François-Marie Arouet de Voltaire
La pulcella d'Orléans

CANTO DICIANNOVESIMO

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CANTO DICIANNOVESIMO

 

 

ARGOMENTO.

 

Trimuglio e Dorotea lungo un ruscello

còlti son nella dolce opra d'amore.

Combatte il cavalier con Tirconello;

uccisa è Dorotea (funesto errore!)

dal vago suo, che, fatto al sen puntello

del proprio acciaro, si trafigge il core.

Tirconel s'incappuccia, e grida e pianti

levano i nostri sugli uccisi amanti.

 

 

I. O ria germana della Morte, o Guerra,

diritto dei ladron nomati eroi,

che di sangue e di pianto empi la terra,

fatta un deserto dai delitti tuoi,

ben se' tu cruda ognor; ma se disserra

teco Amor anco gl'infortunii suoi,

ove trovar pupilla che non pianga,

ove un cor che resista e non si franga?

II. Un tenero amator che un sangue versa

cui comprerebbe col suo sangue istesso,

che la sua spada delirando ha immersa

nel sen medesmo da' suoi baci impresso,

che spenti ha gli occhi dove Amor sommersa

ha la sua face, e par che spiri anch'esso,

più spezza il cor che mille e mille vite

compre da regi ed a morir spedite.

III. Carlo, accerchiato da real drappello,

la fatal sua ragion ripresa avea,

dono infelice, e nondimenbello,

che in cerca di battaglie andar lo fea.

Camminando venian verso il castello

che di Marte il crudel treno chiudea,

lance, dardi, cannon fusi all'inferno,

per far dell'uomo così rio governo.

IV. Già da lungi apparian le torreggianti

cime del forte; e a trotto violento

quella schiera correa, Carlo davanti,

di speranze ripieno e d'ardimento.

Ma Trimuglio, l'onor dei fidi amanti,

l'onor del Poitù, seguìa più lento:

ragionando d'amore, il cavaliero

uscì di strada, e tenne altro sentiero.

V. Giunse a una valle, ove, fra molli erbette

che un'onda irriga cristallina e pura,

un bosco di cipressi alza le vette

che a piramide forma la natura,

salde contro lo sdegno e le vendette

di cento verni. Una spelonca oscura,

nel suo mezzo, con queta ombra romita

le Najadi e i Silvani al rezzo invita.

VI. Un ruscello per tacito cammino

giù cadendo vi fa più d'un zampillo,

e vi nutre uno strato tenerino

di melissa tessuto e di serpillo;

e la giunchiglia intorno e il gelsomino,

la pallida viola e l'asfodillo

dir alla ninfa ed al pastore:

Entra e riposa; il letto è qui d'amore.

VII. Sentì Trimuglio al cor quella favella:

il tempo, il loco, dell'aurette il fiato,

l'amor, la giovinezza, e più la bella,

de' suoi desiri il foco han già destato.

Smontano entrambi, e posano su quella

gentil verdura l'un dell'altro a lato,

poi colgono de' baci e poi de' fiori,

de' nuovi baci ancora e nuovi ardori.

VIII. Il dio dell'armi e Venere a diletto

vagando per lo ciel mai non miraro

del lor guardo divin più degno obbietto,

né più dolce spettacolo e più caro:

mezzo ascose nei boschi, a tanto affetto

fecer plauso le Ninfe e sospiraro;

e le colombe e i passeri loquaci

preser l'esempio e raddoppiaro i baci.

IX. Sorgea nel bosco istesso una chiesetta,

ospizio della morte atro e ferale,

ove l'antivigilia in arca eletta

aveano di Sandò sepolto il frale.

Tre preti in cotta feano strazio in fretta

di De profundis, mentre al funerale

Tirconello assistea per affezione

verso il defunto e non per devozione.

X. Stato egli era a Sandò nella milizia

fratello d'arme, e avea com'esso il core

fiero, superbo e lordo di nequizia,

conoscea di lacrime e d'amore;

e un avanzo serbando d'amicizia

per Giovanni Sandò, nel suo furore

giurò che la vendetta ne farà,

ma per collera più che pietà.

XI. Visti dal finestrino al praticello

pascere i due destrier, quell'arrogante

lascia i divini uffizi, e nel più bello

converte verso lor ratte le piante.

Alzan questi le groppe a Tirconello,

e riedono alla grotta ove l'amante

coppia a' suoi dolci furti s'abbandona,

tutta a sé sola, e non vedea persona.

XII. Tirconello, la cui mente feroce

del prossimo il piacer non può patire,

fe' un ringhio a quella vista, e ad alta voce

gridò: – Profani, olà, ch'è questo ardire?

Nell'impuro desìo che il cor vi cuoce,

così venite, o vili, a insolentire

degli eroi sulla tomba? È questo il loco

da baciarsi e dar sfogo al vostro foco?

XIII. Feccia di corte infame, allor che spento

cade un inglese, ad un bel modo in vero

tu festeggiraro avvenimento!

Parlo teco, villano cavaliero:

sei tu la cui vil mano a tradimento

ha messo a morte così gran guerriero?

