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D'Ermafrodito al magico castello
giunge il re con Agnese ed altri eroi,
ove ciascun di lor perde il cervello
né più scerne le pecore da' buoi.
Ma Bonifazio e il consiglier Bonello
sopra vi fanno gli esorcismi suoi;
sciolta è l'incantagione in un momento,
e si muta il castello in un convento.
I. Oh quanti sono incantatori al mondo,
per non dir delle tante incantatrici!
Io t'ho passato, o bel tempo giocondo
delle fralezze e degli error felici,
primavera de' pazzi; ma fecondo
è di maghi ogni tempo, o cari amici,
d'ingannatori e seduttor possenti,
d'ostro e di gloria, come dèi lucenti.
II. Pria vi portano in ciel, poscia crudeli
vi cacciano nel fango, ove bevete
veleno e morte. O voi che ognor fedeli
di questi maghi non toccate i peli,
e, se bisogno pur d'incanto avete,
da una donnetta fatevi incantare,
e i re vadano a farsi buggerare.
III. Il bel castello ov'è prigione Agnese,
Ermafrodito il fece in pochi istanti,
per vendicarsi il rio d'ogni francese,
de le belle, degli asini e dei santi,
il cui pudore, le cui sagge imprese
avean delusi i suoi tremendi incanti.
Chiunque entrava in quella rea magione,
degli amici perdea la cognizione;
IV. perdea lo spirto, la memoria, 'l senso,
così che Lete, nèttare d'inferno,
e il vino che ci lascia il senno offenso,
fan meno di chi bee strano governo.
Sotto i grand'archi d'un loggiato immenso,
guazzabuglio d'antico e di moderno,
passeggia colà dentro senza posa
una larva bizzarra e luminosa.
V. Ha il pie' leggero, ha l'ali di farfalla,
vivo il gesto, smarrito il portamento;
le strepita sul petto e sulla spalla
un gran manto di talco oro ed argento;
ride e piange, e poi ride e canta e balla,
sempre l'occhio ed il corpo in movimento,
sempre vario il pensier: se si desìa
saperne il nome, il nome è Fantasia.
VI. Non già la bella dea che in Grecia e in Roma,
dell'arti ispiratrice, alme corone
d'eterni fior depose in su la chioma
di Virgilio, d'Omero e di Nasone;
ma quella cui cacciaro inutil soma
fuor di casa il buon senso e la ragione,
quella stordita che cotanti ispira
del nostro tempo ed il cervel n'aggira.
VII. Questa insipida diva già servì
di scorta in Francia ne' lor dotti affanni
or serve nell'Italia al gobbo Gianni;
dètta i nostri romanzi, tutto dì
all'opera presiede, e già molt'anni
sedette in trono di vesciche piene
nel pulpito, nel fòro e su le scene.
VIII. Le siede al fianco e ben propinquo al cuore,
l'Anfanamento, che giammai non tace,
detto un giorno il serafico dottore,
l'angelico, il profondo, il perspicace;
fantastico sottil commentatore
e strano creator della loquace
confusion, che un vescovo poeta
fe' partorir Maria Verme-da-seta.
IX. L'equivoco d'intorno le svolazza,
il losco enimma, il frizzo a doppio senso,
che dà vita allo sciocco e il saggio ammazza;
il ghiribizzo, il sogno, il controsenso,
lo sbaglio, la bugia, tutta la razza
degli assurdi, che va fino all'immenso;
e ronzano qual fanno intorno ai tufi
di vecchio muro i pipistrelli e i gufi.
X. Or, come io vi dicea, gli è di tal sorta
del palazzo l'incanto maledetto,
che qualunque là dentro il passo porta,
finché stavvi, riman senza intelletto.
Appena Agnese con la bella scorta
vi mise il pie', che vi provò l'effetto,
perocché Bonifazio in un istante
le par, che cosa? il suo fedele amante.
