François-Marie Arouet de Voltaire
La pulcella d'Orléans

CANTO QUINDICESIMO

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CANTO QUINDICESIMO

 

 

ARGOMENTO.

 

L'animoso Bastardo occupa un forte

vicino ad Orleano, e ne gavazza

l'assediata città; ma il fier Bedforte

volge in tristezza la letizia pazza.

Talbò, cadute d'Orlean le porte,

co' suoi v'irrompe; e già venìa la piazza

del nemico in poter, s'era più tardo

l'ajuto di Giovanna e del Bastardo.

 

 

I. Censor maligni, vo' parlarvi netto,

vi sprezzo tutti quanti e v'ho in scarsella,

perché meglio di voi so il mio difetto.

In questa istoria veramente bella,

scritta in lettere d'oro tutto pretto

nel tempio dove nulla si cancella,

avrei voluto anch'io non metter cose

che severe, sublimi e strepitose.

II. Avrei voluto coronar per mano

di Giovanna, d'Agnese e dell'Onore

il mio re valoroso entro Orleano.

Mi duol che mi fe' perdere molt'ore

un mulattiero, un paggio, un cappellano,

di Grisbordone il lubrico furore,

e più d'ogni altro avvenimento tale

che certo al mio lavor fece un gran male.

III. Ma Tritemo gli ha scritti, e questo è il caso;

io li trascrivo e non aggiungo niente.

Se il mio lettor n'è poco persuaso

e ne vuol giudicar severamente,

se a certi passi gli si grifa il naso,

ci potrà, se il vorrà, liberamente

di questo libro rader la metà:

ma che rispetti almen la verità.

IV. O santa Verità, vergine pura,

quando fia che qual dée t'onori il mondo?

Diva che solo d'emendarci hai cura,

perché godi abitar d'un pozzo il fondo?

Quando uscirai dalla tua reggia oscura?

Quando vedremo in istil franco e tondo

netto da fele gli scrittori a noi

l'alte imprese narrar de' nostri eroi?

V. Ben fu dell'Ariosto alta prudenza

il citar l'arcivescovo Turpino;

testimonio siffatto ogni credenza

acquista al suo gentil libro divino.

Ma ritorniamo a Carlo, che, non senza

grande affanno di cuor sul suo destino,

con la sua bella e ornata compagnia

vien calpestando d'Orlean la via.

VI. Sullo stil d'ogni re, che nella rea

sorte diventa mansueto e umano,

e bestia nella buona, egli chiedea

consiglio a Dunoè, presol per mano.

Poi, tutto immerso nella dolce idea

che l'idol suo lo segua da lontano

con Bonifazio, s' a questa

speranza e vòlta ad or ad or la testa.

VII. Ed Agnese col guardo ricercando,

si ferma e aguzza le pupille accese:

e quando Dunoè, d'armi parlando,

dice: – Orleano, – il re risponde: – Agnese. –

Ma il prudente Bastardo, il qual pensando

la salute va sol del suo paese,

sull'imbrunir scoperse un piccol forte

trascurato dal duca di Bedforte.

VIII. Questo forte era presso all'assediata

città: quindi fu preso e ben munito

da Dunoè, che dell'inglese armata

vi trovò tutto un magazzin fornito.

Il Dio dell'armi e quello a cui fidata

la presidenza fu d'ogni convito,

aveano a gara empiuto il magazzino,

l'un di cannoni e l'altro di buon vino.

IX. Tutto di guerra l'apparecchio e tutto

quel della mensa, per felice azzardo,

raccolti si trovaro in quel ridutto.

Per Bonel che conquista e pel Bastardo!

A sì gran nuova si depose il lutto

dentro Orleano, e il popolo non tardo

corse in chiesa con cuor riconoscente

a ringraziarne Iddio devotamente.

X. Si cantò pria dinanzi al magistrato

un bel Te Deum sul tuon del calabrone:

poi si diede un gran pranzo, ove invitato

fu il vescovo col clero in rocchettone,

il giudice, il prefetto, ogni soldato

di grado e di maggior reputazione:

e fecer tutti al fiasco una tal guerra,

che co' bicchieri in mano andarno in terra.

XI. Poi la sera spararno sopra il fiume

un bellissimo foco d'artifizio.