Tu guardi la tua donna e non rispondi?

Segno che ti conosci e ti confondi. –

XIV. – Non son io, non fu mia sì bella gloria,

disse Trimuglio: Iddio guida il valore

e a suo senno dispon della vittoria.

Pugnai seco qual debbe un uom d'onore:

ma i giorni di Sandò spense e la boria

una man più felice: ed io, signore,

potrei qui forse l'arroganza adesso

di tal altro punir nel modo istesso. –

XV. Come vento che pria con fresche penne

increspa sussurrando al mar la faccia,

poi sorge e mugge e rompe sàrte e antenne

e di spavento i naviganti agghiaccia:

tal, poiché l'ire e quindi e quinci venne

e li orgogli a scaldar quella minaccia,

si sfidàr fieramente, e a rio duello

discesero Trimuglio e Tirconello.

XVI. Son senz'elmo amendue, senza lorica:

Trimuglio avea tra' fiori alla verzura

gittato accanto alla sua dolce amica

spada, asta, usbergo e tutta l'armatura,

per comodo maggiore: il ver si dica,

tutta questa pesante vestitura

a che serve in amor? Quanto all'Inglese,

ei sempre andar solea sotto l'arnese:

XVII. ma per raro accidente avea lasciato

quel ne la cappella il suo cimiero,

il suo lucente panzeron dorato

e i braccialetti in man d'uno scudiero.

Non ha che un largo cinto a cui legato

pende il brando. Lo trasse il cavaliero:

e adirato Trimuglio come lampo

raccoglie il suo da terra, e salta in campo.

XVIII. E – Aspetta, grida, aspetta, inglese mostro,

e vedrai che si merta un mascalzone

che, fingendo di dire il paternostro,

vien d'amore a turbar la funzione. –

Dice e incalza. Fu tale il caso vostro,

Paride e Menelao, quando Ilione

venir vi vide a rio duel, presente

la bella greca infida e indifferente.

XIX. Ma non già tal fu Dorotea, che il cielo,

l'antro, il bosco di grida empiendo viene.

D'amor la fiamma e della téma il gelo

forte mai non le agitàr le vene.

– Qui dunque, dove l'ombra prestò il velo

a' miei diletti, perderò il mio bene?

Ferma, Trimuglio mio! qui l'ire appaga,

barbaro Inglese, e questo seno impiaga. –

XX. Corre, così dicendo, e con ardenti

sguardi le braccia e 'l bianco petto ardito

fra le spade interpon dei combattenti.

Già del suo caro il seno era ferito,

lievemente. Ma qual fiamma ai vènti,

dalla piaga Trimuglio infellonito,

sul nimico si scaglia, e tanta è l'ira,

che starsi in mezzo Dorotea non mira.

XXI. Oh colpo! oh al suo signor brando infedele!

qual sarà l'alma che ben senta amore,

e il pianto a' versi miei neghi crudele?

Ah dolor che va sopra ogni dolore!

Degli amanti il più bello, il più fedele

della sua donna, ahimé, trafitto ha il core,

quel cor che l'adorava: ella spirante

cade, e chiama cadendo il caro amante.

XXII. Già l'occupa la morte; già vien meno

del cor la forza, e al guardo il s'oscura:

ella del sole all'ultimo baleno

i pesanti occhi riaprir procura,

e, con debile man toccando il seno

del suo Trimuglio, eterno amor gli giura:

poi dell'ultimo spirto fa richiamo,

e muore in queste voci: – Io t'amo, io t'amo. –

XXIII. Né già Trimuglio la sentì, ché cinto

di morte in braccio a Dorotea si stava;

e, tutto quanto del suo sangue tinto,

non udìa, non vedea, non favellava.

L'orrendo e pio spettacolo, il cor vinto,

agghiacciato d'orror, l'altro mirava

con attonite luci, in tutto casso

di movimento e indifferente a un sasso.

XXIV. Tal è fama che Atlante, al quale invano

chiese il figlio di Giove ospizio e tetto,

rupe divenne, quando all'inumano

della Gorgon fu móstro il sacro aspetto.

Ma la dolce pietà, che di sua mano

natura pose in fondo all'uman petto

onde li orgogli temperarne e l'ire,

a quell'alma crudel si fe' sentire.

XXV. Soccorrendo l'esangue Dorotea,

pon mente a due ritratti in miniatura

che la meschina in ogni tempo avea

seco serbati con attenta cura.

L'uno è Trimuglio, e al guardo lo dicea

l'occhio azzurro e la chioma biondoscura;

fiero e dolce è il suo viso, e in un felice

misto la grazia coll'ardir s'addice.

XXVI. – Volto non v'ha d'amor più degno al mondo, –

disse il Breton col guardo a quel ritratto:

ma qual rimase allor che nel secondo

medesmo mirò tratto per tratto?

Mira, stupisce, e in sé cogitabondo

si ricorda che, avendo un tempo fatto

un viaggio a Milano, avea d'amore

punto alla bella Carminetta il core.