XI. Dico che Agnese pel suo re lo prende:
– Oh mia dolce speranza, oh mio campione!
Il giusto cielo al mio desir ti rende
hai tu vinto e disfatto il fier bretone?
qualche ferita il tuo bel corpo offende?
Ah lasciami levarti il panzerone! –
Con la tenera man così dicendo,
toglier tenta la cappa al reverendo.
XII. E con un vezzo che Amor poco intese,
gli si abbandona in braccio, ed allungato
l'eburneo collo, con pupille accese,
gli cerca un bacio che fu tolto e dato.
Che sgomento fu il tuo, divina Agnese,
quando, invece d'un mento delicato,
tu non trovasti che una barba incolta,
lunga, pungente, dura, ispida e folta?
XIII. Il frate, che di lei tutt'altro crede,
né la conosce, fugge via veloce.
Ella meschina, che sprezzar si vede,
gli va dietro, e piangendo alza la voce.
Mentre amendue così dàn fretta al piede,
l'un facendosi il segno della croce,
l'altra bagnando di pianto le gote,
XIV. Una donzella d'amorose e care
sembianze abbraccia con terror le piante
d'un cavalier che in atto è di vibrare
crudo il ferro nel seno alla tremante.
In quel barbaro, oh Dio, chi ravvisare
porìa Trimuglio, quel perfetto amante,
che altrove avrìa di cor, non che ferita,
ma salva Dorotea con la sua vita?
XV. Presa il miser l'avea per Tirconello;
error crudele! E nondimen lontano
ben è quel volto delicato e bello
di punto assomigliar quell'inumano.
Ella cerca il suo eroe, cerca di quello
cui diede eternamente il cor, la mano;
e a lui stesso parlando, l'infelice,
senza poterlo ravvisar, gli dice:
XVI. – Signor, per caso avreste voi veduto
un cavaliero che il mio cor si tiene?
Con meco in questo loco egli è venuto;
più nol ritrovo, oimé! dov'è il mio bene?
dove Trimuglio mio s'è mai perduto?
che fa dunque il crudel? perché non viene? –
E Trimuglio, a sì tènere querele,
non conosce, il meschin, la sua fedele.
XVII. Anzi pargli sentir quel crudo inglese
che vien per farlo della vita casso.
Si pon col ferro in man sulle difese,
e verso Dorotea misura il passo.
– Ti farò cangiar tuono, o discortese
duro isolan, dicea, fiero gradasso,
sacco di birra: pàrti d'esser grugno
da farmi venir freddo al sol di giugno?
XVIII. da minacciare un uom della mia sorte?
me, sacrédieu, nepote a quei famosi
eroi del Poitù, che tanti a morte
spinsero d'Albion figli sdegnosi,
e braccio avean del tuo molto più forte
e più di te fur grandi e generosi?
Ma che non tira la tua man la spada?
qual terror dunque il tuo vil core agghiada?
XIX. O fier nel dire e nell'oprar poltrone,
sol buono in parlamento a far la rana,
cervo inglese, Tersite d'Albione,
lesto, due botte, e fuori durindana;
o ti vado a marchiar con un bastone
quella fronte d'ogn'altra più villana,
ed applicarti sulla larga groppa
lo staffile finché faccia la stoppa. –
XX. Al parlar che da bestia egli facea,
pallida, lagrimosa e spaventata,
– Non sono inglese, grida Dorotea.
La cosa è ben diversa: oh sventurata!
in che rischio son io! Di che son rea?
perché sono da voi sì maltrattata?
che v'ho fatt'io, signor? siate cortese:
non m'uccidete: ah no, non sono inglese.
XXI. Sono una donna dall'amor condotta
dell'adorato mio Trimuglio in traccia,
e che vinta d'affanno qui dirotta-
mente piangendo i ginocchi v'abbraccia. –
Così con voce trepida interrotta
parlava Dorotea; ma fiero in faccia
non l'udiva Trimuglio, e delirando
già la prendea pel collo e alzava il brando.
