qualunque fra di voi più baldo ha il core,

facciasi avanti ed entri nella lizza,

e delle tre si tenga il vincitore

la donzella che più gli ghiribizza. –

Punto il re da quel dir, che poco odore

avea di verecondia, arse di stizza:

vuol punirlo, s'avanza e l'asta prende,

ma lo ferma il Bastardo e gliel contende.

XXVII. – Deh non mi fate della grazia niego

ch'io vendichi voi, disse, e queste dame! –

Corse Trimuglio e fa il medesmo priego;

ognun di quell'impresa ha le sue brame.

Bonel, sempre paciero, un suo ripiego

propon, che dell'onor di quel cartame

arbitra sia la sorte, onde gli esempi

de' guerrieri seguir de' prischi tempi.

XXVIII. E ciò vediam noi farsi anche in alcuna

repubblica moderna, ove talora

si lasciano del dado alla fortuna

(e ciò va meglio) i primi posti ancora.

E se in librobel lice qualcuna

gente citar d'ogni sospetto fuora,

vi dirò che in tal modo ebbe Mattia

il loco che lasciò l'anima ria.

XXIX. Tien Bonello tremando il bossolotto;

teme per Carlo, squassa i dadi e tira.

Dionigi, che a un balcon s'era condotto

del ciel, con paterni occhi il tutto mira;

e l'Eroina e l'animal che ha sotto,

contemplando di , conduce e gira

nell'urna il caso; ed ecco uscir, siccome

piacque a Dionigi, di Giovanna il nome.

XXX. Nomar te fece, o gran guerriera; e questo

onde farti obbliar l'infame e brutto

scherzo del grande francescan rubesto,

che quasi il tuo bel fiore ebbe distrutto.

Lieta allor la donzella presto presto

corre al re, corre all'armi, e casta in tutto,

modestamente va verso un buscione

a slacciarsi il corpetto ed il giubbone.

XXXI. E riveste l'arnese e il sacro brando,

che già pronto le tiene uno scudiero:

poi monta il suo ronzin, l'asta squassando,

serra il ginocchio e sprona in atto fiero,

l'undicimila vergini invocando,

del santo pulcellaggio onor primiero.

Sandò, che nulla in Cristo ha fede, o poca,

vien superbo all'assalto e nulla invoca.

XXXII. Pari entrambi di furia e di bravura,

ecco Giovanni con Giovanna in campo.

I corsieri in ferrata bardatura

partono, punti dallo spron, qual lampo.

Urtansi, e urtata sulla testa dura

l'armatura si spezza e getta un vampo,

e al sangue del cavallo e del somaro

si mesce il lampo del rotante acciaro.

XXXIII. All'orribile scontro le gementi

rupi d'intorno rimbombaro e i liti.

N'andàr sossopra i corridori ardenti

con otto zampe all'aria, e sbalorditi,

uscìr netti d'arcione i combattenti,

e sulle groppe caddero storditi.

Credé morti ciascuno i due corsieri,

e tremò per entrambi i cavalieri.

XXXIV. Ma risorgono ratti e si riattaccano,

quai due vesciche ch'a due corde pendono,

tese ad eguali estremità, e si staccano

in una curva, e a un tempo istesso scendono.

I grossi corpi s'urtano, s'ammaccano,

e ripercossi con rimbombo ascendono

per la medesma via, moltiplicato

il lor peso dal moto accelerato.

XXXV. Ma de' Francesi l'Eroina in dosso

forti non avea le carni sue,

muscolosi i nervi e duro l'osso

come il grande Sandò, che avea del bue.

Disquilibrossi adunque, e il corpo mosso

fuor del suo centro in un momento fue,

ché l'asino le fece una corvetta,

e tutta lunga e stesa al suol la getta.

XXXVI. Cade l'alta guerriera in mezzo al prato

sul suo bel dosso e sulle cosce bella,

nella forma e nel modo appropriato

che cader debbe sempre ogni donzella.

Crede Sandò aver posto in quello stato

o Carlo o Dunoè, quindi di sella

smonta per tosto contentar la vista

più da vicino sulla sua conquista.

