François-Marie Arouet de Voltaire
La pulcella d'Orléans

CANTO SEDICESIMO

«»

Link alle concordanze:  Normali In evidenza

I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio

CANTO SEDICESIMO

 

ARGOMENTO.

 

Di Giorgio e Dionigi alle contese

mette accordo san Pietro, ed in un'oda

cantata in concistoro il santo inglese

la vendetta di Dio racconta e loda:

l'altro esalta l'amor. Sono alle prese

gli eserciti nemici, e par non goda

della lieta fortuna il regio amante,

se pria non trova la sua bella errante.

 

 

I. Aprite alla mia voce il vostro arcano,

o palagi del cielo adamantini,

e voi, che v'adombrate il deretano

con sei grand'ale, ardenti cherubini,

numi impiumati, la cui santa mano

dei popoli e dei re guida i destini,

voi che, quando le vostre ali stendete,

di tutti i cieli lo splendor vincete;

II. Deh, se prego mortal fino all'altezza

de' vostri troni di salire è degno,

soccorrete benigni alla fralezza

di mie pupille e del mio corto ingegno;

lasciatemi veder nella grandezza

della materia che trattando vegno,

ciò che in Sancta sanctorum or si fa,

e scusate la mia curiosità.

III. Questa bella preghiera non è mia,

ma del saggio Tritemo. Alzarsi a tanto

il mio sguardo profan non oserìa,

né sarà mai sì temerario il canto

d'apostrofar l'eccelsa gerarchia

che fa corte lassù de' santi al Santo.

Ma veggiamo, lettor, senza alcun velo

che fan san Giorgio e san Dionigi in cielo.

IV. Questi santi rivali ad ispiarsi

scambievolmente i fatti lor si stavano.

Tutto vedean, ma non potean mischiarsi

nelle pugne celesti e cabalavano.

Questo è tutto che fassi, e che può farsi,

quando s'è in corte. Quindi se n'andavano

l'un dopo l'altro tutti i giorni a fare

la lor corte a san Pietro e ad intrigare.

V. Questo gran portinajo e pescatore,

di cui vicario è il papa, si tenea

sotto due chiavi a diverso colore

e la vita e la morte, e gli piacea

pescar non triglie e scardove al Signore,

come fece nel mar di Galilea,

ma le sorti mortali. Or dunque un

ai due santi nel ciel parlò così:

VI. – V'è noto, amici, il manifesto torto

che ricevetti dal Maestro, quando

a Malco rappiccar mi fe' nell'orto

la tolta orecchia: ho in mente il suo comando.

Rimetter mi fe' l'arme, e corto corto

del mi privò di portar brando.

Ma immagino una via, se non vi spiace,

di terminar le vostre liti in pace.

VII. Voi, Dionigi, adunate in paradiso

i santi di che Francia è gloriosa:

voi, Giorgio, date subito l'avviso

a quei della vostr'isola famosa.

Ogni parte componga all'improvviso

un inno in versi, e non già un'ode in prosa.

Ha torto Houdart: nel ciel, che il bello agogna,

parlar la lingua degli dèi bisogna.

VIII. Faccia un'ode pindarica, dich'io,

con strofe ed antistrofe, nella quale

dal poeta s'esalti il merto mio,

i dritti miei, la primazìa papale,

di cui si sa che m'ha investito Iddio,

ed ogni altro tributo episcopale.

Indi si cerchi un mastro di cappella

che in musica la metta, e che sia bella.

IX. So che laggiù si pèrdon le giornate,

per far due rime, che alla fin del gioco

non mertano che gli urli e le sassate:

la cosa va più lesta in questo loco.

Andate, dunque, amici, esercitate

il vostro ingegno, date all'estro il foco.

Chi meglio tratterà questo soggetto,

farà il destin del suo partito. Ho detto. –

X. Così dal trono suo cinto di rai

parlò san Pietro, l'infallibil saggio,

e ciò disse in due detti, a dire assai.

Il laconismo è degli dèi linguaggio.

I celesti rivali, allegri e gai,

subito radunaro al gran paraggio

tutti i santi di Francia e d'Inghilterra

che sono stati begl'ingegni in terra.

