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I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio
Trimuglio e Dorotea, Carlo ed Agnese,
Giovanna e il gran Bastardo in compagnia
stanno rincontro d'uno stuolo inglese
che a lor traversa a gran noja la via.
Giovanna con Sandò viene alle prese,
coglie il Prete una strana fantasia:
Sandò sfiorar l'Amazzone procaccia,
ma la salva il nodetto alla legaccia.
I. Era l'alma stagion che il dio di Delo
delle mèssi i bei dì sul carro adduce,
quando, allungando delle notti il velo,
torna i giorni a menar dell'aurea luce,
e lentamente trascorrendo il cielo,
ritroso all'equator si riconduce,
vago di contemplar quanto più puote
il mio bel clima dall'eteree ruote.
II. Corre allor la tua festa, o Precursore
santo Giovanni, de' Giovanni il primo,
che gridavi al deserto ascoltatore:
– Lasciate, o genti, de' peccati il limo;
preparate le strade del Signore. –
Ti son servo, o gran Santo, e assai ti stimo,
e te stimo del par, Gianni secondo,
che viaggiasti della luna al mondo.
III. Deh, s'egli è vero, Apostolo divino,
ch'ivi Astolfo assumesti allor che rese
il cervello ad Orlando paladino,
rendi a me pure il mio, spirto cortese.
Tu proteggesti il grande e pellegrino
cantor che un dì la corte ferrarese
rallegrò con le tante (ah fosser mie!)
leggiadrissime sue coglionerie.
IV. Se al libero parlar désti perdono
ch'ei ti drizzò ne' lieti versi sui,
anche a me di tua grazia oggi fa' dono,
ché certo n'ho bisogno io più di lui.
Sai che i cervelli de' mortali or sono
manco discreti e più balordi e bui
che nol fùro a' bei giorni in che la stella
d'Ariosto facea l'Italia bella.
V. Tu dal biasmo mi salva e dalla rogna
dei censor gravi del mio stil leggero.
Se uno scherzo talor che par menzogna,
di riso adorna il mio lavor severo,
so poi serio tornar quando bisogna;
ma seccar non vorrei, per dirti il vero.
Tu mi assisti e presenta umili e schietti
al tuo compar Dionigi i miei rispetti.
VI. Al rumor che narrai, già la Pulcella
in sembianti accorrea tremendi e fieri,
quando, affacciata ad una finestrella,
vide arrivar cavalli e cavalieri:
leggiadra schiera, e seco una donzella
d'amabili sembianze, e assai scudieri,
che tenean nelle mani in vaga mostra
della guerra il corredo e della giostra.
VII. Cento scudi tenean su cui leggera
ripercoteva il tremolante lume
la queta delle notti alma corriera,
e cento elmetti d'òr carchi di piume,
e cento lance di ferrata e fiera
punta guarnite, e nastri di costume,
che di vario color trastullo ai vènti
dalle acute pendean cime lucenti.
VIII. Ciò vedendo, per fermo ebbe Giovanna
che questa è truppa di breton che audace
ha sorpreso il castello: ma s'inganna
goffamente Giovanna, con sua pace.
Nella guerra il veder nostro s'appanna,
come in ogni altro obbietto, e mi dispiace
che, in ciò peccando l'eroina spesse
volte, Dionigi mai non la corrèsse.
IX. Non fu dunque nimica compagnia
che preso allor Castel Cuttandro avea,
quel grande Dunoè di cui sapea
la Pulcella sì ben la leggiadrìa.
È Trimuglio con esso e Dorotea,
tutta amor, tutta gaudio, e nol nasconde:
e certamente che ne avea ben donde.
X. Ella viaggia col suo caro amante,
col caro amante, di cui tempra il core
tenerezza sì pura, e cui costante
governa l'onestà, punge l'amore.
Ella ne segue con onor le piante,
né più téma ha del padre inquisitore.
Due a due, giusta l'uso, il buon drappello
penetrato la notte era in castello.
XI. Lieta Giovanna di cotal ventura,
lor vola incontro avvolta nella maglia.
