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Di Giorgio e Dionigi alle contese
mette accordo san Pietro, ed in un'oda
cantata in concistoro il santo inglese
la vendetta di Dio racconta e loda:
l'altro esalta l'amor. Sono alle prese
gli eserciti nemici, e par non goda
della lieta fortuna il regio amante,
se pria non trova la sua bella errante.
I. Aprite alla mia voce il vostro arcano,
o palagi del cielo adamantini,
e voi, che v'adombrate il deretano
con sei grand'ale, ardenti cherubini,
numi impiumati, la cui santa mano
dei popoli e dei re guida i destini,
voi che, quando le vostre ali stendete,
di tutti i cieli lo splendor vincete;
II. Deh, se prego mortal fino all'altezza
de' vostri troni di salire è degno,
soccorrete benigni alla fralezza
di mie pupille e del mio corto ingegno;
lasciatemi veder nella grandezza
della materia che trattando vegno,
ciò che in Sancta sanctorum or si fa,
III. Questa bella preghiera non è mia,
ma del saggio Tritemo. Alzarsi a tanto
il mio sguardo profan non oserìa,
né sarà mai sì temerario il canto
d'apostrofar l'eccelsa gerarchia
che fa corte lassù de' santi al Santo.
Ma veggiamo, lettor, senza alcun velo
che fan san Giorgio e san Dionigi in cielo.
IV. Questi santi rivali ad ispiarsi
scambievolmente i fatti lor si stavano.
Tutto vedean, ma non potean mischiarsi
nelle pugne celesti e cabalavano.
Questo è tutto che fassi, e che può farsi,
quando s'è in corte. Quindi se n'andavano
l'un dopo l'altro tutti i giorni a fare
la lor corte a san Pietro e ad intrigare.
V. Questo gran portinajo e pescatore,
di cui vicario è il papa, si tenea
sotto due chiavi a diverso colore
e la vita e la morte, e gli piacea
pescar non triglie e scardove al Signore,
ma le sorti mortali. Or dunque un dì
ai due santi nel ciel parlò così:
VI. – V'è noto, amici, il manifesto torto
che ricevetti dal Maestro, quando
a Malco rappiccar mi fe' nell'orto
la tolta orecchia: ho in mente il suo comando.
Rimetter mi fe' l'arme, e corto corto
del dritto mi privò di portar brando.
Ma immagino una via, se non vi spiace,
di terminar le vostre liti in pace.
VII. Voi, Dionigi, adunate in paradiso
i santi di che Francia è gloriosa:
voi, Giorgio, date subito l'avviso
a quei della vostr'isola famosa.
Ogni parte componga all'improvviso
un inno in versi, e non già un'ode in prosa.
Ha torto Houdart: nel ciel, che il bello agogna,
parlar la lingua degli dèi bisogna.
VIII. Faccia un'ode pindarica, dich'io,
con strofe ed antistrofe, nella quale
dal poeta s'esalti il merto mio,
i dritti miei, la primazìa papale,
di cui si sa che m'ha investito Iddio,
ed ogni altro tributo episcopale.
Indi si cerchi un mastro di cappella
che in musica la metta, e che sia bella.
IX. So che laggiù si pèrdon le giornate,
per far due rime, che alla fin del gioco
non mertano che gli urli e le sassate:
la cosa va più lesta in questo loco.
Andate, dunque, amici, esercitate
il vostro ingegno, date all'estro il foco.
Chi meglio tratterà questo soggetto,
farà il destin del suo partito. Ho detto. –
X. Così dal trono suo cinto di rai
parlò san Pietro, l'infallibil saggio,
e ciò disse in due detti, a dire assai.
Il laconismo è degli dèi linguaggio.
I celesti rivali, allegri e gai,
subito radunaro al gran paraggio
tutti i santi di Francia e d'Inghilterra
che sono stati begl'ingegni in terra.
