François-Marie Arouet de Voltaire
La pulcella d'Orléans

CANTO DICIOTTESIMO

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CANTO DICIOTTESIMO

 

 

ARGOMENTO.

 

Gazzettieri dannati alla galera

il drappello real salva per via.

De' compagni e di sé contezza intera

Freron, capo di cotal genìa.

Il re gli assolve; e giunta omai la sera,

fermasi la brigata all'osteria:

ma i galeotti, mentre ognun riposa,

vi fanno il repulisti d'ogni cosa.

 

 

I. Come leggo la storia dell'umano

germe, non trovo in tutto quanto il mondo

profeta, né eroe, né buon cristiano,

persona d'onore e di cor mondo,

che alfin non caschi de' furfanti in mano,

o de' gelosi, o dello spirto immondo.

Lo dica il mio buon re, che a tutte l'ore

fu co' mali provato e col dolore.

II. Prima egli ebbe una mala educazione

fin da fanciullo; poi perseguitollo

nella sua giovinezza il Borgognone;

poi de' suoi dritti il genitor privollo:

quindi a Gonessa senza discrezione

il Parlamento, suo tutor, citollo;

e il povero pupillo i suoi be' gigli

rapir si vide da' britanni artigli.

III. Andò ramingo e ognor come un bandito

senza pranzo sovente e senza messa;

rare assai volte nel medesmo sito

una stanza da sol gli fu concessa;

fu dall'amico e dallo zio tradito,

dalla sua bella e dalla madre istessa;

e se dir tradimento non volete,

dite abbandono, ché lo stesso avrete.

IV. Per colmo d'infortunio un paggio inglese

lo fe' cornuto, e il diavolo disciolse

a' danni suoi quel mago discortese

ermafrodito, che il cervel gli tolse.

Insomma, si trovò sempre alle prese

con la sventura ed ogni male il colse:

ma il bonissimo re lo sopportò

con pazienza, e Dio gli perdonò.

V. De' nostri amanti il nobile drappello

si dileguava dal castel funesto,

ove il demonio avea guasto il cervello

del re, d'Agnese e di Bonel col resto:

e costeggiando ne venìa bel bello

il bosco d'Orleàn, mentre del mesto

Titon la sposa uscìa del letto, e intorno

rubicondo spargea per l'ombre il giorno.

VI. Ed ecco comparir certi gagliardi

in corto casacchin, torto berretto,

che aver parean di gigli e leopardi

ricamato e diviso il corsaletto.

Alto! – il re disse, ed affissò gli sguardi

sullo stuol che venìa serrato e stretto

per la foresta; e con altier sembiante,

Giovanna e Dunoè si féro avante.

VII. Stendendo Agnese al re le bianche braccia,

– Oh! fuggiamo, nettiam, – dirgli s'udìa.

Giovanna, che frattanto oltre si caccia,

vede un branco d'afflitti che venìa

legato a coppia e sì confuso in faccia,

che alzar gli occhi da terra non ardìa.

– Questi son cavalier, diss'ella, e noi

liberarli dobbiam, se siamo eroi.

VIII. Animo, Dunoè: sappian le genti

chi sei tu, chi son io. – Con questi sproni

poser le lance in resta, e violenti

sulle guardie piombàr di quei baroni.

Al fiero aspetto di tai duo valenti,

e più pur anco del somaro ai tuoni,

quel tremendo drappel senza dimora

come lepre fuggissi, e fugge ancora.

IX. Lieta della vittoria, i prigionieri

la gran Pulcella salutò cortese.

Ringraziate il re vostro, o cavalieri,

che pel mio braccio a libertà vi rese.

Prostratevi, seguite i suoi guerrieri,

e vendichiamci del superbo inglese. –

Ma muti i cavalier con faccia incerta

chinaron gli occhi alla gentil profferta.

X. Tu chiedi impaziente, o mio lettore,

chi sien codesti cavalieri erranti

di cui vuolsi spronar l'alto valore.

Questi gran cavalieri eran birbanti

inviati al mestier di rematore

sulle vaste di Teti onde sonanti:

giusta mercede delle lor sant'opre,

come l'abito avvisa che li copre.

