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I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio
vicino ad Orleano, e ne gavazza
l'assediata città; ma il fier Bedforte
volge in tristezza la letizia pazza.
Talbò, cadute d'Orlean le porte,
co' suoi v'irrompe; e già venìa la piazza
del nemico in poter, s'era più tardo
l'ajuto di Giovanna e del Bastardo.
I. Censor maligni, vo' parlarvi netto,
vi sprezzo tutti quanti e v'ho in scarsella,
perché meglio di voi so il mio difetto.
In questa istoria veramente bella,
scritta in lettere d'oro tutto pretto
nel tempio dove nulla si cancella,
avrei voluto anch'io non metter cose
che severe, sublimi e strepitose.
II. Avrei voluto coronar per mano
di Giovanna, d'Agnese e dell'Onore
il mio re valoroso entro Orleano.
Mi duol che mi fe' perdere molt'ore
un mulattiero, un paggio, un cappellano,
di Grisbordone il lubrico furore,
e più d'ogni altro avvenimento tale
che certo al mio lavor fece un gran male.
III. Ma Tritemo gli ha scritti, e questo è il caso;
io li trascrivo e non aggiungo niente.
Se il mio lettor n'è poco persuaso
e ne vuol giudicar severamente,
se a certi passi gli si grifa il naso,
ci potrà, se il vorrà, liberamente
di questo libro rader la metà:
ma che rispetti almen la verità.
IV. O santa Verità, vergine pura,
quando fia che qual dée t'onori il mondo?
Diva che solo d'emendarci hai cura,
perché godi abitar d'un pozzo il fondo?
Quando uscirai dalla tua reggia oscura?
Quando vedremo in istil franco e tondo
netto da fele gli scrittori a noi
l'alte imprese narrar de' nostri eroi?
V. Ben fu dell'Ariosto alta prudenza
il citar l'arcivescovo Turpino;
testimonio siffatto ogni credenza
acquista al suo gentil libro divino.
Ma ritorniamo a Carlo, che, non senza
grande affanno di cuor sul suo destino,
con la sua bella e ornata compagnia
vien calpestando d'Orlean la via.
VI. Sullo stil d'ogni re, che nella rea
sorte diventa mansueto e umano,
e bestia nella buona, egli chiedea
consiglio a Dunoè, presol per mano.
Poi, tutto immerso nella dolce idea
che l'idol suo lo segua da lontano
con Bonifazio, s'abbandona a questa
speranza e vòlta ad or ad or la testa.
VII. Ed Agnese col guardo ricercando,
si ferma e aguzza le pupille accese:
e quando Dunoè, d'armi parlando,
dice: – Orleano, – il re risponde: – Agnese. –
Ma il prudente Bastardo, il qual pensando
la salute va sol del suo paese,
sull'imbrunir scoperse un piccol forte
trascurato dal duca di Bedforte.
VIII. Questo forte era presso all'assediata
città: quindi fu preso e ben munito
da Dunoè, che dell'inglese armata
vi trovò tutto un magazzin fornito.
Il Dio dell'armi e quello a cui fidata
la presidenza fu d'ogni convito,
aveano a gara empiuto il magazzino,
l'un di cannoni e l'altro di buon vino.
IX. Tutto di guerra l'apparecchio e tutto
quel della mensa, per felice azzardo,
raccolti si trovaro in quel ridutto.
Per Bonel che conquista e pel Bastardo!
A sì gran nuova si depose il lutto
dentro Orleano, e il popolo non tardo
corse in chiesa con cuor riconoscente
a ringraziarne Iddio devotamente.
X. Si cantò pria dinanzi al magistrato
un bel Te Deum sul tuon del calabrone:
poi si diede un gran pranzo, ove invitato
fu il vescovo col clero in rocchettone,
il giudice, il prefetto, ogni soldato
di grado e di maggior reputazione:
e fecer tutti al fiasco una tal guerra,
che co' bicchieri in mano andarno in terra.
XI. Poi la sera spararno sopra il fiume
un bellissimo foco d'artifizio.
L'ombre notturne convertite in lume,
del popolo le grida e il precipizio,
il cannon, che tuonava oltre il costume,
diede al nemico manifesto indizio
che il re Carlo, a' suoi sudditi renduto,
tutto ha trovato alfin che avea perduto.