XI. A tavola rotonda immantinente,
perché del pari ognun vi si distingua,
Dionigi fe' seder primieramente
il così detto autor del Pange lingua,
san Fortunato, un santo da niente;
poi san Prospero, un santo la cui lingua
d'epiteti è condita, benché trista
sia la sintassi ed egli giansenista.
XII. Quindi Gregorio, il gran Gregorio, a cui
la patria di Bonel lieta s'inchina.
Poi san Bernardo, che ne' tempi sui
non ebbe ugual per senno, per dottrina,
né per belle antitèsi; e dopo lui
di santi da consiglio una dozzina.
Il far opra che piaccia e altrui sia cara,
senza prender parere, è cosa rara.
XIII. San Giorgio, nel veder tanto pensiero
che affaccendato il suo rival si piglia,
lo va guardando con sorriso altero,
e far tutto l'opposto si consiglia:
scorre coll'occhio il paradiso intero,
e vede un santo della sua famiglia,
certo Agostin, predicator bretone;
s'accosta, e il suo desir così gli espone:
XIV. – Buon uomo, disse Giorgio: io son soldato,
non poeta, ed i versi ho in quel servizio.
So maneggiar la spada, e al suol troncato
mandarti un busto, un braccio, un occipizio:
tu sai far versi; ebben, vate garbato,
fammi un'ode, ma fàlla con giudizio,
e sostieni l'onor del tuo paese.
Val tre francesi in gamba un solo inglese.
XV. Sa la Gujenna e il pian di Normandia
come la spada il nostro braccio adopra:
visto han spesso il Maese e Piccardia
questi messieurs di sotto, e noi di sopra.
Se per ferire abbiam più leggiadria,
in fatto d'inni, e d'odi, e tale altr'opra
ove si tratta di pensar, mi credi
che al par di loro abbiam la testa in piedi.
XVI. Dunque lesto, Agostin, vatti a schermire
in versi, e diamo a Londra i primi onori
nell'arte di ben fare e di ben dire.
Dionigi ammassa certi rimatori
che tutti insiem non valgono due lire.
Lavora solo co' tuoi vecchi autori;
sù, prendi la tua cetra, e fa' vedere
ch'hai tutta la sua arcadia nel messere. –
XVII. Agostino, con umile rispetto,
lo ringraziò di questa commissione,
e, presa l'aria d'un autor protetto,
pensieroso s'acquatta in un cantone.
Fe' lo stesso Dionigi, e ognun soletto
in due minuti fe' la sua canzone.
Come tutto fu fatto, se n'andaro
lieti al trono del grande portinaro.
XVIII. Allora i folgoranti serafini
con le lor teste prive di persona,
tutti gonfi le gote, e i cherubini
fecer due file intorno a Bariona.
Si nicchiaro di sopra gli angiolini
sospesi sulle alette: indi in corona
tutti i santi si posero a sedere
sui gradini per dirne il lor parere.
XIX. Die' principio Agostin. Cantava i tanti
prodigi che induràr d'Egitto i cuori;
il gran Mosè, ne' suoi divini incanti
pareggiato dai maghi imitatori;
del Nilo le propizie onde, spumanti
orribilmente di sanguigni umori;
il serpe che nel fango atro si striscia
cangiato in verga, e poi la verga in biscia;
XX. il dì converso in notte, e dilagati
campi e città di mosche e di pidocchi;
gli uomini fino all'osso divorati
dalla rogna, col fulmine sugli occhi;
e tutti i primogeniti scannati
dall'angelo di Dio, che sì gli ha tocchi
perché son figli di ribelli: e tutto
l'Egitto messo orribilmente a lutto.
XXI. Quindi il popol di Dio, che ride e canta
e ruba del padron l'argenteria,
e che per questa ruberìa sì santa
del ciel la grazia a meritar venìa;
questo popolo istesso per quaranta
ventimila Giudei tutti al macello
inviati, e per chi? per un vitello.
XXII. D'altrettanti ancor fatti una tonnina,
perché un di lor facea l'opra d'amore;
poscia quel santo Aoddo, che assassina
il suo monarca in nome del Signore;
Samuel, che un coltello da cucina
sull'altar piglia, e con divin furore
fa in minuzzoli Agag, perché lo sciocco
il prepuzio portava ancor non tocco.