XXXVII. Slaccia l'elmo e una testa fuor ne tira

ove un pajo di grandi occhi languisce;

slaccia i cordoni dell'usbergo e mira,

oh vista che rallegra e sbalordisce!

due gran tette in cui l'anima sospira,

mezzo rotonde, separate e lisce,

con due vermigli bottoncelli in vetta,

pari a quei della rosa verginetta.

XXXVIII. Fama è che allor quel crudo ad alta voce

la prima volta benedisse Iddio.

– La gran Pulcella è mia, grida il feroce,

e l'Inghilterra vendicar degg'io.

Questa fiera beltà, che sì le nuoce,

abbattiamo, e fia doppio il merto mio.

Poi san Dionigi facciami il dottore;

risponderan per me Marte ed Amore. –

XXXIX. – Ah spingete, Milord, bravo, spingete,

gridava il suo scudier, ch'era un uom saggio;

questo servigio al re vostro rendete,

assodatene il trono, via, coraggio.

Così frate Capocchio scornerete,

il qual dice che questo pulcellaggio

è il famoso Palladio de' Trojani,

è l'ancile dal ciel sceso ai Romani.

XL. Dice che questo all'angle squadre è morte,

e vittoria de' Franchi alle bandiere;

che questo è l'orifiamma; onde, alle corte,

pigliatelo, e staremo indi a vedere. –

– Sì, rispose, il milordo, e avronne in sorte

due gran beni, la gloria ed il piacere. –

Giovanna intanto ad un parlarpazzo

di raccapriccio trema e di quel cazzo.

XLI. Né, potendo far meglio, al ciel si volta,

e mille vóti al suo Dionigi estolle.

Ma il grande Dunoè, che l'empio ascolta,

d'orror freme e di sdegno avvampa e bolle.

E il carco d'impedir l'impura e stolta

vittoria di quel rio sopra sé tolle:

ma come farlo? Ovunque onor s'estima,

dée la legge dell'armi esser la prima.

XLII. Co' piedi all'erta e il capo al suol supino,

basso l'orecchio e scorticato il muso,

languidamente il celestial ronzino

guarda Sandò con mesto occhio confuso.

Ei nudriva nell'animo asinino

per Giovanna un amor discreto e chiuso,

sentimenti gentili e d'onor pieni,

noti ben poco a gli asini terreni.

XLIII. D'altra parte, di Carlo il confessore

grinza il pelo al parlar del crudo inglese.

Pel real penitente è il suo timore:

teme che a sostener l'onor francese,

onor che tanto ponsi in disonore,

ei non faccia altrettanto con Agnese,

e che Trimuglio, nella stessa idea,

non l'imiti egli pur con Dorotea.

XLIV. Quindi a pie' d'una quercia in orazione

a meditar si mise, in sé ristretto,

la natura, gli effetti e la cagione

del dolce fallo che lussuria è detto.

E immerso nella sua meditazione

il buon servo di Dio, nell'intelletto

una stupenda vision gli piobbe,

molto simile al sogno di Giacobbe.

XLV. Questo santo e felice menzognero

guantopeloso, che con voglie ghiotte,

da circonciso consumato e vero,

vendécare le lenticchie cotte,

questo vecchio Giacobbe, oh gran mistero!

vide verso l'Eufrate una tal notte

mille montoni in fretta saltellare

sulle lor mogli che lasciavan fare;

XLVI. vide cose più belle il nostro frate;

vide allo stesso lavorìo giocondo

correr gli eroi della futura etate.

Vide l'amiche che i padron del mondo

traggono avvinte appiè della beltate,

altre di nero crine, altre di biondo.

Stassi ognuna col vago e la ricigne

de' bei lacci che Pafo ordisce e strigne.

XLVII. Tale al tornar di Zefiro e di Flora,

quando raccende primavera i cuori,

gli augelletti al garrir della fresc'òra

movon le foglie co' lor dolci amori;

dalla sua cuna il vermicel vien fuora,

si bacian le farfalle in cima ai fiori,

e i lion vanno sotto l'ombre spesse

mansueti a coprir le lionesse.

