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I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio
ogni rivale ostilità si cessa.
Dorotea tutta sola in un sacello
entra, e v'ascolta la seconda messa.
Sandò dietro le tiene, e nel più bello
ch'ella stassi raccolta e genuflessa,
le palpa il culo; ma col suo morire
sconta al Bastardo il temerario ardire.
I. Divina voluttà, Venere bella,
degli uomini piacere e degli dèi,
che, di natura in un madre e sorella,
l'ombre eterne fugando, il ciel ricrei;
che col dolce seren della tua stella
tutte cose create informi e bèi,
le rinnovi, le nutri, ed il sentire
e il desiar ne doni ed il gioire;
II. o diva d'Epicuro, o tu che, quando
stringi Marte al tuo seno e Giove in trono,
all'uno involi col sorriso il brando,
col guardo all'altro la saetta e il tuono;
che, l'aria, il ciel, la terra e il mar temprando,
spargi i piaceri, che tuoi figli sono;
scendi, o Dea de' bei giorni, o Dea de' cuori,
dalle Grazie seguìta e dagli Amori.
III. Scendi sul tuo bel carro, a cui fan velo
di lor fresc'ali le lascive aurette,
mentre, lievi baciandosi pel cielo,
traggonlo le colombe amorosette;
vieni, e col riso che dissolve il gelo
de' crudi verni e fa fiorir l'erbette,
d'amor raccendi l'universo e poni
le sue tempeste in calma e le tenzoni.
IV. Apri il labbro rosato, e alla tua voce
le discordie, i sospetti e le querele,
la noja, più di lor dura e feroce,
e l'invidia dal losco occhio crudele,
sian d'Averno respinte entro la foce
a pascersi laggiù di pianto e fele,
le mani avvinte di catena eterna;
e tu sola quaggiù l'alme governa.
V. E sì tra lor le stringi e le consiglia,
che alfin di tutto l'uman germe errante
una sola si formi ampia famiglia
che amando viva e si propaghi amante.
Divisione dell'Averno è figlia.
Strugga il foco le leggi e vane e tante
che l'orgoglio creò, segue il timore:
una sola ne regga, e sia d'amore.
VI. Guida intanto, o gran Dea, guida in sicuro
re Carlo che difende il suo paese;
salva al suo fianco e ognor fedele e puro
il cor gli serba de la bella Agnese.
Per questi amanti, o Diva, io ti scongiuro,
per Giovanna non già, che non intese
tue sante leggi ancora. Ell'è pulcella:
tocca a Dionigi il vigilar sovr'ella.
VII. Ti raccomando ancor con efficace
umil prego Trimuglio e Dorotea.
Nel lor tenero cor serba la pace;
e ch'ella dall'amante in cui si bea
non si parta giammai: fa' che le brace
non rivegga mai più con che volea
purificarla il padre inquisitore
onde dar gusto al cielo e a monsignore.
VIII. E tu, Como, ricolma d'ogni pro
il mio caro Bonello: egli n'è degno,
perché seppe tra Carlo e tra Sandò
indur la pace e un amical convegno.
Egli ottenne (sì ben s'adoperò)
che, queto tramendue l'odio, lo sdegno,
e l'una e l'altra schiera andar potesse
col Ligeri fra mezzo ove volesse.
IX. Ai Bretoni die' poi l'uomo compìto,
secondo i gusti ed i costumi inglesi,
un roastbeef che di burro era condito,
dei plumpuddings, dei vini bordelesi;
l'altre vivande di sapor squisito
son per le... per le belle e pei marchesi;
gl'intingoli vo' dir piccanti e fini,
e le starne dai piedi porporini.
X. Dopo aver vuote assai bottiglie, adunque,
lunghesso il fiume s'avviò l'Inglese,
giurando che le sue ragioni, ovunque
ritrovasse Giovanna, avrìa riprese.
Intanto ripigliò per un qualunque
bisogno il paggio, con dolor d'Agnese;
e Giovanna, rimesso il cor gagliardo,
tornò di nuovo accanto al buon Bastardo.
XI. Dalla sua torma Carlo accompagnato,
Agnese in testa, Bonifazio in coda,
già d'un tratto di lega ha rimontato
la fiorita del fiume amena proda.
Qui la Loira in letto delicato
con rumor più tranquillo avvien che s'oda
volgere l'onda, e l'onda in sé smarrita
bacia la riva che a restar l'invita.
XII. Di tremoli battelli e di consonte
tavole vecchie fatto a discrezione,
unisce l'una e l'altra riva un ponte,
e una cappella al suo sboccar s'oppone.
Era giorno di festa: umìl la fronte
un eremita in zoccolo e cordone,
con rauca monacal voce nasuta,
storpia una messa, ed un fanciul l'ajuta.