XXIII. Poi di Betulia la gentil puttana,
ed il buon Basa che ammazzò Nadad;
Acab morto di morte empia e villana,
perché scannar non volle Benabad;
da Josabad figliuolo d'Atrobad;
finalmente Atalìa, senza difesa,
senza creanza macellata in chiesa.
XXIV. Fu lunghetta la trista litania;
ma venian sì bei fatti ad intrecciarsi
di quei grand'estri così cari in pria.
Vi si vedeva il sole stemperarsi;
la luna in polve, il mare che fuggìa;
del mondo i perni tremebondi ed arsi;
Dio che si sveglia nel suo sdegno, e trombe,
sangue, ruine, terremoti e tombe.
XXV. Miri intanto di latte i ruscelletti
volger fra verdi clivi onde argentine;
le colline ballar come i capretti,
ed i capretti come le colline.
Cantò quindi il buon vate in aurei detti
lo sdegno del Signor, che le divine
stragi minaccia al vincitor caldeo,
lasciando servo il suo diletto ebreo.
XXVI. Ma benché servo, a pie' sicuro e secchi
passa i fiumi ed il mar, fracassa i denti
agl'irati lioni, e fra gli stecchi
col nudo illeso pie' schiaccia i serpenti;
parla al Nilo, ed il Nil, ch'ha buoni orecchi,
ritira i coccodrilli obbedienti;
comanda al basilisco, al leviatano,
e l'uno e l'altro leccagli la mano.
XXVII. Qui die' fine Agostino. Il suo focoso
pindarico furor levar fe' un presto
ciarlìo fra' santi, un mormorar dubbioso,
di poco incontro indizio manifesto.
Surse allora Dionigi, e rispettoso
abbassò gli occhi e poi gli alzò modesto;
salutò l'uditorio, e abbarbagliato
parve dai raggi del divin senato.
XXVIII. Con finissima grazia il suo rossore
dir pareva a qualunque era presente:
– Incoraggiate il vostro ammiratore. –
Inchinò per tre volte umilemente
i consiglieri e il sommo pescatore,
ch'era dell'accademia il presidente;
poi soave cantò con grande effetto
l'inno che segue in tenero falsetto:
XXIX. – O Pietro, o Pietro, o tu su la cui pietra
Cristo fondò la chiesa militante,
portinajo del ciel, da cui s'impetra
l'ingresso nella chiesa trionfante,
dottor divino, santo padre et cœtra,
signor dei re prostrati alle tue piante,
scudo de' nostri re cristianissimi,
stendi su loro i tuoi favor santissimi.
XXX. I lor dritti son puri, e sono i tuoi;
laggiù il papa è padron delle corone.
Questo è certo; e se giusta i desir tuoi
il tuo locotenente ne dispone,
ei nol fa che in tuo nome, d'onde poi
si conclude che tu ne sei padrone.
Oimé, oimé, che il nostro parlamento
bandito ha Carlo ed io morir mi sento!
XXXI. Senza vergogna, senza carità,
han messo in trono con crudel consiglio
un rampollo stranier, l'eredità
involando del padre al proprio figlio.
di dieci anni di lagrime e d'esiglio;
vinca la tua bontà tanto strapazzo;
dacci le chiavi del real palazzo. –
XXXII. Così prelude il Santo, e poi s'acqueta,
con la coda dell'occhio andando al viso
di Pietro, ed affettando aria inquieta.
Pietro gli fe' veder con un sorriso
la compiacenza del suo cor segreta;
e rincorando con favor deciso
gli spirti oppressi dell'accorto vate,
disse: – Va ben, Dionigi, seguitate. –
XXXIII. Rosso nel volto come verginetta,
gli rispose Dionigi con prudenza:
– Il mio nemico ha questa schiera eletta
saputo dilettar con eloquenza.