XI. Sospirando in vederli, il re clemente

disse: – Di quei meschini il cor mi prostra

l'indegna vista. E che? già l'insolente

anglo in mia casa da padron si mostra?

e i capiatur spedisce? e solamente,

solamente per lui si paternostra?

e i poveri vassalli a suo piacere

da Parigi mi manda alle galere?

XII. Indi, tutto pietoso e intenerito,

avvicinossi al caporion che in testa

della fila venìa. Nessun bandito

ebbe faccia giammai più disonesta.

Ispida barba, aguzzo mento ardito,

occhio obliquo, che tutta manifesta

l'anima falsa, astuto ciglio e roggio,

dell'impostura e della fraude alloggio.

XIII. De' rimorsi lo sprezzo e l'arroganza

porta dipinta sulla fronte arcigna,

e delle leggi la dimenticanza,

e l'insulto che morde e poi sogghigna:

alla bocca ha la schiuma, e con baldanza

pronto il dente a ferir sempre digrigna.

Tal era il sicofante, e peggio ancora,

che al re de' Franchi presentossi allora.

XIV. Mesto, devoto, umìl, mortificato,

abbassa il guardo, ricompone e liscia

del suo volto, che par d'un appiccato,

la rea sembianza, e innanzi al re si striscia.

Tale un cane impudente ed affamato,

visto il padron, s'accosta e fa la biscia;

lo lusinga, lo lecca, allunga il gozzo,

e agnel diventa per buscarsi il tozzo.

XV. O somiglia piuttosto a Satanasso,

qual lo spinge ai fanciulli il padre Chiappa,

che d'inferno scappando a codon basso,

e nascoso l'unghion che l'alme attrappa,

si ficca in un convento e prende il passo,

la rasa nuca, il volto, il tuon, la cappa

d'un fresco anacoreta, onde la sera

tentar meglio suor Rosa e suor Sincera.

XVI. Dal viso traditor Carlo tradito,

pietà sentinne, e affabilmente, come

dèttagli il cuor, si volge a quel proscritto:

Dimmi, povero diavolo, il tuo nome,

il tuo mestiero, e di che rio punito,

in abito succinto, in corte chiome,

del tribunal ti manda la clemenza

galeotto sul mar della Provenza. –

XVII. – Clementissimo re (dolente e tristo

gli rispose colui), nantese io sono,

e mi chiamo Freron: di Gesù Cristo

seguace ardente, e di cuor puro e buono.

Portar cappuccio un tempo già fui visto,

e n'ho i costumi ancor, non vi cogliono;

ed ho sempre con grande accuratezza

atteso de' ragazzi alla salvezza.

XVIII. Consacrai la mia vita alla virtute;

d'ingegno lavorai presso ad un certo

cimiter di Parigi, e fur vendute

ben care le mie stanze al buon Lamberto.

Son l'opre mie per tutto conosciute,

soprattutto alla piazza di Malperto.

Sì, quello è loco, o mio monarca, dove

mi fu resa giustizia più che altrove.

XIX. Gl'indevoti talvolta rinfacciato

mi han qualche truffa, qualche effervescenza

del cappuccio e del mondo. Egli è provato

che fu pura del pubblico insolenza.

Io me ne beffo, o Sire, e sto posato

sul sentirmi illibata la coscienza. –

Così parlava il pio Frerone, e Carlo

restò molto commosso ad ascoltarlo.

XX. Poi – Non temer, gli disse, e ti consola.

Ma dimmi un poco, amico mio: codesti

che van teco a Marsiglia in camiciuola,

sono come sei tu probi ed onesti? –

– Ah, riprese Freron, su la parola

di cristiano, vi fo di tutti questi

sicurtà piena senza compromesso.

Noi siam tutti, o mio re, d'un conio stesso.

XXI. Guyon, che m'è d'accanto, ogni riguardo

merta, che che se n' dica, e merta amore:

niente pazzo imbroglion, niente bugiardo,

giammai birbo, giammai calunniatore.

Questo è Chaumeix, degnatelo d'un guardo:

sotto quel vile aspetto ei porta un core

pien di santa arroganza, e si farìa

martire per la sua filosofia.

XXII. Ecco Gauchat, che insacca i più valenti

rabbini sovra il testo e sulla glosa.