XXII. In questa il frate, che da Agnese scappa,
correndo inciampa e in mezzo a lor trabocca:
vuol ciuffarlo Trimuglio, e niente attrappa,
ché il capo è raso e giù con lui trabocca.
Giunge Agnese, che il mento al frate acchiappa,
e gridando ella pur su lui trabocca;
e sotto Agnese ed a Trimuglio e al frate
come stia Dorotea, vel figurate.
XXIII. Nel calor di conflitto così bello,
Carlo, coi tre che già v'ho detto avante,
entra feroce nel fatal castello
per rintracciarvi la sua fida amante.
Oh meraviglia! oh rio poter novello!
appena han poste sul terren le piante,
sotto il portico appena sono entrati,
XXIV. Tale a Parigi in gran paludamento
pieni il quadrato berrettin di buona
provvista d'argomenti, a passo lento
i dottori se n' vanno alla Sorbona,
teologica tana, a la qual drento
la confusion, la disputa in persona
han stabilita la lor sacra sede,
ove mai di ragion non entra il piede.
XXV. A questa tana i nostri reverendi
giunsero in fila, e d'esser saggi han cera;
ché per tali in lor casa tu li prendi,
e per gente di garbo e di maniera.
Non rissosi, non strani, e sottintendi
che pur qualcuno ha la sua testa intera
veracemente. Ma che arriva a un tratto?
Quando son su que' banchi, ognuno è matto.
XXVI. Ebbro di tutta la sua gioja antica,
con occhi molli e tremoli d'ardore
e un palpito di cor che l'affatica,
s'udìa dir Carlo languendo d'amore:
– O cara Agnese, o mia bella pudica,
mio paradiso, cor di questo core,
mio tutto! oh quante volte io t'ho perduta!
eccoti alfine a' vóti miei renduta!
XXVII. Oh! parlami d'amor, dolce mia dea;
io ti veggo, io ti stringo: oh che fiorita
buona cera che l'occhio e il cor ricrea!
Ma dov'è il tuo sottil taglio di vita?
quel che tutto una volta i' mi potea
chiuder nel cerchio delle dieci dita?
quali chiappe, qual ventre, e qual grassezza!
ecco il frutto di nostra tenerezza.
XXVIII. Agnese è incinta, ed aprirà con Dio
presto ad un vago bastardel la porta,
che per noi pugnerà. Ch'anzi vogl'io
(poiché l'amor paterno mi trasporta)
questo frutto novel, ch'è frutto mio,
tosto innestar sull'albero che il porta.
Sì mi comanda Amor che in sull'istante
io vada incontro a questa cara amante. –
XXIX. E il buon Carlo a chi mai questo amoroso
e qual era il gentil corpo vezzoso
che con tenero amplesso si stringea?
Era Bonel sbuffante e polveroso,
Bonel che tutto in acqua si struggea.
Altr'uomo al mondo in tutta la sua vita
non sentissi così l'alma smarrita.
XXX. Punto dal gran desìo teneramente,
lo incalza il re con man determinata;
lo riversa, e Bonel pesantemente
casca sopra la truppa ammonticchiata.
Sotto tanta ruina quella gente
si sentì tutta ammaccata, schiacciata:
urla, grida, e alcun poco il gran dolore
fa riprendere i sensi al confessore.
XXXI. Ei di modo giacea, che gli servia
di coltre Agnese e Dorotea di letto.
S'alza, mena le gambe e trotta via;
Bonello il segue tutto ansante il petto.
Trimuglio, che ciò vede, in fantasia
si caccia che Bonel senza rispetto
via gli porti la bella; onde veloce
lo insegue e corre, e grida ad alta voce:
XXXII. – Rendimi l'amor mio, brutto ladrone;
férmati, aspetta, senti due parole. –
Sì dicendo, gli affibbia in sul groppone
un colpo che l'avrìa disteso al sole,
se non portava un grosso panzerone,
dentro il quale parea quella gran mole
che del fabbro sonar fa la fucina
sotto il martello che percote e affina.