XI. A tavola rotonda immantinente,

perché del pari ognun vi si distingua,

Dionigi fe' seder primieramente

il così detto autor del Pange lingua,

san Fortunato, un santo da niente;

poi san Prospero, un santo la cui lingua

d'epiteti è condita, benché trista

sia la sintassi ed egli giansenista.

XII. Quindi Gregorio, il gran Gregorio, a cui

la patria di Bonel lieta s'inchina.

Poi san Bernardo, che ne' tempi sui

non ebbe ugual per senno, per dottrina,

né per belle antitèsi; e dopo lui

di santi da consiglio una dozzina.

Il far opra che piaccia e altrui sia cara,

senza prender parere, è cosa rara.

XIII. San Giorgio, nel veder tanto pensiero

che affaccendato il suo rival si piglia,

lo va guardando con sorriso altero,

e far tutto l'opposto si consiglia:

scorre coll'occhio il paradiso intero,

e vede un santo della sua famiglia,

certo Agostin, predicator bretone;

s'accosta, e il suo desir così gli espone:

XIV. – Buon uomo, disse Giorgio: io son soldato,

non poeta, ed i versi ho in quel servizio.

So maneggiar la spada, e al suol troncato

mandarti un busto, un braccio, un occipizio:

tu sai far versi; ebben, vate garbato,

fammi un'ode, ma fàlla con giudizio,

e sostieni l'onor del tuo paese.

Val tre francesi in gamba un solo inglese.

XV. Sa la Gujenna e il pian di Normandia

come la spada il nostro braccio adopra:

visto han spesso il Maese e Piccardia

questi messieurs di sotto, e noi di sopra.

Se per ferire abbiam più leggiadria,

in fatto d'inni, e d'odi, e tale altr'opra

ove si tratta di pensar, mi credi

che al par di loro abbiam la testa in piedi.

XVI. Dunque lesto, Agostin, vatti a schermire

in versi, e diamo a Londra i primi onori

nell'arte di ben fare e di ben dire.

Dionigi ammassa certi rimatori

che tutti insiem non valgono due lire.

Lavora solo co' tuoi vecchi autori;

, prendi la tua cetra, e fa' vedere

ch'hai tutta la sua arcadia nel messere. –

XVII. Agostino, con umile rispetto,

lo ringraziò di questa commissione,

e, presa l'aria d'un autor protetto,

pensieroso s'acquatta in un cantone.

Fe' lo stesso Dionigi, e ognun soletto

in due minuti fe' la sua canzone.

Come tutto fu fatto, se n'andaro

lieti al trono del grande portinaro.

XVIII. Allora i folgoranti serafini

con le lor teste prive di persona,

tutti gonfi le gote, e i cherubini

fecer due file intorno a Bariona.

Si nicchiaro di sopra gli angiolini

sospesi sulle alette: indi in corona

tutti i santi si posero a sedere

sui gradini per dirne il lor parere.

XIX. Die' principio Agostin. Cantava i tanti

prodigi che induràr d'Egitto i cuori;

il gran Mosè, ne' suoi divini incanti

pareggiato dai maghi imitatori;

del Nilo le propizie onde, spumanti

orribilmente di sanguigni umori;

il serpe che nel fango atro si striscia

cangiato in verga, e poi la verga in biscia;

XX. il converso in notte, e dilagati

campi e città di mosche e di pidocchi;

gli uomini fino all'osso divorati

dalla rogna, col fulmine sugli occhi;

e tutti i primogeniti scannati

dall'angelo di Dio, che sì gli ha tocchi

perché son figli di ribelli: e tutto

l'Egitto messo orribilmente a lutto.

XXI. Quindi il popol di Dio, che ride e canta

e ruba del padron l'argenteria,

e che per questa ruberìasanta

del ciel la grazia a meritar venìa;

questo popolo istesso per quaranta

anni vagante per deserta via;

ventimila Giudei tutti al macello

inviati, e per chi? per un vitello.

XXII. D'altrettanti ancor fatti una tonnina,

perché un di lor facea l'opra d'amore;

poscia quel santo Aoddo, che assassina

il suo monarca in nome del Signore;

Samuel, che un coltello da cucina

sull'altar piglia, e con divin furore

fa in minuzzoli Agag, perché lo sciocco

il prepuzio portava ancor non tocco.