Il buon re, che la vede e si figura
ch'ella scenda in quel punto alla battaglia,
piglia lo scudo anch'esso e l'armatura,
e dietro a quella con ardir si scaglia,
e nell'error che inganna il suo coraggio,
lascia di nuovo con Agnese il paggio.
XII. Felice paggio, e più felice assai
che il più grande de' regi e il più cristiano!
Quai grazie al Santo allor rese non hai
di cui sopra l'altare empiesti il vano?
Rivestirti convenne, e sopra i gai
lisci avori del tuo bel deretano
rassettar prontamente le tue vaghe
nido d'amore avventurose braghe.
XIII. Con la tenera mano timorosa
ti stava intorno ad aitarti Agnese,
e la man si smarriva ed amorosa
errò sovente e il suo lavor riprese.
Quai baci della bocca in su la rosa
non raccolse nell'ora e quai non rese?
I begli occhi parean, mentre finìa,
pur dire: – Un'altra volta, anima mia. –
XIV. Monroso al parco scese zitto e quieto,
e il padre Bonifacio dal terrazzo
sospirò santamente in suo segreto,
passar veggendo così bel ragazzo.
Ché, sebben sulla carne avesse il veto,
pur dentro si sentìa qualche imbarazzo.
Agnese dal suo canto a meraviglia
compose il volto il favellar le ciglia.
XV. Venne quindi al re Carlo il confessore,
lo consolò, l'assicurò con dire
che nella nicchia un angel del Signore
era sceso dal ciel per avvertire
che il poter degl'Inglesi è all'ultim'ore,
che tra poco dovea tutto finire,
e che tutta dell'armi avrìa la gloria
il re Carlo ottenuta e la vittoria.
XVI. Era credulo il re, quindi ingojata
l'ha subito. Giovanna l'eloquenza
del reverendo appoggia, ed ispirata,
– Di Dio, grida, accettiam l'alta assistenza.
Gran re, venite, raggiungiam l'armata,
che a ragion duolsi della nostra assenza. –
– Venite, o Prence, – replicò veloce
Dunoè con Trimuglio ad alta voce.
XVII. E qui gli eroi la bella milanese
presentaro al buon re, che trasse il guanto;
e il bacio d'amistà gli porse Agnese
con quel bocchin, che tenterebbe un santo.
Alfin l'illustre compagnia francese
del castello partissi. Il cielo intanto,
di questo mondo sublunar, ridea.
XVIII. Ridea, pei campi camminar mirando
questo d'amanti eroi scelto squadrone.
Presso ad Agnese il re va galoppando,
ed ella, ch'esser fida ognor dispone,
gli presenta la man di quando in quando,
stringe quella del re con passione;
e intanto (oh colmo di fralezza umana!)
va Monroso adocchiando alla lontana.
XIX. Il padre confessor vien loro appresso,
salmeggiando e dicendo l'ordinario
di chi viaggia, e s'interrompe spesso
fra cause tante di pensier contrario.
E distratto volgea l'occhio sovr'esso
Carlo, Agnese, il bel paggio e il suo breviario,
mentre Trimuglio, che d'amor si bea,
caracolla d'intorno a Dorotea.
XX. Ebbra di tenerezza, ella il suo dio
lo chiama, e quasi ad ogni detto scocca:
– Mio salvator, mia vita, idolo mio, –
con gli altri nomi che amor pone in bocca.
– Con voi, l'altro dicea, con voi vogl'io
viver dopo la guerra alla mia ròcca,
sol vivere con voi per cui mi moro:
quando verrà quest'ora, o mio tesoro? –
XXI. Dappresso ne venìa quella guerriera,
quel sostegno del trono, amor del cielo,
Giovanna in giubba e gonnellin di vera
amazzone, senz'arco e senza tèlo.
Ricco d'oro e di piume orna l'altera
sua fronte un cappellin che verde ha il pelo.
Tale in mostra ne vien l'alta donzella
sul fiero suo ronzin, rozza ma bella.
XXII. Or di trotto cammina, ora di passo,
or chiacchiera con questo, ora con quello:
sopra tutto col re gode far chiasso
e s'ingalluzza come un pavoncello;
pure talvolta sospirando basso
pel grande Dunoè d'armi fratello.