XII. Ma i cantici di gloria e d'allegrezza
poco duràr, ché il nome di Bedforte
presto li volse in grida di tristezza:
– All'erta, ai muri, alla breccia, alla morte! –
Profittava il nemico dell'ebbrezza
di nostre genti, che, nel vino assòrte,
lodavano il lor prence e fean tresconi
a rumor di bottiglie e di cannoni.
XIII. Sotto una porta i Breton posti avièno
due salsiccion non già di sanguinaccio,
né di quei che Bonel, cervello ameno,
inventò per un certo intingolaccio;
ma salsiccioni di cotal ripieno,
che scoppia, si dilata, e fa uno straccio
di tutto che riscontra, ed empie il cielo
di lampi e di fragor, l'alme di gelo.
XIV. L'omicida infernal crudo istromento
contenea nel suo ventre cavernoso
quel foco che diabolico talento
dentro minuta polvere ha nascoso.
Al lampo della miccia in un momento
s'infiamma la materia, e coll'esploso
fulmine urta fracassa, e come augelli
fa volar spranghe arpioni e chiavistelli.
XV. Per l'atterrata porta entro si getta
fulminando Talbò; furore, amore,
desìo di gloria, orgoglio, ira, vendetta,
tutto gli caccia il diavolo nel core.
Del morion gli vedi in su la vetta
brillar da lungi in tremulo splendore
la cifra di Louvet, la cui mogliera
punge sempre d'amor quell'alma altera.
XVI. Sovra i muri abbattuti e insanguinati
pretende il crudo accarezzar la dama:
onde, vòlto al valor de' suoi soldati,
– Andiam, guerrieri generosi, esclama:
portiamo il ferro il foco in tutti i lati:
l'odor delle cantine a sé vi chiama.
Votiamle, togliam l'oro a que' furfanti,
e facciamoli becchi tutti quanti. –
XVII. Cesare, che accendea coll'eloquente
fulminar della voce e dei pensieri
d'onor l'alme e d'ardir, più bravamente
non parlò mai nel campo a' suoi guerrieri.
Sopra il terreno che la porta ardente
di fumo involse in densi globi e neri,
di gran pietre e di zolle era un bastione
da La Hiro costrutto e da Potone.
XVIII. Un parapetto coronato e forte
di ben disposta artiglieria, dall'alto
vi potea del terribile Bedforte
respingere la furia e il primo assalto.
Con La Hiro e Poton presti alla morte
il popolo s'affolla a quello spalto.
Tuona il cannone, e fassi larga piazza;
quando tace, si sente: – Ammazza, ammazza. –
XIX. – Scale – allor grida l'inimico e riede;
e scale al muro d'ogni parte innalza:
monta il soldato, e sul piuolo il piede,
la spada in pugno, il suo compagno incalza.
Ma il valor di que' duo punto non cede;
cresce il cor nel periglio e si rialza.
Tutto la lor prudenza avea previsto,
e l'accortezza a tutto ha già provvisto.
XX. L'olio bollente, l'infocata pece,
un bosco di puntoni e larghe falci
che, qual deesi, alla morte il fabbro fece
per portar teste e non virgulti e tralci,
e bombarde al cui fulmine non lece
oppor riparo, e tutto ciò che valci
l'arte, il saper, la traversìa, la dura
necessità, l'ardore e la paura;
XXI. tutto in uso fu messo e ben oprato
in quel giorno di strage e di macello.
Altri muore trafitto, altri lessato,
a questi vola un braccio, il capo a quello.
fanno a mucchi di sangue atro ruscello.
E caggion come le mature spiche
sotto l'avide falci in valli apriche.
XXII. Ma l'assalto rinforza, e più son spenti,
più ne torna di vivi a far periglio.
Le rie teste dell'idra rinascenti
non fér di Giove pauroso il figlio.
Così tra il ferro e il foco e quei bollenti
rivi l'inglese, più tremendo il ciglio,
dopo la sua caduta in sù si caccia,
e il numero che il preme, alto minaccia.
XXIII. Ma fiero apparve allor sulla muraglia
Riccamonte, de' suoi speranza e luce.
Cinquecento plebei, gente di vaglia
e tutta scelta, seco egli conduce.