L'ombre notturne convertite in lume,

del popolo le grida e il precipizio,

il cannon, che tuonava oltre il costume,

diede al nemico manifesto indizio

che il re Carlo, a' suoi sudditi renduto,

tutto ha trovato alfin che avea perduto.

XII. Ma i cantici di gloria e d'allegrezza

poco duràr, ché il nome di Bedforte

presto li volse in grida di tristezza:

– All'erta, ai muri, alla breccia, alla morte! –

Profittava il nemico dell'ebbrezza

di nostre genti, che, nel vino assòrte,

lodavano il lor prence e fean tresconi

a rumor di bottiglie e di cannoni.

XIII. Sotto una porta i Breton posti avièno

due salsiccion non già di sanguinaccio,

né di quei che Bonel, cervello ameno,

inventò per un certo intingolaccio;

ma salsiccioni di cotal ripieno,

che scoppia, si dilata, e fa uno straccio

di tutto che riscontra, ed empie il cielo

di lampi e di fragor, l'alme di gelo.

XIV. L'omicida infernal crudo istromento

contenea nel suo ventre cavernoso

quel foco che diabolico talento

dentro minuta polvere ha nascoso.

Al lampo della miccia in un momento

s'infiamma la materia, e coll'esploso

fulmine urta fracassa, e come augelli

fa volar spranghe arpioni e chiavistelli.

XV. Per l'atterrata porta entro si getta

fulminando Talbò; furore, amore,

desìo di gloria, orgoglio, ira, vendetta,

tutto gli caccia il diavolo nel core.

Del morion gli vedi in su la vetta

brillar da lungi in tremulo splendore

la cifra di Louvet, la cui mogliera

punge sempre d'amor quell'alma altera.

XVI. Sovra i muri abbattuti e insanguinati

pretende il crudo accarezzar la dama:

onde, vòlto al valor de' suoi soldati,

Andiam, guerrieri generosi, esclama:

portiamo il ferro il foco in tutti i lati:

l'odor delle cantine a sé vi chiama.

Votiamle, togliam l'oro a que' furfanti,

e facciamoli becchi tutti quanti. –

XVII. Cesare, che accendea coll'eloquente

fulminar della voce e dei pensieri

d'onor l'alme e d'ardir, più bravamente

non parlò mai nel campo a' suoi guerrieri.

Sopra il terreno che la porta ardente

di fumo involse in densi globi e neri,

di gran pietre e di zolle era un bastione

da La Hiro costrutto e da Potone.

XVIII. Un parapetto coronato e forte

di ben disposta artiglieria, dall'alto

vi potea del terribile Bedforte

respingere la furia e il primo assalto.

Con La Hiro e Poton presti alla morte

il popolo s'affolla a quello spalto.

Tuona il cannone, e fassi larga piazza;

quando tace, si sente: – Ammazza, ammazza. –

XIX. – Scale – allor grida l'inimico e riede;

e scale al muro d'ogni parte innalza:

monta il soldato, e sul piuolo il piede,

la spada in pugno, il suo compagno incalza.

Ma il valor di que' duo punto non cede;

cresce il cor nel periglio e si rialza.

Tutto la lor prudenza avea previsto,

e l'accortezza a tutto ha già provvisto.

XX. L'olio bollente, l'infocata pece,

un bosco di puntoni e larghe falci

che, qual deesi, alla morte il fabbro fece

per portar teste e non virgulti e tralci,

e bombarde al cui fulmine non lece

oppor riparo, e tutto ciò che valci

l'arte, il saper, la traversìa, la dura

necessità, l'ardore e la paura;

XXI. tutto in uso fu messo e ben oprato

in quel giorno di strage e di macello.

Altri muore trafitto, altri lessato,

a questi vola un braccio, il capo a quello.

I miseri Bretoni in ogni lato

fanno a mucchi di sangue atro ruscello.

E caggion come le mature spiche

sotto l'avide falci in valli apriche.

XXII. Ma l'assalto rinforza, e più son spenti,

più ne torna di vivi a far periglio.

Le rie teste dell'idra rinascenti

non fér di Giove pauroso il figlio.

Così tra il ferro e il foco e quei bollenti

rivi l'inglese, più tremendo il ciglio,

dopo la sua caduta in si caccia,

e il numero che il preme, alto minaccia.

XXIII. Ma fiero apparve allor sulla muraglia

Riccamonte, de' suoi speranza e luce.