L'avea visto un dì nudo, e questa idea
in tumulto il suo cuor sempre tenea.
XXIII. Con la barba Bonel da patriarca,
sbuffando di sudor, chiude il cammino.
Oh d'un grande grandissimo monarca
servidor senza prezzo e pellegrino!
Ei pensa a tutto, ei due gran muli incarca
con due barili di nettareo vino,
di presciutti, salsicce e poltarelle,
di cappon cotti e crudi e mortadelle.
XXIV. Eran già lunge, allor che per la via
Sandò, cercando Agnese ed il suo paggio,
i nostri prodi ad incontrar venìa
in fondo a un bosco in non so qual passaggio.
Stuol di fieri bretoni lo seguìa
pari in numero a quello ed in coraggio
d'una specie alcun poco differente.
XXV. Belle tette, begli occhi eran con Dio
tra i franchi, e nulla tra i breton di questo.
– Oh, oh, diss'egli minaccioso e rio
Messieurs galanti, che di cuor detesto,
voi dunque avete tre donzelle, ed io,
io Sandò neppur una? Animo, lesto,
quattro colpi, e vediam chi meglio adopra
lo stocco e l'asta e sa restar di sopra.
XXVI. Qualunque fra di voi più baldo ha il core,
facciasi avanti ed entri nella lizza,
e delle tre si tenga il vincitore
la donzella che più gli ghiribizza. –
Punto il re da quel dir, che poco odore
avea di verecondia, arse di stizza:
vuol punirlo, s'avanza e l'asta prende,
ma lo ferma il Bastardo e gliel contende.
XXVII. – Deh non mi fate della grazia niego
ch'io vendichi voi, disse, e queste dame! –
Corse Trimuglio e fa il medesmo priego;
ognun di quell'impresa ha le sue brame.
Bonel, sempre paciero, un suo ripiego
propon, che dell'onor di quel cartame
arbitra sia la sorte, onde gli esempi
de' guerrieri seguir de' prischi tempi.
XXVIII. E ciò vediam noi farsi anche in alcuna
repubblica moderna, ove talora
si lasciano del dado alla fortuna
(e ciò va meglio) i primi posti ancora.
E se in libro sì bel lice qualcuna
gente citar d'ogni sospetto fuora,
vi dirò che in tal modo ebbe Mattia
il loco che lasciò l'anima ria.
XXIX. Tien Bonello tremando il bossolotto;
teme per Carlo, squassa i dadi e tira.
Dionigi, che a un balcon s'era condotto
del ciel, con paterni occhi il tutto mira;
e l'Eroina e l'animal che ha sotto,
contemplando di là, conduce e gira
nell'urna il caso; ed ecco uscir, siccome
piacque a Dionigi, di Giovanna il nome.
XXX. Nomar te fece, o gran guerriera; e questo
onde farti obbliar l'infame e brutto
scherzo del grande francescan rubesto,
che quasi il tuo bel fiore ebbe distrutto.
Lieta allor la donzella presto presto
corre al re, corre all'armi, e casta in tutto,
modestamente va verso un buscione
a slacciarsi il corpetto ed il giubbone.
XXXI. E riveste l'arnese e il sacro brando,
che già pronto le tiene uno scudiero:
poi monta il suo ronzin, l'asta squassando,
serra il ginocchio e sprona in atto fiero,
l'undicimila vergini invocando,
del santo pulcellaggio onor primiero.
Sandò, che nulla in Cristo ha fede, o poca,
vien superbo all'assalto e nulla invoca.
XXXII. Pari entrambi di furia e di bravura,
ecco Giovanni con Giovanna in campo.
I corsieri in ferrata bardatura
partono, punti dallo spron, qual lampo.
Urtansi, e urtata sulla testa dura
l'armatura si spezza e getta un vampo,
e al sangue del cavallo e del somaro
si mesce il lampo del rotante acciaro.
XXXIII. All'orribile scontro le gementi
rupi d'intorno rimbombaro e i liti.
N'andàr sossopra i corridori ardenti
con otto zampe all'aria, e sbalorditi,
uscìr netti d'arcione i combattenti,
e sulle groppe caddero storditi.
Credé morti ciascuno i due corsieri,
e tremò per entrambi i cavalieri.