Quell'avvocato senza clienti,

che al ciel posposto ha il fòro e si riposa,

è Sabatier, che il mèle ha insino ai denti,

bell'ingegno, buon prete, alma pietosa.

Gli è ben ver che tradito ha il suo padrone;

ma per tre soldi e senza intenzione.

XXIII. S'è venduto, ma scevro di vergogna,

al migliore oblator sopra la Senna,

trafficando, com'io, qualche menzogna.

È questo un mal che passi la cotenna?

De' suoi talenti vivere bisogna:

dateci pane e vi darem la penna.

Siamo in un tempo che i più scelti allori

del Cimiter van tutti a gli scrittori.

XXIV. De' vostri figli gloriosi il frutto

desta l'invidia, ed ecco degli eroi,

de' begl'ingegni il fato, e soprattutto

de' divoti di Dio come siam noi.

Si sa che la virtù sta sempre in lutto;

e chi sallo, mio re, meglio di voi? –

Così parlando, il galantuom mettea

le mani in croce e di pietà piangea.

XXV. Finiva il santo le parole sue,

quando Carlo osservò due torcicolli,

i quali s'ascondean con amendue

le palme i volti da segnar coi bolli.

– E chi son, dimandò, chi son quei due

remator verecondi? – ed accennolli.

– Ah, mio re, con sottil voce puttana

rispose lo scrittor da settimana,

XXVI. eccovi i più prudenti ed onorati

di quanti andiamo a respirar sul mare.

L'uno è Fantin, la perla dei curati,

umil col grande e dolce col vulgare.

Compatendo ogni sorta di peccati,

fu indulgente co' vivi, e per celare

la sua misericordia, ei confessava

i moribondi e poi li rubacchiava.

XXVII. L'altro è il nostro Grizel, quel saggio e pio

direttor di devote e non curante

dei lor favori, ma non già restìo

ad appropriarsi il fidato contante.

E tutto questo per l'amor di Dio.

Alma di voglie immaculate e sante,

avea l'oro in dispregio, ma temea

che non cadesse in man profana e rea.

XXVIII. Ultimo dello stuol mirate omai

il mio caro Beaumelle, il mio sostegno.

Di dieci cani il cui latrar comprai,

egli è il più vile, ma il più fido e degno.

Se non che sì distratto il troverai,

e sì tutto sommerso coll'ingegno

nell'opre sue cristiane, che per sui

prende talvolta i borsellini altrui.

XXIX. Del resto, ei scrive con giudizio e sa

come vana purtroppo e perigliosa

per gli sciocchi è talor la verità

e alle deboli teste insidiosa;

che inganna il suo splendor; che se ne fa

un abuso crudel; per la qual cosa

il nostro saggio, che la teme assai,

ha risoluto di non dirla mai.

XXX. Per me la dico a voi, ed a qualunque

verrà dopo di voi; dico e protesto

che voi siete un eroe. Salvate adunque

dagli empii, o sire, l'infelice onesto.

La calunnia ci opprime, e noi comunque

il favor vostro meritiam, per questo

vendetta e paga e libertà, ché noi,

Freron ve 'l giura, scriverem per voi. –

XXXI. E qui sopra due piedi schiccherò

contro gl'Inglesi un discorso posato

per la salica legge, e dimostrò

che la sua penna salverìa lo Stato

senza l'armi adoprar. Carlo ammirò

la sua dottrina, e con sembiante grato

e con segni di gran compassione

gli sicurò di sua protezione.

XXXII. Presente Agnese a quel parlar doglioso,

sentiasi tutta alla pietade inchina.

Femmina innamorata ha un cuor pietoso

più che femmina saggia ed eroina.

– Mio re, diss'ella, il giorno è avventuroso

per questa gente povera e tapina.

Poi che il mio prence contemplar le lice,

deh spezzate i suoi ceppi, e sia felice.

XXXIII. Volto di grazia è il vostro. Un bello in vero

ardir gli è questo dei dottor, che dànno

sentenze in nome di padron straniero,

quando voi sol lo siete, ed ei lo sanno.

Eroi sol nati a por sul bianco il nero,

che fan chiamarsi, colgali il malanno,

del nostro re tutori, e, malandrini,

non ne son che i tiranni e gli assassini.