Egli ha cantato il Dio della vendetta,
io benedir vo' il Dio della clemenza.
L'odiar, lo veggo, non sta male a Dio;
ma l'amor gli sta meglio, a parer mio. –
XXXIV. Allor con voce più sicura e ardita
in bei versi cantò quel buon pastore
che in traccia della pecora smarrita,
la ponsi in dosso e la porrìa sul core;
l'affittuario liberal che invita
e paga il tardo suo lavoratore,
come il più pronto, acciò che diligente
ritorni al suo lavoro il dì seguente;
XXXV. Lui che dà con tre pesci e cinque pani
a cinquemila bocche e pranzo e cena;
il buon profeta che in sembianti umani
l'adultera perdona e Maddalena,
e permette che balsami profani
sulle sacre sue piante a mano piena
sparga la bella e le rasciughi e tocchi,
gentilmente prostrata a' suoi ginocchi.
XXXVI. Maddalena è d'Agnese ombra e figura;
né fu sì destro e delicato il giro,
ché l'assemblea sentillo, e all'avventura
d'Agnese perdonò con un sospiro.
Piacque in somma quest'ode oltre misura;
tutti i vóti pel premio in lei s'uniro.
San Giorgio bassò l'ali, ed Agostino
prese gatton gattone il suo cammino.
XXXVII. Ne rise il cielo, e lo seguì con tante
fischiate ed urli, che a Parigi in mezzo
n'ebbe appena di più certo pedante,
secco come Tersite e tutto lezzo,
vil delatore, ipocrita, arrogante,
che fu d'odio pagato e di disprezzo,
quando osò con plebee parole audaci
diffamar le bell'arti e' suoi seguaci.
XXXVIII. Pietro intanto fe' dono al vincitore
di due begli agnusdei, che a suol prostrato
san Dionigi baciò tutto pudore.
Quindi con un decreto sbardellato,
dato sotto l'anel del pescatore
e dai dodici apostoli firmato,
s'ordinò che in quel dì vinti gl'Inglesi
sian da Carlo in persona e dai Francesi.
XXXIX. In quel punto Giovanna alzando il viso,
vide dentro una nube il suo ronzino,
come un sol che traverso un interciso
nugolo mostra il suo volto divino.
– Il mio ciuccio, ella grida, è in paradiso:
per noi sia Dio; di gloria ecco il cammino. –
Così parla, e Bedfor, veduto in cielo
quel gran prodigio, diventò di gelo.
XL. E ben lesse lassù con atterrito
sguardo che già san Giorgio abbandonollo.
Tutto il campo nemico sbigottito,
come alla vista del falchetto il pollo,
veder credendo esercito infinito,
dalla città discende a rompicollo;
e rinfrancati i nostri, a più non posso,
vedendoli fuggir, gli dànno addosso.
XLI. Carlo che, più lontan, da tutti i canti
cinto è di stragi e di pugnar non resta,
sforza tutti i ripari, e passa avanti
fino al centro con furia e con tempesta.
Assediati a vicenda gli assedianti,
assaliti, scannati in coda, in testa,
cadono in folla a pie' delle lor fosse,
di feriti e d'estinti ingombre e rosse.
XLII. Fu a questo che ti trasse avversa sorte,
a questo di mortali atro macello,
a far periglio di tua forza, o forte
duro inglese, Cristoforo Arondello.
Il tuo spregio de' rischi e della morte
rende l'altero tuo valor più bello.
L'accigliato campione esaminava
come in Francia si pugna, e non parlava.
XLIII. Detto avresti al suo grave alto sembiante
ch'egli è là per sollazzo e per diletto.
La fida al fianco Rosamora amante
coperto ha, come lui, di ferro il petto,
a un bel paggio o scudiero simigliante.
La corazza è d'acciar, d'oro l'elmetto,
cui di vario color la penna ombreggia
d'un pappagallo e all'aura tremoleggia.
XLIV. Così vestìa, perché, da quel momento
che decollò nel letto Martinguerra,
di nulla più la fiera ebbe talento
che dell'orrido gioco della guerra.