XXIII. Poi di Betulia la gentil puttana,

ed il buon Basa che ammazzò Nadad;

Acab morto di morte empia e villana,

perché scannar non volle Benabad;

e Joas ammazzato alla sultana

da Josabad figliuolo d'Atrobad;

finalmente Atalìa, senza difesa,

senza creanza macellata in chiesa.

XXIV. Fu lunghetta la trista litania;

ma venianbei fatti ad intrecciarsi

di quei grand'estri così cari in pria.

Vi si vedeva il sole stemperarsi;

la luna in polve, il mare che fuggìa;

del mondo i perni tremebondi ed arsi;

Dio che si sveglia nel suo sdegno, e trombe,

sangue, ruine, terremoti e tombe.

XXV. Miri intanto di latte i ruscelletti

volger fra verdi clivi onde argentine;

le colline ballar come i capretti,

ed i capretti come le colline.

Cantò quindi il buon vate in aurei detti

lo sdegno del Signor, che le divine

stragi minaccia al vincitor caldeo,

lasciando servo il suo diletto ebreo.

XXVI. Ma benché servo, a pie' sicuro e secchi

passa i fiumi ed il mar, fracassa i denti

agl'irati lioni, e fra gli stecchi

col nudo illeso pie' schiaccia i serpenti;

parla al Nilo, ed il Nil, ch'ha buoni orecchi,

ritira i coccodrilli obbedienti;

comanda al basilisco, al leviatano,

e l'uno e l'altro leccagli la mano.

XXVII. Qui die' fine Agostino. Il suo focoso

pindarico furor levar fe' un presto

ciarlìo fra' santi, un mormorar dubbioso,

di poco incontro indizio manifesto.

Surse allora Dionigi, e rispettoso

abbassò gli occhi e poi gli alzò modesto;

salutò l'uditorio, e abbarbagliato

parve dai raggi del divin senato.

XXVIII. Con finissima grazia il suo rossore

dir pareva a qualunque era presente:

Incoraggiate il vostro ammiratore. –

Inchinò per tre volte umilemente

i consiglieri e il sommo pescatore,

ch'era dell'accademia il presidente;

poi soave cantò con grande effetto

l'inno che segue in tenero falsetto:

XXIX. – O Pietro, o Pietro, o tu su la cui pietra

Cristo fondò la chiesa militante,

portinajo del ciel, da cui s'impetra

l'ingresso nella chiesa trionfante,

dottor divino, santo padre et cœtra,

signor dei re prostrati alle tue piante,

scudo de' nostri re cristianissimi,

stendi su loro i tuoi favor santissimi.

XXX. I lor dritti son puri, e sono i tuoi;

laggiù il papa è padron delle corone.

Questo è certo; e se giusta i desir tuoi

il tuo locotenente ne dispone,

ei nol fa che in tuo nome, d'onde poi

si conclude che tu ne sei padrone.

Oimé, oimé, che il nostro parlamento

bandito ha Carlo ed io morir mi sento!

XXXI. Senza vergogna, senza carità,

han messo in trono con crudel consiglio

un rampollo stranier, l'eredità

involando del padre al proprio figlio.

Divino portinajo, abbi pietà

di dieci anni di lagrime e d'esiglio;

vinca la tua bontà tanto strapazzo;

dacci le chiavi del real palazzo. –

XXXII. Così prelude il Santo, e poi s'acqueta,

con la coda dell'occhio andando al viso

di Pietro, ed affettando aria inquieta.

Pietro gli fe' veder con un sorriso

la compiacenza del suo cor segreta;

e rincorando con favor deciso

gli spirti oppressi dell'accorto vate,

disse: – Va ben, Dionigi, seguitate. –

XXXIII. Rosso nel volto come verginetta,

gli rispose Dionigi con prudenza:

– Il mio nemico ha questa schiera eletta

saputo dilettar con eloquenza.

Egli ha cantato il Dio della vendetta,

io benedir vo' il Dio della clemenza.