XXXIV. Lasciato han nudo il lor pupillo i mostri;

hanno citata la real persona

ad comparendum, e sugli occhi nostri

n'han devoluta al figlio la corona.

Questa gente dabbene ai piedi vostri

còlta è d'ugual sentenza buggerona:

vendicatela; i torti son comuni,

pari l'esiglio e pari gl'infortuni. –

XXXV. Mosse il re quel discorso: il suo cuor tenne

sempre a clemenza, natural suo morbo.

Giovanna d'altra parte al re sostenne

che impiccarli era d'uopo e darli al corbo;

che i Freroni, gli augelli di tai penne,

non eran buoni che a guarire un sorbo.

Ma il gran Bastardo, più profondo e saggio,

tenne da buon guerrier questo linguaggio:

XXXVI. – Penuria di soldati abbiam sovente;

v'è bisogno di braccia e gambe e schiene:

costoro han tutto, e noi continuamente

nel mestier nostro in forca andar conviene.

Arroliamli, vediam se a questa gente

più che un remo un moschetto starà bene.

Sporcàr finora inette carte e futili;

servano Marte, e non saran più inutili. –

XXXVII. Piacque a Carlo l'avviso. Il pio drappello

cadde a' suoi piedi e li bagnò di pianto.

Il re co' suoi fermossi al primo ostello

fino alla sera per cenarvi. Intanto

Agnese, tutta cuor, presso Bonello

fe' che la truppa al remo tolta, alquanto

sotto lo sporto, il grifo ugner potesse;

e del desco gli avanzi ei le concesse.

XXXVIII. Terminata la cena in festa e in chiasso,

con Agnese andò Carlo a riposarsi.

La mattina restàr tutti di sasso,

che senza manti e brache ritrovàrsi.

Agnese cerca invano il suo balasso,

invan le perle, e sta per disperarsi,

ch'anche il ritratto già sparito vede

del suo reale amante, e appena il crede.

XXXIX. Bonello tesorier, che custodìa

il picciolo borsiglio, tutto l'oro

del suo padron, non sa dov'ito sia

d'un regrande il povero tesoro.

Camicie, tovaglioli, argenteria,

abiti, calze e quanto avean con loro,

fino alle cose del valor d'un pavolo,

tutto è spazzato, e se le porta il diavolo.

XL. Quella truppa di ladri, capitano

il venerando gazzettier mantese,

con sollecito zelo e pronta mano,

coprendo il bujo l'onorate imprese,

tolto avea l'imbarazzo al re cristiano

del suo lieve equipaggio. Ella pretese

che, secondo Platone, un buon soldato

deve andar senza lusso e scaricato.

XLI. Fatto il suo repulisti, zitto zitto

per segreti stradelli il malandrino

stuolo nettando, se n'andò diritto

alla bisca e divise il suo bottino.

E giù pose di subito in iscritto

un trattato morale e pellegrino

sullo spregio de' beni e de' piaceri,

condito di bellissimi pensieri.

XLII. Vi si provò che l'uom dell'uomo è nato

fratello, egual, che dée senza lamento

partirsi il bene e il mal che Dio n'ha dato

e vivere in comune più contento.

Librosanto fu di poi stampato

ed arricchito d'un dotto commento

per governar lo spirito ed il core,

col prefazio e l'avviso al leggitore.

XLIII. La real casa intanto in piagnisteo

cercar fa i ladri dappertutto, e invano.

Così fur visti un giorno il buon Fineo

principe della Tracia e il pio trojano

l'uno e l'altro restar muto e babbeo,

quando le brutte arpìe col ventre vano,

appunto a mezzodì dall'antro uscite,

le regie divoràr mense imbandite.

XLIV. Agnese e Dorotea, l'una tremante,

l'altra in pianto, non san di che coprirsi.

Il tesorier Bonel, ciò non ostante,

le fa ridere a forza di stizzirsi.

– Oimé, gridava, in tante pugne e tante

mai tanto non ho perso! è da morirsi!

M'han tolto tutto i birbi: il mio padrone,

quando ci penso, è troppo buon coglione.