XXXIV. Ma risorgono ratti e si riattaccano,
quai due vesciche ch'a due corde pendono,
tese ad eguali estremità, e si staccano
in una curva, e a un tempo istesso scendono.
I grossi corpi s'urtano, s'ammaccano,
e ripercossi con rimbombo ascendono
per la medesma via, moltiplicato
il lor peso dal moto accelerato.
XXXV. Ma de' Francesi l'Eroina in dosso
sì forti non avea le carni sue,
sì muscolosi i nervi e duro l'osso
come il grande Sandò, che avea del bue.
Disquilibrossi adunque, e il corpo mosso
fuor del suo centro in un momento fue,
ché l'asino le fece una corvetta,
e tutta lunga e stesa al suol la getta.
XXXVI. Cade l'alta guerriera in mezzo al prato
sul suo bel dosso e sulle cosce bella,
nella forma e nel modo appropriato
che cader debbe sempre ogni donzella.
Crede Sandò aver posto in quello stato
o Carlo o Dunoè, quindi di sella
smonta per tosto contentar la vista
più da vicino sulla sua conquista.
XXXVII. Slaccia l'elmo e una testa fuor ne tira
ove un pajo di grandi occhi languisce;
slaccia i cordoni dell'usbergo e mira,
oh vista che rallegra e sbalordisce!
due gran tette in cui l'anima sospira,
mezzo rotonde, separate e lisce,
con due vermigli bottoncelli in vetta,
pari a quei della rosa verginetta.
XXXVIII. Fama è che allor quel crudo ad alta voce
la prima volta benedisse Iddio.
– La gran Pulcella è mia, grida il feroce,
e l'Inghilterra vendicar degg'io.
Questa fiera beltà, che sì le nuoce,
abbattiamo, e fia doppio il merto mio.
Poi san Dionigi facciami il dottore;
risponderan per me Marte ed Amore. –
XXXIX. – Ah spingete, Milord, bravo, spingete,
gridava il suo scudier, ch'era un uom saggio;
questo servigio al re vostro rendete,
assodatene il trono, via, coraggio.
Così frate Capocchio scornerete,
il qual dice che questo pulcellaggio
è il famoso Palladio de' Trojani,
è l'ancile dal ciel sceso ai Romani.
XL. Dice che questo all'angle squadre è morte,
e vittoria de' Franchi alle bandiere;
che questo è l'orifiamma; onde, alle corte,
pigliatelo, e staremo indi a vedere. –
– Sì, rispose, il milordo, e avronne in sorte
due gran beni, la gloria ed il piacere. –
Giovanna intanto ad un parlar sì pazzo
di raccapriccio trema e di quel cazzo.
XLI. Né, potendo far meglio, al ciel si volta,
e mille vóti al suo Dionigi estolle.
Ma il grande Dunoè, che l'empio ascolta,
d'orror freme e di sdegno avvampa e bolle.
E il carco d'impedir l'impura e stolta
vittoria di quel rio sopra sé tolle:
ma come farlo? Ovunque onor s'estima,
dée la legge dell'armi esser la prima.
XLII. Co' piedi all'erta e il capo al suol supino,
basso l'orecchio e scorticato il muso,
languidamente il celestial ronzino
guarda Sandò con mesto occhio confuso.
per Giovanna un amor discreto e chiuso,
sentimenti gentili e d'onor pieni,
noti ben poco a gli asini terreni.
XLIII. D'altra parte, di Carlo il confessore
grinza il pelo al parlar del crudo inglese.
Pel real penitente è il suo timore:
teme che a sostener l'onor francese,
onor che tanto ponsi in disonore,
ei non faccia altrettanto con Agnese,
e che Trimuglio, nella stessa idea,
non l'imiti egli pur con Dorotea.
XLIV. Quindi a pie' d'una quercia in orazione
a meditar si mise, in sé ristretto,
la natura, gli effetti e la cagione
del dolce fallo che lussuria è detto.
E immerso nella sua meditazione
il buon servo di Dio, nell'intelletto
una stupenda vision gli piobbe,
molto simile al sogno di Giacobbe.