L'odiar, lo veggo, non sta male a Dio;

ma l'amor gli sta meglio, a parer mio. –

XXXIV. Allor con voce più sicura e ardita

in bei versi cantò quel buon pastore

che in traccia della pecora smarrita,

la ponsi in dosso e la porrìa sul core;

l'affittuario liberal che invita

e paga il tardo suo lavoratore,

come il più pronto, acciò che diligente

ritorni al suo lavoro il seguente;

XXXV. Lui che con tre pesci e cinque pani

a cinquemila bocche e pranzo e cena;

il buon profeta che in sembianti umani

l'adultera perdona e Maddalena,

e permette che balsami profani

sulle sacre sue piante a mano piena

sparga la bella e le rasciughi e tocchi,

gentilmente prostrata a' suoi ginocchi.

XXXVI. Maddalena è d'Agnese ombra e figura;

né fu sì destro e delicato il giro,

ché l'assemblea sentillo, e all'avventura

d'Agnese perdonò con un sospiro.

Piacque in somma quest'ode oltre misura;

tutti i vóti pel premio in lei s'uniro.

San Giorgio bassò l'ali, ed Agostino

prese gatton gattone il suo cammino.

XXXVII. Ne rise il cielo, e lo seguì con tante

fischiate ed urli, che a Parigi in mezzo

n'ebbe appena di più certo pedante,

secco come Tersite e tutto lezzo,

vil delatore, ipocrita, arrogante,

che fu d'odio pagato e di disprezzo,

quando osò con plebee parole audaci

diffamar le bell'arti e' suoi seguaci.

XXXVIII. Pietro intanto fe' dono al vincitore

di due begli agnusdei, che a suol prostrato

san Dionigi baciò tutto pudore.

Quindi con un decreto sbardellato,

dato sotto l'anel del pescatore

e dai dodici apostoli firmato,

s'ordinò che in quel vinti gl'Inglesi

sian da Carlo in persona e dai Francesi.

XXXIX. In quel punto Giovanna alzando il viso,

vide dentro una nube il suo ronzino,

come un sol che traverso un interciso

nugolo mostra il suo volto divino.

– Il mio ciuccio, ella grida, è in paradiso:

per noi sia Dio; di gloria ecco il cammino. –

Così parla, e Bedfor, veduto in cielo

quel gran prodigio, diventò di gelo.

XL. E ben lesse lassù con atterrito

sguardo che già san Giorgio abbandonollo.

Tutto il campo nemico sbigottito,

come alla vista del falchetto il pollo,

veder credendo esercito infinito,

dalla città discende a rompicollo;

e rinfrancati i nostri, a più non posso,

vedendoli fuggir, gli dànno addosso.

XLI. Carlo che, più lontan, da tutti i canti

cinto è di stragi e di pugnar non resta,

sforza tutti i ripari, e passa avanti

fino al centro con furia e con tempesta.

Assediati a vicenda gli assedianti,

assaliti, scannati in coda, in testa,

cadono in folla a pie' delle lor fosse,

di feriti e d'estinti ingombre e rosse.

XLII. Fu a questo che ti trasse avversa sorte,

a questo di mortali atro macello,

a far periglio di tua forza, o forte

duro inglese, Cristoforo Arondello.

Il tuo spregio de' rischi e della morte

rende l'altero tuo valor più bello.

L'accigliato campione esaminava

come in Francia si pugna, e non parlava.

XLIII. Detto avresti al suo grave alto sembiante

ch'egli è per sollazzo e per diletto.

La fida al fianco Rosamora amante

coperto ha, come lui, di ferro il petto,

a un bel paggio o scudiero simigliante.

La corazza è d'acciar, d'oro l'elmetto,

cui di vario color la penna ombreggia

d'un pappagallo e all'aura tremoleggia.

XLIV. Così vestìa, perché, da quel momento

che decollò nel letto Martinguerra,

di nulla più la fiera ebbe talento

che dell'orrido gioco della guerra.

Pallade sembra al guardo, al portamento,

che gitta l'ago e la conocchia in terra,

volando alla battaglia, o la sorella

di Rinaldo, o piuttosto la Pulcella.