Cinquecento plebei, gente di vaglia

e tutta scelta, seco egli conduce.

Senonché per lo vin che gli travaglia

e nei rossi mostacci ancor traluce,

barcollando venian: ma ciò che fa?

Il vino il cor non toglie, anzi lo .

XXIV. Gridava Riccamonte: – Poveretti,

non avete più porta da fuggire:

ma vi son io, vi basti; – in questi detti

vola e va l'inimico ad assalire.

Già forzati del muro i parapetti,

Talbò s'è fatto un varco e può salire.

Già con rabbia tremenda e man sicura

porta intorno la morte e la paura.

XXV. Avanzar fa veloce il suo soldato

con stentoreo polmon Louvet gridando.

Louvet lo sente e tiensene onorato,

e tutti, a coro pieno replicando,

gridan Louvet, Louvet con quanto han fiato,

ciò che voglia Talbò sempre ignorando.

Sciocco mortale! Oh come bene apprendi

a ripetere ciò che non intendi!

XXVI. Carlo nel suo fortin rinchiuso e muto,

cinto d'altri nimici e fuor di tiro,

marciar non può all'attacco, e per acuto

altissimo dolor quasi è deliro.

– Oimé, dicea, non poter dare ajuto

a' miei francesi che perir miro!

Cantato han messa pel ritorno mio!

Sonate han tutte le campane! Oh Dio!

XXVII. Stavo sul punto di salvarli, e il duro

destin qui tienmi con le mani in mano. –

– No, Giovanna gridò; tra questo muro

mettete l'inimico e tra Orleano.

Mostratevi, venite, e con sicuro

colpo i vostri salvate, o mio sovrano.

Siam pochi, ma voi mille ne valete. –

– E che, il re disse, coglionar sapete?

XXVIII. Io vaglio poco, ma mertar mi piace

de' miei la stima, e in un la vostra e quella

dell'inimico. – Così parla, e audace

sprona, e seco ha il Bastardo e la Pulcella.

Precede l'orifiamma, e vien seguace

l'altra sua gente in ordinanza bella,

urlando tutti: – L'Inghilterra muoja!

Viva il Re, san Dionigi e Montegioja! –

XXIX. Coll'invitto Bastardo e l'eroina

degl'Inglesi alle spalle il re se n' venne

col rumor che dai monti onde ruina

del Danubio e del Ren l'onda perenne,

piomba l'altera degli augei reina,

con ugne adunche ed allungate penne,

sovra un avido branco di falconi

che allo strazio attendean degli aghironi.

XXX. Ma l'anglicano ardir, come l'acciaro

che castigato sull'incude attinse

miglior la tempra, parer fece amaro

ai Francesi l'assalto e li respinse.

Allor più crudo e più di sangue avaro

ciaschedun come vento oltre li spinse;

quindi i fieri Breton, quinci i famosi

di Clodion nepoti generosi.

XXXI. Come l'uno coll'altro si fu stretto,

fermi qual rupe che col fianco nudo

frange del brusco mar l'ira e il dispetto,

opposer piede a piede e scudo a scudo,

mano a mano, occhio ad occhio e petto a petto.

Bestemmiando s'afferrano, e con crudo

spettacolo cader vedi indistinto

sul vivo il morto, il vincitor sul vinto.

XXXII. Oh perché non poss'io con alte e rare

rime cantar l'imprese che sentite!

Dato è solo ad Omero il raccontare

le grandi degli eroi gesta infinite,

d'amplificarle e poi le replicare,

e poi sommarne i colpi e le ferite,

e poi d'Ettorre alle gran zuffe ognora

aggiunger zuffe ed altre zuffe ancora.

XXXIII. Ma lasciamo, per Dio, lettore, omai

di parlar d'ira e di cantar di morte,

oggetti dolorosi; alziamo i rai,

leviam lo spirto alla celeste corte.

Ivi l'alta di Dio contemplerai

sapienza profonda che la sorte

dell'universo ordisce e ne governa

le tempeste e le furie in calma eterna.

XXXIV. Spettacolobello assai più fia

degno del guardo di chi sano ha il core,

che la cruda di morte beccherìa

sol piena di bestemmie e di dolore.

Queste battaglie, per sentenza mia,

tutte sorelle e d'un egual colore,

a lungo andar vi fanno venir male,

e vi seccan la parte genitale.


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