XLV. Questo santo e felice menzognero
guantopeloso, che con voglie ghiotte,
da circonciso consumato e vero,
vendé sì care le lenticchie cotte,
questo vecchio Giacobbe, oh gran mistero!
vide verso l'Eufrate una tal notte
mille montoni in fretta saltellare
sulle lor mogli che lasciavan fare;
XLVI. vide cose più belle il nostro frate;
vide allo stesso lavorìo giocondo
correr gli eroi della futura etate.
Vide l'amiche che i padron del mondo
traggono avvinte appiè della beltate,
altre di nero crine, altre di biondo.
Stassi ognuna col vago e la ricigne
de' bei lacci che Pafo ordisce e strigne.
XLVII. Tale al tornar di Zefiro e di Flora,
quando raccende primavera i cuori,
gli augelletti al garrir della fresc'òra
movon le foglie co' lor dolci amori;
dalla sua cuna il vermicel vien fuora,
si bacian le farfalle in cima ai fiori,
e i lion vanno sotto l'ombre spesse
mansueti a coprir le lionesse.
XLVIII. Francesco primo primamente ei vede,
il prode e fido cavalier, che obblìa
con le catene che d'Etamp gli diede,
quelle che ritrovò, vinto, a Pavia;
poi Carlo quinto di due belle al piede,
che ad un tempo l'alloro al mirto unìa.
Quai regi, oh giusto ciel! Mestier sì bello
porta a questo la gotta, e peggio a quello.
XLIX. Presso alla dolce Poitiers si mira
scherzar la voluttà col viso amico,
quando teneramente ella sospira
svenuta in braccio del secondo Enrico:
di Carlo nono il successor delira
d'un altro gusto, per un paggio, io dico,
cui ridendo prepone alla sua bella,
senza badar del regno alla procella.
L. Ecco il sesto Alessandro, ecco il buon servo
dei servi del Signor, ch'alto scompiglia
tutta la terra: vedesi il protervo
in cento aspetti offrire maraviglia.
Senza tiara e caldo dentro il nervo,
nella Vanozza ei pianta una famiglia.
Poi miri il santo padre un po' più basso
con Lucrezia sua figlia andar nel chiasso.
LI. O decimo Leon, prence de' ghiotti!
o Paol terzo! in così dolci imprese
voi siete d'ogni re più esperti e dotti:
ma voi cedete al grande Bearnese,
al gran vendicator degli Ugonotti,
cento volte più chiaro e più palese
per Gabriella sua, che per vent'anni
d'illustri fatti e di guerrieri affanni.
LII. Ecco il grande Luigi, invitto e molle
del secol di portenti arrecatore.
Vedi la corte sua superba e folle,
ove Amor di tutt'arti è precettore.
Amor le mura di Versaglia estolle;
malgrado del furor di Marte, Amore
a gli occhi dell'attonito Parigi
alza un trono di fiori al gran Luigi.
LIII. Al più bel de' monarchi Amor per mano
de le belle rivali. Offre al sovrano
la Mancini d'amor la prima rosa;
poi la dolce Vallier, la Montespano,
tenera quella e questa ambiziosa:
l'una ha tutte al piacer le fibre intente,
vende l'altra il piacer, ma non lo sente.
LIV. Ecco i giorni beati, ecco l'impero
delle Grazie, cioè della Reggenza.
La Follìa con sonaglio e pie' leggero
scorre la Francia, e seco è la Licenza.
Niuno si degna d'esser santo, ovvero
tutto fassi, fuorché la penitenza.
Il buon Reggente il regno del bordello
dona a Parigi dal suo regio ostello.
LV. E tu rispondi a quel segnal diletto
dal sen di Lussemburgo, o peregrina
stella di corte, tu cui, piena il petto
della dolce di Bacco aura divina,
Amor conduce dalle mense al letto....
Ma zitto, o Musa, e non osar meschina
di quest'ultima età pinger la scena,
bella, gli è ver, ma di perigli piena.
LVI. Perché l'arca fatal del Testamento
è questo tempo: chi toccarla ardìa,
dal ciel punito per altrui spavento,
tosto morto cadea d'apoplessia.