XIII. Carlo co' suoi di buon mattin l'avea
già nel castello di Cuttandro udita;
ma due n'ascolta sempre Dorotea,
due per lo meno, se non è impedita:
e ciò dal giorno praticar solea
che, a vendicarla, la Bontà infinita
dell'invitto Bastardo il braccio elesse,
e l'innocenza e l'amor suo protesse.
XIV. Si rassetta, discende, entra in cappella,
segna in tre spruzzi d'acqua santa il viso,
s'inginocchia e le man giunge la bella
con gli occhi al suolo, il core al paradiso.
Il romito, voltandosi vers'ella,
fuor di sé stesso e còlto all'improvviso,
dir volle: Orate, fratres; ma gli uscìo
l'intelletto, e gridò: – Bella, per Dio! –
XV. Nella stessa cappella entra frattanto
Sandò per passatempo e non per zelo.
Con la test'alta nel passarle accanto
saluta la beltà ch'è assòrta in cielo:
passa e ripassa, e a spregio d'ogni santo,
perché sul core avea tanto di pelo,
dietro a lei s'inginocchia e, vedi il mostro!
fischia invece di dire il paternostro.
XVI. Col cuor contrito e al suo signor levato,
con un'aria che proprio ti rapìa,
operando la grazia, al suol prostrato
tenea la bella il volto e non sentìa.
Stando così col suo bel culo alzato,
il malaccorto gonnellin scoprìa
le bellissime gambe, a cui die' Amore
il contorno e la neve il suo candore.
XVII. Credo ch'altre sì bianche e sì ben fatte
mai non vide Atteone alla fontana.
Sandò, che in ciel non ha le idee distratte,
arse allor d'una voglia assai profana.
Sotto il bel velo che coprìa quel latte,
latte incarnato, la sua man villana
insinuando viene, e all'impudico
del santo luogo non importa un fico.
XVIII. Guardimi Dio, lettor, d'inferocire
il tuo pensiero verecondo e il guardo.
Il mio pennello è casto, e il grande ardire
non osa colorir di quel gagliardo.
Ma Trimuglio, che visto ha disparire
lei che d'amore al cor gli fisse il dardo,
va verso la cappella; Amor gli è duce:
e sin dove quel Dio non ci conduce?
XIX. Nel momento che il nostro reverendo
col Dominus vobiscum si volgea,
entra e vede Sandò, che insolentendo
sopra il più bel dei culi si tenea,
mentre, smarrita e il ciel di gridi empiendo,
Ecco quattro figure in cui provarsi
i migliori pennelli e scapricciarsi.
XX. Grida irato Trimuglio ad alta voce:
– Tu dunque ardisci, cavalier scortese,
profanator vigliacco della croce,
l'infamia tua portar sin nelle chiese? –
Rassettando i calzoni e con feroce
dispregio uscendo, replicò l'inglese:
– A te che importa? E a che mi rompi l'ano?
Sei tu di questa chiesa il sagrestano? –
XXI. – Molto di più, rispose l'altro allora:
l'amato amante di costei mi chiamo;
e l'onor di colei che m'innamora,
vendicar soglio, e a te provarlo or bramo. –
E a lui l'inglese: – Tu potresti ancora
rischiarvi il tuo, coglion: ci conosciamo:
son Giovanni Sandò, se non lo sai,
che squadra i culi e il suo non mostra mai. –
XXII. Il buon francese e il derisor bretone
i cavalli da giostra apprestar féro:
l'asta e lo scudo e questo e quel campione
riceve dalle man dello scudiero:
salta in sella, e la lizza a tutto sprone
passa, ripassa disdegnoso e fiero:
di Dorotea le grida, i pianti, i preghi
non fan che alcuno di quei due si pieghi.
XXIII. Le dice il suo fedel: – Dolce mia vita,
a vendicarvi io volo od a morire; –
ma la buona intenzione è qui tradita,
ché né questo né quello ha da seguire.
Già in due parti al nemico avea ferita
spezzata la corazza, e con ardire
già la palma cogliea, quando il cavallo
cade e un calcio gli trae da fracassallo.
XXIV. Lo coglie in testa, rompegli l'elmetto,
e gli fa nella fronte una gran piaga.
e visto che di sangue il suolo allaga,
lo tien per morto: con pietoso affetto
In manus tuas gli grida, e non s'appaga,
ché lo vuol confessar. Ma chi frattanto
dirà di Dorotea la doglia e il pianto?
XXV. Come in lui senza moto il guardo affisse,
disperanza le chiuse il varco al grido;
e quando alfin poté parlar, che disse?
– Dunque, ben mio, tu muori ed io t'uccido?
Mai momento non fu che dipartisse
me dal tuo fianco; un sol momento, o fido,
potei lasciarti e nol doveva: or quella
che mi manda in ruina, è una cappella.