LXV. Eccovi il frutto della sua clemenza;

ecco ciò che co' dotti si guadagna. –

Agnese, ch'è una busta d'indulgenza

sempre discreta, né giammai si lagna,

dicea: – Pazienza, o mio Bonel, pazienza;

tostate pel signor questa castagna;

né vi faccia odiar tale avventura

i letterati e la letteratura.

LXVI. Perch'io conosco più d'uno scrittore

che far sa il bene senza dirlo, e netto

porta del pari che la mano il core,

la virtù ne' suoi scritti, e più nel petto.

Frutto è il pubblico ben del suo sudore,

e mescolando l'utile al diletto,

del suo dolce parlar spande la piena,

molce gli orecchi e l'anima incatena.

XLVII. Se calabroni v'hanno, ossia Freroni,

v'han pur le pecchie. – E questo che n'importa?

Bonel riprese; o pecchie o calabroni,

pranzar bisogna, e la mia borsa è morta. –

Lo consolano allor gli altri baroni;

ognun si sforza e sé medesmo esorta,

da veri eroi che il callo al mal fatt'hanno,

a por riparo come puossi al danno.

XLVIII. Senza indugiar, per taciti sentieri

inverso la città vanno al castello,

ove trovàr già Carlo e i suoi guerrieri

sicuro asilo ed armi e buon tinello.

Fanno mezzo equipaggio i cavalieri;

prendon le donne un semplice guarnello;

e vi giungono alfin come Dio vuole,

con un pie' mezzo scalzo e l'altro al sole.

 

 

NOTE AL CANTO DICIOTTESIMO

 

Ottava II, v. 2-3:

Il Duca di Borgogna, che assassinò il Duca d'Orléans. Ma il buon Carlo gli rese pan per focaccia al ponte di Montereau.

Ivi, v. 5-6:

Gonesse, villaggio vicino a Parigi.

Ottava III, v. 5-6:

La sua propria madre Isabella di Baviera fu quella che lo perseguitò più di tutti. A lei si dové il trattato di Troyes, che diede la corona di Francia al suo genero Enrico V, re d'Inghilterra.

Ottava VI, v. 3:

Sono le armi d'Inghilterra.

Ottava XV, v. 1-2:

Chi sia questo padre Chiappa di cui non è cenno nell'originale, non sappiamo; ma senza dubbio il Monti ha voluto deridere qualche ecclesiastico suo contemporaneo di poco cervello.

Ottava XVII, v. 2-3:

Elia Caterino Fréron, nemico fierissimo del Voltaire, e generalmente di tutti li enciclopedisti, prima frate e poi giornalista, nacque a Quimper nel 1719, e morí a Parigi nel 1776. Diede alle stampe niente meno che dugencinquanta volumi di opere diverse, che nessuno piú legge. Bastava il nome di questo folliculaire (Voltaire, Candido) per fare andar su le furie il filosofo di Férney.

Ottava XXI, v. 1-2:

Guyon, altro nemico degli enciclopedisti, e in particolar modo del Voltaire, nacque a Lous-le-Saunier nel 1699 e morí a Parigi nel 1761. Scrisse, con stile degno del titolo (Voltaire, Secolo di Luigi XIV), una Storia del basso impero, una Storia delle Amazzoni antiche e moderne, una Storia dell'Indie e non so quante altre storie. Nell'Oracolo dei nuovi filosofi si diede a mordere furiosamente il Voltaire, soprannominandolo Anticristo. Combatté in difesa della sua fede con successo non troppo felice e con armi, a volte, assai riprovevoli, ma certo con zelo e coraggio.

Ivi, v. 5:

Abramo Giuseppe Chaumeix nacque a Chanteau, vicino ad Orléans. Mostrò più ardore che senno nel combattere la filosofia e i filosofi; molti dei quali, segnatamente il Morellet e il Voltaire, lo rimbeccarono aspramente e non cessarono mai di metterlo in derisione. Disgustato de' suoi Francesi, andò ad abitare in Russia; dove Caterina, quantunque amica degli enciclopedisti, gli fece ottima accoglienza. L'opera sua principale è intitolata: Pregiudizi legittimi contro l'Enciclopedia, e saggio di confutazione di questo dizionario, con l'esame critico del Libro dello Spirito. Morì a Mosca nel 1790, lasciando presso gli uomini imparziali fama di onesto più che d'ingegnoso e di dotto.