Senonché per lo vin che gli travaglia
e nei rossi mostacci ancor traluce,
barcollando venian: ma ciò che fa?
Il vino il cor non toglie, anzi lo dà.
XXIV. Gridava Riccamonte: – Poveretti,
non avete più porta da fuggire:
ma vi son io, vi basti; – in questi detti
vola e va l'inimico ad assalire.
Già forzati del muro i parapetti,
Talbò s'è fatto un varco e può salire.
Già con rabbia tremenda e man sicura
porta intorno la morte e la paura.
XXV. Avanzar fa veloce il suo soldato
con stentoreo polmon Louvet gridando.
Louvet lo sente e tiensene onorato,
e tutti, a coro pieno replicando,
gridan Louvet, Louvet con quanto han fiato,
ciò che voglia Talbò sempre ignorando.
Sciocco mortale! Oh come bene apprendi
a ripetere ciò che non intendi!
XXVI. Carlo nel suo fortin rinchiuso e muto,
cinto d'altri nimici e fuor di tiro,
marciar non può all'attacco, e per acuto
altissimo dolor quasi è deliro.
– Oimé, dicea, non poter dare ajuto
a' miei francesi che perir là miro!
Cantato han messa pel ritorno mio!
Sonate han tutte le campane! Oh Dio!
XXVII. Stavo sul punto di salvarli, e il duro
destin qui tienmi con le mani in mano. –
– No, Giovanna gridò; tra questo muro
mettete l'inimico e tra Orleano.
Mostratevi, venite, e con sicuro
colpo i vostri salvate, o mio sovrano.
Siam pochi, ma voi mille ne valete. –
– E che, il re disse, coglionar sapete?
XXVIII. Io vaglio poco, ma mertar mi piace
de' miei la stima, e in un la vostra e quella
dell'inimico. – Così parla, e audace
sprona, e seco ha il Bastardo e la Pulcella.
Precede l'orifiamma, e vien seguace
l'altra sua gente in ordinanza bella,
urlando tutti: – L'Inghilterra muoja!
Viva il Re, san Dionigi e Montegioja! –
XXIX. Coll'invitto Bastardo e l'eroina
degl'Inglesi alle spalle il re se n' venne
col rumor che dai monti onde ruina
del Danubio e del Ren l'onda perenne,
piomba l'altera degli augei reina,
con ugne adunche ed allungate penne,
sovra un avido branco di falconi
che allo strazio attendean degli aghironi.
XXX. Ma l'anglicano ardir, come l'acciaro
che castigato sull'incude attinse
miglior la tempra, parer fece amaro
ai Francesi l'assalto e li respinse.
Allor più crudo e più di sangue avaro
ciaschedun come vento oltre li spinse;
quindi i fieri Breton, quinci i famosi
XXXI. Come l'uno coll'altro si fu stretto,
fermi qual rupe che col fianco nudo
frange del brusco mar l'ira e il dispetto,
opposer piede a piede e scudo a scudo,
mano a mano, occhio ad occhio e petto a petto.
Bestemmiando s'afferrano, e con crudo
spettacolo cader vedi indistinto
sul vivo il morto, il vincitor sul vinto.
XXXII. Oh perché non poss'io con alte e rare
rime cantar l'imprese che sentite!
Dato è solo ad Omero il raccontare
le grandi degli eroi gesta infinite,
d'amplificarle e poi le replicare,
e poi sommarne i colpi e le ferite,
e poi d'Ettorre alle gran zuffe ognora
aggiunger zuffe ed altre zuffe ancora.
XXXIII. Ma lasciamo, per Dio, lettore, omai
di parlar d'ira e di cantar di morte,
oggetti dolorosi; alziamo i rai,
leviam lo spirto alla celeste corte.
Ivi l'alta di Dio contemplerai
sapienza profonda che la sorte
dell'universo ordisce e ne governa
le tempeste e le furie in calma eterna.
XXXIV. Spettacolo sì bello assai più fia
degno del guardo di chi sano ha il core,
che la cruda di morte beccherìa
sol piena di bestemmie e di dolore.
Queste battaglie, per sentenza mia,
tutte sorelle e d'un egual colore,
a lungo andar vi fanno venir male,
e vi seccan la parte genitale.