XXXIII. Il colpo nol ferì; ma la paura
gli fece nelle gambe aver più fretta.
Giovanna, che pur tutta ha l'armatura,
visto Bonel che trotta e non aspetta,
visti i colpi che l'altro gli misura,
corre dietro a Trimuglio, e lo rassetta
con quella paga ond'egli guiderdona
del real confidente la persona.
XXXIV. Ma il grande Dunoè, che ognor da quella
del suo Trimuglio ha l'anima indivisa,
non pate ch'altri il tocchi: la sua stella
è di pugnar per esso, e lo ravvisa;
ma prende per un anglo la Pulcella,
e tosto se la striglia nella guisa
ch'ella striglia quell'altro che strigliava
Bonel, che a stento tuttavia scappava.
XXXV. Il buon re Carlo, sempre delirante,
sempre vede in Bonel la bella Agnese.
Che stato per un re, per un amante,
degli amanti il più fido il più cortese!
Contro un'armata, e non sarìa tremante,
ne piglierebbe ei solo le difese;
perciò quei crudi rapitori affronta,
i guerrier che a Bonel fan danno ed onta.
XXXVI. Mena il brando al Bastardo, e quei voltato
gli rappicca un fendente con furore
sulla real visiera: oh sventurato,
se sapessi che questo è il tuo signore!
In orror di te stesso e disperato
di rossor ne morresti e di dolore.
In quel punto Giovanna a lui si scaglia,
lo rabbuffa, e più seria è la battaglia.
XXXVII. Ma Dunoè, che nulla se n'affanna,
la sua bella ad un tempo e il suo re suona,
e alla manca e alla destra una tal manna
piove di colpi, che le teste introna.
Ferma, Bastardo mio, ferma, Giovanna!
Quando saprete, oimé, chi vi bastona
e cui battete allegramente, oh quanti
i rimorsi saran, saranno i pianti!
XXXVIII. Trimuglio intanto con pesante braccio
va tastando Giovanna di gran botta,
or le spezza la schiena, ora il mostaccio.
Bonel tien altro stile, altra condotta,
sendo il meno turbato il suo capaccio:
egli riceve, ma non rende, e trotta,
trotta sempre, ed il frate lo precede
con egual téma al cor, più fretta al piede.
XXXIX. Così ciascun rabbioso, inviperito
l'un contro l'altro or batte, or è battuto,
e assalitore a un tempo ed assalito,
urla, grida, né sosta alcun minuto.
ognor si crede il petto e grida ajuto;
e Bonifazio tutto contrizione
mena sempre su e giù la processione.
XL. Il rio padron dell'incantato loco
alla finestra finalmente vide:
Ermafrodito, che l'orrendo gioco
contempla allegro de' Francesi e ride
con le mani sui fianchi, e manca poco
che non ne scoppi. Il padre allor s'avvide
che un palazzo sì strano e di tal conio
era senz'altro un'opra del demonio.
XLI. Per miracolo sommo ei conservava
un resto di cervel quanto una mica;
la gran chierca e il cappuccio che portava,
gli avean servito al senno di lorica.
Gli sovvien che Bonel seco recava,
giusta la saggia costumanza antica,
garofano, moscado, pepe e sale,
come il frate facea del breviale.
XLII. Prende sale e messale, e a una fontana
corre a far l'esorcismo: a capo chino
mormora seco una devota e strana
mescolanza di greco e di latino.
Poi, presa d'acqua una scodella sana,
se ne va presto presto, e pian pianino
versa sopra la nuca il benedetto
licor possente all'infernal folletto.
XLIII. Men fatale ai dannati fu già presso
i pagan l'onda dello stigio lago.