Tacerò; ma se fossi oso, o portento
di grazia, di candor, di cortesia,
o bella de le belle, al par vezzosa
d'Agnese, ma più fida e generosa;
LVII. se al tuo ginocchio carnosetto osassi
quell'incenso offerir devotamente
che a Venere si dée; se rivelassi
tutta quanta d'amor l'arte possente;
se di quel caro nodo alfin cantassi;
se dicessi... ma no, non dirò niente.
Troppo basso è il mio dir, tu troppo bella,
graziosa, gentil, dolce Tornella.
LVIII. Qui finalmente il reverendo estatico
vide tutto ciò ch'io veder non oso.
Con avido ma casto occhio ipostatico
contemplò lo spettacolo amoroso
de le belle dei re, di quel simpatico
favor vietato; e allora sospiroso,
– Oimé, disse, se i grandi della terra
a due a due fan questa eterna guerra,
LIX, se questo è fato universal, degg'io
dolermi che Sandò slarghi le penne
sulla brunetta sua? Dunque di Dio
la volontà sia fatta. Amen, amenne. –
Disse, e, credendo di goder l'uom pio
di ciò che vede, dal piacer si svenne.
Ma che a ruina quel breton mettesse
Giovanna e Francia, il ciel non lo concesse.
LX. La malìa del nodetto alla legaccia
tu conosci, o lettor. Questo è un dannato
rimedio, di che un santo non s'impaccia,
se non che quando il caso è disperato.
Questo al povero amante il foco agghiaccia,
sì che stupido, floscio, assiderato,
si maciulla il meschin senza godere,
consumato sull'orlo del piacere.
LXI. Tale in campo scoperto un fior talora,
quando il sol più cocente alto cammina,
ristringe le sue foglie e si scolora,
e su l'arido stelo il capo inchina.
Mentre dall'aure e dalle piogge implora
e la vita e il color, la contadina,
che morto il vede e con la testa bassa,
reclina il guardo disprezzante e passa.
LXII. Per tal modo Dionigi ebbe deluso
del fiero inglese la brutal conquista.
Giovanna al vinto vincitor confuso
scappa, e, mentr'ei li perde, i sensi acquista.
Quindi, gridò tremenda oltre uman uso:
– Ve' che invitto non sei qual sembri in vista;
vedi che in sì gran pugna, anima sciocca,
Dio t'abbandona, e il tuo caval trabocca.
LXIII. Saprò nell'altra vendicarmi un giorno;
Dionigi il vuole e me ne fa sicura.
Or te con tutti i tuoi guerrieri intorno
invito d'Orlean sotto le mura. –
Cui l'altro: – E tu colà, bel viso adorno,
pulcella o no, m'avrai per tua sciagura.
Il forte Giorgio sarà meco, ed io
riparar ti prometto il torto mio. –
NOTE AL CANTO TREDICESIMO
Gli esempi del gettare le sorti son frequentissimi in Omero. Parimente li Ebrei solevano indovinare gettando le sorti. È detto che il decidere chi dovesse entrare nel posto di Giuda fu rimesso alla sorte; e dice il Voltaire che, al suo tempo, a Venezia, a Genova e in altri paesi, si faceva lo stesso di alcune cariche.
Ivi, v. 8:
L'A. allude manifestamente all'artifizio a cui ricorse Giacobbe quando si finse Esaù. La parola guantopeloso sta a significare i guanti di pelle e di pelo coi quali si coprì le mani.
Anna di Pisseleu, duchessa di Étampes.
Diana di Poitiers, duchessa di Valentinois.
Ivi, v. 5-6:
Enrico III e i suoi bagascioni.
La famosa Gabriella d'Estrées, duchessa di Beaufort.
Il testo dice: de Mazarin la nièce. Fu poi moglie del contestabile Colonna.
Un tempo si stringevano i calzoni con un legacciolo; e d'un uomo a cui non fosse riuscito di far quell'uffizio, dicevasi che quel legacciolo gli si era annodato. È stato sempre creduto che gl'incantatori possano impedire la consumazione del matrimonio; il che si diceva far un nodo alla legaccia. I legaccioli passaron di moda sotto Luigi XIV, cominciandosi allora a mettere i bottoni alle brache.