XLV. Favellava d'amore all'adorato

viaggiator, che sostenuto e duro

godea sentire di sentirsi amato,

allor che verso il cavalier securo

un demonio a gli amanti inimicato

Poton trasse e La Hiro e quell'impuro

Riccamonte, che ognor bestemmia il cielo

ed ha sul core un palmo e più di pelo.

XLVI. Poton, mirando il fier contegno e franco

dell'inglese, si spicca, e in un baleno

l'asta incontro gli abbassa che dal fianco

uscì pel dosso, sì lo colse in pieno:

cade Arondello e moribondo e bianco

fe' del freddo suo fianco atro il terreno;

e per la polve l'asta sanguinosa

con lui si volve nel suo sangue ascosa.

XLVII. Allo spettacol rio sul suo fedele

non traboccò l'innamorata inglese,

non l'aria empiè di grida e di querele,

non fece all'aureo crine onte ed offese,

non chiamò iniquo il fato, il ciel crudele,

non die' un sospiro; ma gridar s'intese:

Vendetta; – e contro l'uccisor che bada

a raccor la sua lancia, alza la spada.

XLVIII. E col braccio possente, onde spedita

dal vecchio busto separato avea

la grigia d'un ladron testa bandita,

tronca a Poton la man tremenda e rea;

recisi i nervi delle cinque dita,

si spense la virtù che li movea,

né quel moto poté mai più rivivere.

Da quel giorno Poton finì di scrivere.

XLIX. Ma il bel La Hiro disdegnoso in faccia

sopraggiunge in quel punto, e al feritore

del gran Potone fulminando caccia

tale una punta che gli passa il core.

L'elmo dorato nel cader si slaccia,

e una fonte discopre ove d'amore

le divine quadrella erano ascose

fra un commisto gentil di gigli e rose.

L. Le lunghe trecce in terra abbandonate,

i suoi grand'occhi nella morte erranti,

tutto scopre a La Hiro una beltate

di celesti ammirabili sembianti.

Nel veder quelle membra un formate

solo al piacere, or smorte e agonizzanti,

sospira, piange l'uccisore, e grida:

Stelle! io sono un crudel femminicida,

LI. anzi un ussaro più che un cavaliero.

Uccidere una dama! mi coglioni?

Sono un infante, un vile, un masnadiero. –

Ma Riccamonte, il prence de' buffoni,

Amico, disse, tu dài troppo impero

a' tuoi sciocchi rimorsi, e non ragioni.

È donna inglese; poco male; ed ella

come Giovanna alfin non è zitella. –

LII. In questi accentiprofani, il caso

porta una freccia che fischiando il fère:

allora gli saltò la mosca al naso,

e diede in mezzo alle nemiche schiere.

Rompe la folla che l'inonda, e raso

lascia il campo d'armati e di bandiere.

Lui, La Hiro, Poton e tutta quanta

la canaglia francese dell'ottanta

LIII. ferir, cadere, rincalzar, fuggire

vedi per tutto: un monte orrendo e scuro

s'alza di morti, e i morti fanno all'ire

de' combattenti impedimento e muro

nella mischia crudel, che inorridire

facea qualunque ha cor più saldo e duro.

Dicea Carlo al Bastardo alla scapata:

Dimmi, di grazia, dov'è dunque andata. –

LIV. – Chi? – risponde il Bastardo: e il re riprese:

– Non sai tu nulla che di lei ne sia? –

– Ma chi? – quell'altro replicar s'intese.

E il re di nuovo: – Oimé! sparita è via

jer sera avanti che destin cortese

ci mettesse del forte in signoria;

e noi v'entrammo, tu lo sai, senz'ella. –

– Si troverà, – rispose la Pulcella.

LV. – Cielo, disse il buon re, fa' che mi resti

fedele, e tu che sai quanto m'adora,

tu tienvi sopra la tua mano. – E in questi

bei detti avanza combattendo ognora.

Coprì la notte intanto de' suoi mesti

veli la terra, e terminò per ora

questo bel corso tutto singolare

d'alte imprese che il re volea pur fare.