Pallade sembra al guardo, al portamento,
che gitta l'ago e la conocchia in terra,
volando alla battaglia, o la sorella
di Rinaldo, o piuttosto la Pulcella.
XLV. Favellava d'amore all'adorato
viaggiator, che sostenuto e duro
godea sentire di sentirsi amato,
allor che verso il cavalier securo
un demonio a gli amanti inimicato
Poton trasse e La Hiro e quell'impuro
Riccamonte, che ognor bestemmia il cielo
ed ha sul core un palmo e più di pelo.
XLVI. Poton, mirando il fier contegno e franco
dell'inglese, si spicca, e in un baleno
l'asta incontro gli abbassa che dal fianco
uscì pel dosso, sì lo colse in pieno:
cade Arondello e moribondo e bianco
fe' del freddo suo fianco atro il terreno;
e per la polve l'asta sanguinosa
con lui si volve nel suo sangue ascosa.
XLVII. Allo spettacol rio sul suo fedele
non traboccò l'innamorata inglese,
non l'aria empiè di grida e di querele,
non fece all'aureo crine onte ed offese,
non chiamò iniquo il fato, il ciel crudele,
non die' un sospiro; ma gridar s'intese:
– Vendetta; – e contro l'uccisor che bada
a raccor la sua lancia, alza la spada.
XLVIII. E col braccio possente, onde spedita
dal vecchio busto separato avea
la grigia d'un ladron testa bandita,
tronca a Poton la man tremenda e rea;
recisi i nervi delle cinque dita,
si spense la virtù che li movea,
né quel moto poté mai più rivivere.
Da quel giorno Poton finì di scrivere.
XLIX. Ma il bel La Hiro disdegnoso in faccia
sopraggiunge in quel punto, e al feritore
del gran Potone fulminando caccia
tale una punta che gli passa il core.
L'elmo dorato nel cader si slaccia,
e una fonte discopre ove d'amore
le divine quadrella erano ascose
fra un commisto gentil di gigli e rose.
L. Le lunghe trecce in terra abbandonate,
i suoi grand'occhi nella morte erranti,
tutto scopre a La Hiro una beltate
di celesti ammirabili sembianti.
Nel veder quelle membra un dì formate
solo al piacere, or smorte e agonizzanti,
sospira, piange l'uccisore, e grida:
– Stelle! io sono un crudel femminicida,
LI. anzi un ussaro più che un cavaliero.
Uccidere una dama! mi coglioni?
Sono un infante, un vile, un masnadiero. –
Ma Riccamonte, il prence de' buffoni,
– Amico, disse, tu dài troppo impero
a' tuoi sciocchi rimorsi, e non ragioni.
È donna inglese; poco male; ed ella
come Giovanna alfin non è zitella. –
LII. In questi accenti sì profani, il caso
porta una freccia che fischiando il fère:
allora gli saltò la mosca al naso,
e diede in mezzo alle nemiche schiere.
Rompe la folla che l'inonda, e raso
lascia il campo d'armati e di bandiere.
Lui, La Hiro, Poton e tutta quanta
la canaglia francese dell'ottanta
LIII. ferir, cadere, rincalzar, fuggire
vedi per tutto: un monte orrendo e scuro
s'alza di morti, e i morti fanno all'ire
de' combattenti impedimento e muro
nella mischia crudel, che inorridire
facea qualunque ha cor più saldo e duro.
Dicea Carlo al Bastardo alla scapata:
– Dimmi, di grazia, dov'è dunque andata. –
LIV. – Chi? – risponde il Bastardo: e il re riprese:
– Non sai tu nulla che di lei ne sia? –
– Ma chi? – quell'altro replicar s'intese.
E il re di nuovo: – Oimé! sparita è via
jer sera avanti che destin cortese
ci mettesse del forte in signoria;
e noi v'entrammo, tu lo sai, senz'ella. –
– Si troverà, – rispose la Pulcella.