XLVIII. Francesco primo primamente ei vede,

il prode e fido cavalier, che obblìa

con le catene che d'Etamp gli diede,

quelle che ritrovò, vinto, a Pavia;

poi Carlo quinto di due belle al piede,

che ad un tempo l'alloro al mirto unìa.

Quai regi, oh giusto ciel! Mestierbello

porta a questo la gotta, e peggio a quello.

XLIX. Presso alla dolce Poitiers si mira

scherzar la voluttà col viso amico,

quando teneramente ella sospira

svenuta in braccio del secondo Enrico:

di Carlo nono il successor delira

d'un altro gusto, per un paggio, io dico,

cui ridendo prepone alla sua bella,

senza badar del regno alla procella.

L. Ecco il sesto Alessandro, ecco il buon servo

dei servi del Signor, ch'alto scompiglia

tutta la terra: vedesi il protervo

in cento aspetti offrire maraviglia.

Senza tiara e caldo dentro il nervo,

nella Vanozza ei pianta una famiglia.

Poi miri il santo padre un po' più basso

con Lucrezia sua figlia andar nel chiasso.

LI. O decimo Leon, prence de' ghiotti!

o Paol terzo! in così dolci imprese

voi siete d'ogni re più esperti e dotti:

ma voi cedete al grande Bearnese,

al gran vendicator degli Ugonotti,

cento volte più chiaro e più palese

per Gabriella sua, che per vent'anni

d'illustri fatti e di guerrieri affanni.

LII. Ecco il grande Luigi, invitto e molle

del secol di portenti arrecatore.

Vedi la corte sua superba e folle,

ove Amor di tutt'arti è precettore.

Amor le mura di Versaglia estolle;

malgrado del furor di Marte, Amore

a gli occhi dell'attonito Parigi

alza un trono di fiori al gran Luigi.

LIII. Al più bel de' monarchi Amor per mano

guida la calda turba desiosa

de le belle rivali. Offre al sovrano

la Mancini d'amor la prima rosa;

poi la dolce Vallier, la Montespano,

tenera quella e questa ambiziosa:

l'una ha tutte al piacer le fibre intente,

vende l'altra il piacer, ma non lo sente.

LIV. Ecco i giorni beati, ecco l'impero

delle Grazie, cioè della Reggenza.

La Follìa con sonaglio e pie' leggero

scorre la Francia, e seco è la Licenza.

Niuno si degna d'esser santo, ovvero

tutto fassi, fuorché la penitenza.

Il buon Reggente il regno del bordello

dona a Parigi dal suo regio ostello.

LV. E tu rispondi a quel segnal diletto

dal sen di Lussemburgo, o peregrina

stella di corte, tu cui, piena il petto

della dolce di Bacco aura divina,

Amor conduce dalle mense al letto....

Ma zitto, o Musa, e non osar meschina

di quest'ultima età pinger la scena,

bella, gli è ver, ma di perigli piena.

LVI. Perché l'arca fatal del Testamento

è questo tempo: chi toccarla ardìa,

dal ciel punito per altrui spavento,

tosto morto cadea d'apoplessia.

Tacerò; ma se fossi oso, o portento

di grazia, di candor, di cortesia,

o bella de le belle, al par vezzosa

d'Agnese, ma più fida e generosa;

LVII. se al tuo ginocchio carnosetto osassi

quell'incenso offerir devotamente

che a Venere si dée; se rivelassi

tutta quanta d'amor l'arte possente;

se di quel caro nodo alfin cantassi;

se dicessi... ma no, non dirò niente.

Troppo basso è il mio dir, tu troppo bella,

graziosa, gentil, dolce Tornella.

LVIII. Qui finalmente il reverendo estatico

vide tutto ciò ch'io veder non oso.