XXVI. Ho tradito l'amore e il mio compagno
per ascoltar due messe ogni mattina:
questo di mia pietà, questo è il guadagno. –
Così parla piagnendo e si tapina.
Sandò ride nel mezzo a questo lagno;
indi, vòlto al caduto e alla meschina:
– Voi, francese mio bel, fior de' campioni,
e voi, devota mia, siete prigioni.
XXVII. Tal dell'armi è la legge, ed è mestiere
rispettarla dovunque si duella.
Ebbi Agnese un momento in mio potere,
poi mi posi di sotto la Pulcella.
Feci mal, lo confesso, il mio dovere,
e ne arrossisco: ma con voi, mia bella,
emenderò i miei torti, e il vostro amato
ne dirà dopo il suo parer sensato. –
XXVIII. All'orrende parole un terror cupo
gelò a gli amanti il sangue e all'eremita:
tale in fondo di cavo atro dirupo
sanguinosa rimansi e sbalordita
la pastorella che veduto ha il lupo
al suo cane fedel toglier la vita,
e già l'armento, che la téma agghiaccia,
d'ogni parte sbranato o fuor di traccia.
XXIX. Ma il giustissimo cielo invendicati
più non sofferse così grandi eccessi
e tanti di Sandò gravi peccati;
gli adulterii, gli stupri così spessi,
l'empietà, le bestemmie, i violati
tanti ragazzi, alfin tutti fur messi
sulla stadera dell'empirea corte
e pesati dall'angel della morte.
XXX. Il grande Dunoè dall'altra riva
già vista avea la pugna; al suol caduto
Trimuglio, e la donzella semiviva
che in braccio lo si tien mezzo svenuto,
l'eremita che l'alma fuggitiva
raccomanda, e Sandò che pettoruto
al cavallo fa far la capriola:
a quella vista sprona, corre, vola.
XXXI. Varcato appena ha il ponte e nel cospetto
giunto appena è l'eroe di quell'altero
(solean gl'Inglesi allor senza rispetto
chiamar le cose pel lor nome vero),
che un figlio di puttana tondo e netto
il timpano percote al cavaliero.
– Sì, lo son, rispos'ei feroce in atto;
e ne ringrazio il conio che m'ha fatto.
XXXII. Tal fu Romolo, Bacco, Ercol, Perseo
che dai furfanti liberàr la terra;
ed è con questa intenzione, o reo,
che in lor nome ti sfido e ti fo guerra.
Va', ricòrdati ciò che un giorno feo
un bastardo normanno all'Inghilterra.
O bastardi di Giove, or voi guidate
i miei colpi e con voi me vendicate. –
XXXIII. Questa preghiera, a dirla schiettamente,
poco a un guerrier cristiano convenìa;
ma il nostro eroe sapea perfettamente
e assai poco di Bibbia, anzi niente.
Sì dicendo, con grande gagliardìa
i denti dello spron nei generosi
fianchi del suo cavallo ha già nascosi.
XXXIV. E la grand'asta nell'usbergo aurato
drizza al nemico e gli rintrona il petto:
spezza una parte del collar ferrato
onde l'elmo si lega al corsaletto.
Gli rispose d'un colpo disperato
l'intrepido Breton; ma del perfetto
scudo la piastra lo riceve in pieno;
striscia il ferro e devìa com'un baleno.
XXXV. Furiosi passando, i due guerrieri
gittano l'armi e ad afferrar si vanno:
si serrano a vicenda i petti alteri;
cresce l'ira le forze, e cresce il danno.
S'involano di sotto i due corsieri,
e liberati dall'illustre affanno,
van quinci e quindi trascorrendo i prati
con allegro nitrito e colli alzati.
XXXVI. Qual divelti per forza di tremuoto
due gran scogli talor dalla montagna,
con orrendo fracasso ed egual moto
piombano l'un sull'altro alla campagna;
rimbomba la vallea; da lungi immoto
li guarda l'arator; l'aria si lagna;
tal cadono que' forti avvinti insieme,
risonando nell'armi, e il suol ne geme.
XXXVII. Così quando del Xanto in su la sponda
Marte a difesa de' Trojan scendea,
e Pallade a rincontro furibonda
in favor degli Achei l'asta movea,
la terra tutta traballava, e l'onda
d'Acheronte al fragor torba si fea,
cadde a Pluto lo scettro, e mesta e truce
temé l'ombra infernal l'eterea luce.
XXXVIII. Surti in piedi gli eroi, con igneo sguardo
l'un l'altro affisa e il suo rival misura:
traggono i brandi, e il martellar gagliardo
de' gran colpi fracassa ogni armatura.