Ottava XXII, v. 1-2:

Gabriele Gauchat, nato in Borgogna nel 1709, morto nel 1774 o nel 1779, scrisse varie opere di non molto valore in sostegno della religione.

Ivi, v. 3-6:

Spregevole uomo fu questo Sabatier, detto Sabatier di Castres, nato nel 1742, morto a Parigi nel 1817. Scrisse da giovane una commedia, un poema e parecchi racconti assai licenziosi. Dapprima si accostò ai filosofi, che lo accolsero nelle loro file con qualche sospetto; ma, sentendosi troppo fiacche le penne a volar alto, e non contento dei terzi né dei secondi onori, mutò improvvisamente bandiera, e cominciò a inveire contro il Voltaire, che, oltre a rispondergli da sé come sapeva rispondere il Voltaire a chi poco o molto lo stuzzicasse, gli scatenò contro tutta la muta degli enciclopedisti. Il ministro De Vergennes lo chiama a Versailles, gli assegna una pensione annua di lire dodicimila e gli a istruire i suoi figli. Ma ecco la rivoluzione, ecco che bisogna scappare e andarsene a fare il birbante ora qua ora . Sperò invano in Napoleone. Caduto il Bonaparte e ritornati in Francia li antichi padroni, anche al Sabatier parve tempo di rimpatriare: e ottenne una pensioncina di duemila lire vita natural durante.

Ottava XXV, v. 7-8:

Il Fréron dava allora alle stampe un foglio tutte le settimane, e in quel foglio buttava qualche volta delle piccole bugie, delle piccole calunnie e delle piccole ingiurie, per cagion delle quali fu condannato alla galera.

Ottava XXVI, v. 3-4;

 

Vous vous ressouvenez du bon curé Fantin,

Qui, prêchant, confessant les dames de Versailles,

Caressait tour-à-tour et volait ses ouailles;...

(Voltaire, Poesie).

 

Antonio Fantin des Odoards, storico e pubblicista (1738-1820), fu di quelli ecclesiastici che, venuta la rivoluzione, ne accettarono i principii. Ma come uomo d'opinioni assai moderate, dové durante il terrore starsene nascosto per un bel pezzo, se volle scamparla. Passata la burrasca, ottenne dal pontefice Pio VII d'essere sciolto da' suoi vóti e non tardò ad ammogliarsi. Quanto all'azione turpissima attribuitagli dal Voltaire, non se ne trova cenno in altri libri.

Ottava XXVII, v. 1:

L'ab. Giuseppe Grizel (m. 1787), autore d'opere ascetiche e direttore spirituale di donne d'alta condizione.

Ottava XXVIII, v. 1-2:

Lorenzo Angleviel de la Beaumelle, nato a Vallerangue nel 1726, morto a Parigi nel 1773, insegnò qualche tempo lingua e letteratura francese a Copenhagen, dove stette fino al 1751; nel quale anno il suo cattivo genio lo condusse a Berlino. Poco avanti vi era giunto il Voltaire, accolto da Federigo come il più gran monarca del mondo. La Beaumelle, che non era il re di Prussia, avrebbe avuto la pretensione di trattare da pari a pari con un uomo di cui lo stesso Federigo scriveva: – Ci vorranno dei secoli prima che la natura produca un altro Voltaire. – Ma, accortosi a più d'un segno di aver fatto male i suoi conti, maligno e invidioso com'era, credé vendicarsi punzecchiando il Voltaire in un libro intitolato I miei pensieri. Sopraffatto e umiliato dal suo potente avversario, il La Beaumelle dové andarsene da Berlino, e, dopo aver peregrinato un buon pezzo per varie città della Germania, si ricondusse a Parigi nella speranza di miglior fortuna. Ma il nuovo suo libro Note sul secolo di Luigi XIV gli tirò addosso altri nemici e persecuzioni infinite: e fu due volte imprigionato nella Bastiglia, e bandito da Parigi. Sul principio del 1770 il La Beaumelle ottenne non solo che gli fosse revocato il bando, ma anche una pensione e un onorevole impiego nella biblioteca reale.


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