Con avido ma casto occhio ipostatico

contemplò lo spettacolo amoroso

de le belle dei re, di quel simpatico

favor vietato; e allora sospiroso,

– Oimé, disse, se i grandi della terra

a due a due fan questa eterna guerra,

LIX, se questo è fato universal, degg'io

dolermi che Sandò slarghi le penne

sulla brunetta sua? Dunque di Dio

la volontà sia fatta. Amen, amenne. –

Disse, e, credendo di goder l'uom pio

di ciò che vede, dal piacer si svenne.

Ma che a ruina quel breton mettesse

Giovanna e Francia, il ciel non lo concesse.

LX. La malìa del nodetto alla legaccia

tu conosci, o lettor. Questo è un dannato

rimedio, di che un santo non s'impaccia,

se non che quando il caso è disperato.

Questo al povero amante il foco agghiaccia,

sì che stupido, floscio, assiderato,

si maciulla il meschin senza godere,

consumato sull'orlo del piacere.

LXI. Tale in campo scoperto un fior talora,

quando il sol più cocente alto cammina,

ristringe le sue foglie e si scolora,

e su l'arido stelo il capo inchina.

Mentre dall'aure e dalle piogge implora

e la vita e il color, la contadina,

che morto il vede e con la testa bassa,

reclina il guardo disprezzante e passa.

LXII. Per tal modo Dionigi ebbe deluso

del fiero inglese la brutal conquista.

Giovanna al vinto vincitor confuso

scappa, e, mentr'ei li perde, i sensi acquista.

Quindi, gridò tremenda oltre uman uso:

– Ve' che invitto non sei qual sembri in vista;

vedi che in sì gran pugna, anima sciocca,

Dio t'abbandona, e il tuo caval trabocca.

LXIII. Saprò nell'altra vendicarmi un giorno;

Dionigi il vuole e me ne fa sicura.

Or te con tutti i tuoi guerrieri intorno

invito d'Orlean sotto le mura. –

Cui l'altro: – E tu colà, bel viso adorno,

pulcella o no, m'avrai per tua sciagura.

Il forte Giorgio sarà meco, ed io

riparar ti prometto il torto mio. –

 

 

NOTE AL CANTO TREDICESIMO

 

Ottava XXVIII, v. 1-4:

Gli esempi del gettare le sorti son frequentissimi in Omero. Parimente li Ebrei solevano indovinare gettando le sorti. È detto che il decidere chi dovesse entrare nel posto di Giuda fu rimesso alla sorte; e dice il Voltaire che, al suo tempo, a Venezia, a Genova e in altri paesi, si faceva lo stesso di alcune cariche.

Ivi, v. 8:

Cfr. Dante, Inf., XIX, 96.

Ottava XXX, v. 7:

Buscione, macchia, cespuglio.

Ottava XLV, v. 1-4:

L'A. allude manifestamente all'artifizio a cui ricorse Giacobbe quando si finse Esaù. La parola guantopeloso sta a significare i guanti di pelle e di pelo coi quali si coprì le mani.

Ottava XLVIII, v. 3:

Anna di Pisseleu, duchessa di Étampes.

Ottava XLIX, v. 1:

Diana di Poitiers, duchessa di Valentinois.

Ivi, v. 5-6:

Enrico III e i suoi bagascioni.

Ottava LI, v. 7:

La famosa Gabriella d'Estrées, duchessa di Beaufort.

Ottava LIII, v. 3-4:

Il testo dice: de Mazarin la nièce. Fu poi moglie del contestabile Colonna.

Ottava LX, v. 1-2:

Un tempo si stringevano i calzoni con un legacciolo; e d'un uomo a cui non fosse riuscito di far quell'uffizio, dicevasi che quel legacciolo gli si era annodato. È stato sempre creduto che gl'incantatori possano impedire la consumazione del matrimonio; il che si diceva far un nodo alla legaccia. I legaccioli passaron di moda sotto Luigi XIV, cominciandosi allora a mettere i bottoni alle brache.


«»

Best viewed with any browser at 800x600 or 768x1024 on Tablet PC
IntraText® (VA1) - Some rights reserved by EuloTech SRL - 1996-2009. Content in this page is licensed under a Creative Commons License