Scintillò la sua pelle, e un buio e spesso
nugolo avvolse col palagio il mago.
Lo stuol de' nostri combattenti, anch'esso
chiuso in quella di fumo atra vorago,
givan ancor cercando all'ombra in seno,
quando sparve l'incanto in un baleno.
XLIV. Non più baruffe, non più error, da poi
che l'un coll'altro a ravvisarsi è giunto:
ogni cervello ne' discorsi suoi
allo stato primier tosto è rassunto.
Così rese un sol punto ai nostri eroi
il poco senno che lor tolse un punto;
perché in noi la saggezza e la follia
vanno e vengono ognor per una via.
XLV. Fu bel vederli allor tutti in miscuglio
chiedersi scusa delle lor pazzie,
e fare ai pie' del frate un guazzabuglio
di grazie, di Te Deum, di litanie.
Ma del reale amante e di Trimuglio
chi l'estasi può dire e l'allegrie?
Non s'udia che – Mia vita, mio tesoro,
sei tu? Son io. Che gioia! Io manco, io mòro! –
XLVI. E qui baci a migliaia, e abbracciamenti
e dimande e risposte a più potere
senz'ordine verun, ché troppo lenti
i lor detti correan dietro al pensiere.
Il frate con paterni occhi clementi
li guata e fa lontan le sue preghiere,
mentre Giovanna e Dunoè soletti
si spiegan con modestia i loro affetti.
XLVII. L'orecchiuto animal che li guardava,
roso d'indivia, allor con gran tempesta
die' fiato e tuono alla tremenda ottava
del suo gozzo a cornetta, alta la testa.
Tutto si scosse a quel fragor; tremava
inorridita la natura; e in questa
il magico palagio e le sue cento
cadder porte di bronzo in un momento.
XLVIII. Tale il popol di Dio, quando soggetti
teneasi il sole il mare e la natura,
vide al suono di trombe e clarinetti
di Gerico cader le salde mura,
e spezzate le torri e gli alti tetti
nella polve adeguarsi alla pianura.
Ma non è più quel tempo, ed or si pratica
con dispendio infinito un'altra tatica.
XLIX. Il palazzo fu poscia ristorato,
e, dove pria di colpe era sì nero,
ben lustrato purgato e consacrato,
divenne un ampio e santo monastero.
Il gran salone in chiesa fu cangiato,
e il gabinetto, dove il menzognero
nei peccati sepolto avea dormito,
venne in bel santuario convertito.
L. Ma l'ordine di Dio, che ognor dispone
le cose tutte col miglior destino,
non permise veruna innovazione
nella sala da pranzo e da festino.
Se non che si chiamò da refezione
Refettorio, cavato dal latino,
ove si loda Dio con cuor verace
tracannando e mangiando in santa pace.
LI. Giovanna intanto, col pensier rivolta
ad Orleano a Remme ed al Signore,
disse al Bastardo: – Allegri; il cielo ascolta
l'alto nostro disegno e il nostro amore.
Tutto andrà ben, crediate; questa volta
fatto ha l'ultimo sforzo il tentatore.
e un grosso granchio in così dir prendea.
Cfr. Ariosto, Orlando fur., VIII, 1.
Scudéri, autore dell'Alarico, poema epico; Lemoine, gesuita, autore del San Luigi, o Luisiade, poema epico; Desmarets Saint-Sorlin, autore del Clodoveo, poema epico. Il gobbo Gianni, aggiunto dal traduttore, non è altri che il Gianni improvvisatore e suo particolare nemico (v. specialmente Mascheroniana, I, 196-8).
Dice l'orig.: Et créateur de la confusion Qui depuis peu fit Marie Alacoque. Verso il 1730 si faceva un gran discorrere di Maria Alacoque, della quale scrisse la storia il Languet, allora vescovo di Soissons. Siccome coque de ver-à-soie significa bozzolo, il Monti chiama Maria Alacoque Maria Verme-da-seta.