LV. – Cielo, disse il buon re, fa' che mi resti
fedele, e tu che sai quanto m'adora,
tu tienvi sopra la tua mano. – E in questi
bei detti avanza combattendo ognora.
Coprì la notte intanto de' suoi mesti
veli la terra, e terminò per ora
questo bel corso tutto singolare
d'alte imprese che il re volea pur fare.
LVI. Nell'uscir della gran carneficina,
intende che s'è visto in sul mattino
andar verso la selva lì vicina
qualche cosa di gener femminino;
un sopratodos, statura divina,
visetto bambolesco, occhio turchino,
pelle fina, bel viso e bianca mano,
ciarlando con un buon domenicano;
LVII. che più d'uno scudier vago ed ardito,
d'oro d'acciar di nastri ricoperto,
quelle dame leggiadre avea seguìto;
che la truppa diresse il passo incerto
verso un certo palazzo in certo sito;
che mai questo palazzo in quel deserto
s'è visto in prima, e che girando il tondo
non v'ha palazzo più bizzarro al mondo.
LVIII. Il re, che di tai cose ebbe a stordire,
disse a Bonel: – Chi m'ama, ha da seguirmi.
Domattina sull'alba vo' partire
e in braccio all'idol mio restituirmi,
se non crepo. – Sì disse, e andò a dormire:
ma dormì poco; e non ne vo' stupirmi.
Vegliava tuttavia, quando uscì fuora
Fosforo in cielo ad annunziar l'aurora.
LIX. Mentre del sole la vermiglia ancella
le aurate briglie al bel destrier mettea,
Bonel, Carlo, il Bastardo e la Pulcella,
per trovarne il castel che s'inchiedea,
montano tutti allegramente in sella.
– Veggiam prima il mio ben, Carlo dicea;
raggiungerem ben tosto il campo inglese:
quel che più preme, è il viver con Agnese. –
NOTE AL CANTO SEDICESIMO
Il Lamotte-Houdard, poeta un po' arido, ma che scrisse parecchie buone cose, disgraziatamente avea fatto nel 1730 alcune odi in prosa; il che prova ancora che questo poema fu composto verso quel tempo.
Fortunato, vescovo di Poitiers, poeta, supposto autore del Pange lingua.
San Prospero, autore d'un poema intorno alla grazia, vissuto nel quinto secolo.
Gregorio di Tours, il primo che abbia scritto una storia di Francia, tutta piena di miracoli.
Ivi, v. 3-5:
San Bernardo, borgognone, nato nel 1091, monaco di Citeaux, poi abate di Clairvaux; ebbe parte in tutti i negozii pubblici del suo tempo, né operò meno di quanto scrivesse. Versi non si trova che ne abbia fatti molti. Quanto al primeggiare nell'antitesi, è verissimo che si dilettò di cotesta figura: disse, p. e., di Abelardo: Leonem invasimus, incidimus in draconem.
Santo Austino, o Agostino, frate, che si crede il fondatore della primaziale di Cantorbery, o Kenterbury.
Li Ebrei si fecero prestare, come tutti sanno, i vasi degli Egiziani, e presero il volo.
Fineo fece tagliare a pezzi ventiquattromila suoi fratelli, perché uno di essi giaceva con una madianita. – Aod, o Eod, assassinò il re Eglon, ma con la mano sinistra. – Samuele ridusse in tanti pezzetti il re Agag, a cui Saul aveva concesso di potersi riscattare.
Basa, re d'Israele, assassinò Nadad, o Nabab, e successe al medesimo. – Achab aveva accettato un grosso compenso da Benhadad, re di Siria, come Saul n'accettò uno da Agag, e fu ucciso per aver perdonato. – Benhadad vinto mandò ambasciatori ad Achab per domandargli la vita. «S'egli vive, rispose loro Achab, oramai è mio fratello». Questa risposta che, umanamente parlando, è d'una semplicità commovente e sublime, tirò addosso ad Achab la collera del cielo, e sopra tutto quella dei profeti (Re, I, 20).
Animali molto famosi, ma non mai esistiti.