LVI. Nell'uscir della gran carneficina,

intende che s'è visto in sul mattino

andar verso la selva vicina

qualche cosa di gener femminino;

un sopratodos, statura divina,

visetto bambolesco, occhio turchino,

pelle fina, bel viso e bianca mano,

ciarlando con un buon domenicano;

LVII. che più d'uno scudier vago ed ardito,

d'oro d'acciar di nastri ricoperto,

quelle dame leggiadre avea seguìto;

che la truppa diresse il passo incerto

verso un certo palazzo in certo sito;

che mai questo palazzo in quel deserto

s'è visto in prima, e che girando il tondo

non v'ha palazzo più bizzarro al mondo.

LVIII. Il re, che di tai cose ebbe a stordire,

disse a Bonel: – Chi m'ama, ha da seguirmi.

Domattina sull'alba vo' partire

e in braccio all'idol mio restituirmi,

se non crepo. – Sì disse, e andò a dormire:

ma dormì poco; e non ne vo' stupirmi.

Vegliava tuttavia, quando uscì fuora

Fosforo in cielo ad annunziar l'aurora.

LIX. Mentre del sole la vermiglia ancella

le aurate briglie al bel destrier mettea,

Bonel, Carlo, il Bastardo e la Pulcella,

per trovarne il castel che s'inchiedea,

montano tutti allegramente in sella.

Veggiam prima il mio ben, Carlo dicea;

raggiungerem ben tosto il campo inglese:

quel che più preme, è il viver con Agnese. –

 

 

NOTE AL CANTO SEDICESIMO

 

Ottava VII, v. 7:

Il Lamotte-Houdard, poeta un po' arido, ma che scrisse parecchie buone cose, disgraziatamente avea fatto nel 1730 alcune odi in prosa; il che prova ancora che questo poema fu composto verso quel tempo.

Ottava XI, v. 4-5:

Fortunato, vescovo di Poitiers, poeta, supposto autore del Pange lingua.

Ottava XI, v. 6-8:

San Prospero, autore d'un poema intorno alla grazia, vissuto nel quinto secolo.

Ottava XII, v. 1-2:

Gregorio di Tours, il primo che abbia scritto una storia di Francia, tutta piena di miracoli.

Ivi, v. 3-5:

San Bernardo, borgognone, nato nel 1091, monaco di Citeaux, poi abate di Clairvaux; ebbe parte in tutti i negozii pubblici del suo tempo, né operò meno di quanto scrivesse. Versi non si trova che ne abbia fatti molti. Quanto al primeggiare nell'antitesi, è verissimo che si dilettò di cotesta figura: disse, p. e., di Abelardo: Leonem invasimus, incidimus in draconem.

Ottava XIII, v. 7:

Santo Austino, o Agostino, frate, che si crede il fondatore della primaziale di Cantorbery, o Kenterbury.

Ottava XXI, v. 1-2:

Li Ebrei si fecero prestare, come tutti sanno, i vasi degli Egiziani, e presero il volo.

Ottava XXII:

Fineo fece tagliare a pezzi ventiquattromila suoi fratelli, perché uno di essi giaceva con una madianita. – Aod, o Eod, assassinò il re Eglon, ma con la mano sinistra. – Samuele ridusse in tanti pezzetti il re Agag, a cui Saul aveva concesso di potersi riscattare.

Ottava XXIII:

Basa, re d'Israele, assassinò Nadad, o Nabab, e successe al medesimo. – Achab aveva accettato un grosso compenso da Benhadad, re di Siria, come Saul n'accettò uno da Agag, e fu ucciso per aver perdonato. – Benhadad vinto mandò ambasciatori ad Achab per domandargli la vita. «S'egli vive, rispose loro Achab, oramai è mio fratello». Questa risposta che, umanamente parlando, è d'una semplicità commovente e sublime, tirò addosso ad Achab la collera del cielo, e sopra tutto quella dei profeti (Re, I, 20).

Ottava XXVI, v. 7:

Animali molto famosi, ma non mai esistiti.


«»

Best viewed with any browser at 800x600 or 768x1024 on Tablet PC
IntraText® (VA1) - Some rights reserved by EuloTech SRL - 1996-2009. Content in this page is licensed under a Creative Commons License