XXVII. E che di facendo dipartita

dopo alcun mese, e lei lasciando piena,

diede all'amante dama, onde addolcita

di quel duro partir fosse la pena,

questo ritratto, che la man perita

del Bellino dipinse in pergamena.

Ella, ohimé, poi di Dorotea fu madre,

e Tirconello, ahi Tirconello, è il padre!

XXVIII. Egli era freddo, altero, indifferente,

ma di cuor buono in fondo e generoso.

Quando in alme siffatte entra il pungente

strale del duolo, va più dentro ascoso

che in anima vulgar, troppo al torrente

esposta degli affetti. Più ritroso

s'infoca il ferro che la canna lieve,

ma forte in quello, e mite in questa e breve.

XXIX. Vede il fiero al suo pie' morta la figlia,

la vede, la contempla; e alfin s'affaccia

il primo pianto in copia alle sue ciglia,

che dell'amata estinta empie la faccia.

Freme, bestemmia, e con furor si piglia

il cadavere caro infra le braccia;

e maledetto con la guerra il fato,

cade alfin senza voce e senza fiato.

XXX. Aprì gli occhi Trimuglio a quelle grida,

vide il , detestollo; e, in un baleno

ritirando il crudel ferro omicida

che trafiggeva l'adorato seno,

ne pianta l'elsa al suolo, al cor ne guida

la punta, vi si versa a corpo pieno,

e mortalmente ferito trabocca

sull'amata e le spira a fior di bocca.

XXXI. Al doloroso orribile lamento

che mandò Tirconel, corre una schiera

di scudieri, di preti, e di spavento

gli empì la vista lagrimosa e fiera.

Quelle tigri devote in tal momento

sentìr pietate anch'esse, e, se non era

l'aita lor, seguìto avrìa quel forte

l'anime innamorate oltre la morte.

XXXII. Di quel crudo accidente alfin avendo

l'orror calmato, e più severa e chiara

ne' suoi discorsi la ragion sentendo,

fe' di canne formar tosto una bara;

sovr'essa, incarco in un pietoso e orrendo,

posàr la coppia sventurata e cara:

e quindi al campo la portàr segreti,

la via bagnando del lor pianto, i preti.

XXXIII. Tirconello, che in tutto è violento,

prese tosto partito. Anima dura,

detestò dopo questo avvenimento

e moglie e figli e tutta la natura.

Licenzia i servi, cavalca un giumento

di Barberìa, e con pupilla oscura,

con petto afflitto e senza mai parlare,

vola a Parigi e da Parigi al mare.

XXXIV. Imbarcasi a Calais, va al suo paese;

e colà si fa frate di san Bruno,

il ciel mettendo, come il duol lo prese,

fra il mondo e sé, né più vedendo alcuno;

vide appena sé stesso, e non attese

che al cilicio alla frusta ed al digiuno.

Visse sempre in silenzio e in orazione,

ma senza gustar mai la devozione.

XXXV. Come re Carlo, Agnese e la Pulcella

vider passar la pompa dolorosa,

e quella coppia, un lieta e bella,

or di polve coperta e sanguinosa,

senza moto restàr, senza favella,

per lo spavento, quasi morta cosa:

poi la pietà del pianto i fonti aperse,

e tutti gli occhi in lagrime converse.

XXXVI. Si pianse meno in Troja Ettore estinto,

allor che Achille, vincitor modesto,

dolcemente il trasse, i piedi avvinto,

il capo penzolone e tutto pesto,

spingendo il carro d'un bel rosso tinto

sovra un monte di morti in modo onesto:

ivi si pianse men, perché la sposa

pur sopravvisse: e ciò fu qualche cosa.

XXXVII. La bella Agnese intanto al sen tremante

stringesi il re che le piangea sul petto,

e mesta gli dicea: – Mio caro amante,

forse noi pure un nel cataletto

sarem portati in modo somigliante

all'altro mondo. Oh tristo un cotal letto!

Ah che l'anima mia, come il mio seno,

sia per sempre alla vostra unita almeno! –

XXXVIII. A siffatto parlar, che al cor la vile

paura infonde e la tristezza molle,

Giovanna, preso il tuon fiero e maschile,

lingua verace d'un ardir che bolle,

disse: – Non è con musica sottile

di bei singhiozzi e piagnistei da folle,

che noi quest'ombre vendicar dovremo,

ma coll'armi: e diman le prenderemo.

XXXIX. Mirate, o re, mirate d'Orleano

gli assediati bastioni. I campi intorno

fuman di sangue che la vostra mano,

la vostra mano ha sparso l'altro giorno.

Armatevi, seguite il vostro piano;

ché il resto, vel dich'io, non vale un corno.

Questo è tutto che all'ombra insanguinata

di Trimuglio si debbe e dell'amata.

XL. Vinca un re valoroso e non sospiri,

se il suo dover conosce e non minchiona.

Lungi, Agnese gentil, lungi i deliri

d'un'alma troppo delicata e buona.

La bella Agnese al suo fedele ispiri

sensi più degni della sua corona. –

– Ah dite bene, Agnese rispondea,

ma lasciatemi piangere. – E piangea.


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