Già dell'Inglese il sangue e del Bastardo
tinge l'armi in vermiglio e la verzura:
i risguardanti pallidi e frequenti
fanno un cerchio d'intorno ai combattenti.
XXXIX. Con tesi colli, immote ciglia e senza
parlar, son osi di trar fiato appena.
Lo stupor di tant'occhi e la presenza
della gloria il desìo cresce e la lena;
sicché privi tuttor d'ogni temenza
sì franco il brando e l'uno e l'altro mena,
che nella pugna memoranda e cruda
non par che pugni ancor, ma che preluda.
XL. Ettore, Achille e tutti i riveriti
figli de' numi e, più di loro orrendi,
i granatieri dai mustacchi arditi
e i lion, più di questi ancor tremendi,
son men crudi, men fieri e inviperiti.
Se nol credi, lettor, non te n'intendi.
Ma per finirla, il mio bastardo Marte,
poiché forza non val, ricorre all'arte.
XLI. Sul nemico andar lascia un rovescione
che via gli porta il brando: indi l'afferra
per lo braccio e gli fa tale un gambone,
che lo distende sulla dura terra.
Il buon Sandò, cadendo stramazzone,
tragge seco il Bastardo e a lui si serra.
Giù ruina il Francese e si devolve
sull'Inglese nel sangue e nella polve.
XLII. E spinto da virtù, che in cor gentile
quando arride il destin sorge più bella,
il ginocchio sul petto ampio e virile
dell'avversario con vigor puntella,
e – Renditi – dicea: l'altro, che vile
mai né l'atto mostrò né la favella,
– Sì, gli risponde disdegnoso; mira
qual mi ti rendo: – ed uno stil fuor tira.
XLIII. E steso indietro il braccio nerboruto,
con la più forza che potea, vibrollo
bestemmiando il Breton becco fottuto
del generoso vincitore al collo.
Vietò la maglia per divino ajuto
di quel colpo l'effetto e deviollo.
Grida allor Dunoè: – Fellone audace,
tu vuoi dunque morir? Me ne dispiace. –
XLIV. Del sanguinoso acciar, così dicendo,
la punta poco scrupolosa o umana
immerge nella strozza a quel tremendo,
e ne spiccia di sangue una fontana.
Sandò, morendo e invan si dibattendo,
dicea fra' denti: Figlio di puttana.
Il cor, più d'ogni core audace e forte,
conservò la sua tempra insino a morte.
XLV. Gli occhi, la fronte orribilmente oscura,
il gesto pieno di minaccia e scherno
l'avversario parean senza paura
cercar per anco, e disfidar l'Eterno.
L'anima formidabile ed impura
corse sdegnosa a strapazzar l'inferno.
Tal morì come visse il fiero Inglese;
e un bastardo fu quel che lo distese.
XLVI. Non già volle pigliarsi il buon guerriero
del nemico la spoglia sanguinosa,
ch'egli disdegna così vil mestiero
che troppo Grecia amò, troppo famosa.
Tutto volge a Trimuglio il suo pensiero:
lo trasporta con cura affettuosa;
e per due volte la sua propria aita
di Dorotea così salva la vita.
XLVII. Con la pietosa man quella dolente,
cammin facendo, tuttavia sostiene
il suo tenero amante, e dolcemente
lo stringe e tutte ne vorrìa le pene.
Ei rinviene a quei tócchi, e più non sente
che d'amor le ferite ed il suo bene.
Dolce la guarda, e in quello sguardo il core
esultando, ripiglia il suo vigore.
XLVIII. Allor di mezzo al duolo in quel bel viso
la gioja apparve, che parea già morta;
e tosto il lampo d'un gentil sorriso
tronca il suo pianto, e la speranza è sórta.
Tal veggiamo sovente all'improvviso
un bel raggio di sol che ne conforta
spezzar la nube, e dar vita e colori
con le sue dolci temperanze ai fiori.
XLIX. Carlo, Agnese, Giovanna con gran festa
abbraccian tutti a gara il fortunato
Dunoè, che, vincente in ogni gesta,
e l'amore e la Francia ha vendicato.
Soprattutto ammiràr l'aria modesta,
l'umil favella dell'eroe lodato.
È bella cosa, ma di pochi adesso,
l'esser grande e modesto a un tempo istesso.
L. D'una tacita invidia il tarlo sente
Giovanna intanto, e col destin l'ha molto
che l'onor di dar morte al miscredente
alla vergin sua mano avea ritolto.
Sempre quel doppio oltraggio ha nella mente
che ver' Cuttandro le fe' rosso il volto,
quando, alla pugna da Sandò sfidata,
ne fu abbattuta e quasi spulcellata.
Guglielmo il conquistatore, bastardo di un duca di Normandia e figliuolo, si dice, di una poco di buono.