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I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio
Trimuglio e Dorotea lungo un ruscello
còlti son nella dolce opra d'amore.
Combatte il cavalier con Tirconello;
uccisa è Dorotea (funesto errore!)
dal vago suo, che, fatto al sen puntello
del proprio acciaro, si trafigge il core.
Tirconel s'incappuccia, e grida e pianti
levano i nostri sugli uccisi amanti.
I. O ria germana della Morte, o Guerra,
diritto dei ladron nomati eroi,
che di sangue e di pianto empi la terra,
fatta un deserto dai delitti tuoi,
ben se' tu cruda ognor; ma se disserra
teco Amor anco gl'infortunii suoi,
ove trovar pupilla che non pianga,
ove un cor che resista e non si franga?
II. Un tenero amator che un sangue versa
cui comprerebbe col suo sangue istesso,
che la sua spada delirando ha immersa
nel sen medesmo da' suoi baci impresso,
che spenti ha gli occhi dove Amor sommersa
ha la sua face, e par che spiri anch'esso,
più spezza il cor che mille e mille vite
compre da regi ed a morir spedite.
III. Carlo, accerchiato da real drappello,
la fatal sua ragion ripresa avea,
dono infelice, e nondimen sì bello,
che in cerca di battaglie andar lo fea.
Camminando venian verso il castello
che di Marte il crudel treno chiudea,
lance, dardi, cannon fusi all'inferno,
per far dell'uomo così rio governo.
IV. Già da lungi apparian le torreggianti
cime del forte; e a trotto violento
quella schiera correa, Carlo davanti,
di speranze ripieno e d'ardimento.
Ma Trimuglio, l'onor dei fidi amanti,
l'onor del Poitù, seguìa più lento:
ragionando d'amore, il cavaliero
uscì di strada, e tenne altro sentiero.
V. Giunse a una valle, ove, fra molli erbette
che un'onda irriga cristallina e pura,
un bosco di cipressi alza le vette
che a piramide forma la natura,
salde contro lo sdegno e le vendette
di cento verni. Una spelonca oscura,
nel suo mezzo, con queta ombra romita
le Najadi e i Silvani al rezzo invita.
VI. Un ruscello per tacito cammino
giù cadendo vi fa più d'un zampillo,
e vi nutre uno strato tenerino
di melissa tessuto e di serpillo;
e la giunchiglia intorno e il gelsomino,
la pallida viola e l'asfodillo
dir sembrano alla ninfa ed al pastore:
Entra e riposa; il letto è qui d'amore.
VII. Sentì Trimuglio al cor quella favella:
il tempo, il loco, dell'aurette il fiato,
l'amor, la giovinezza, e più la bella,
de' suoi desiri il foco han già destato.
Smontano entrambi, e posano su quella
gentil verdura l'un dell'altro a lato,
poi colgono de' baci e poi de' fiori,
de' nuovi baci ancora e nuovi ardori.
VIII. Il dio dell'armi e Venere a diletto
vagando per lo ciel mai non miraro
del lor guardo divin più degno obbietto,
né più dolce spettacolo e più caro:
mezzo ascose nei boschi, a tanto affetto
fecer plauso le Ninfe e sospiraro;
e le colombe e i passeri loquaci
preser l'esempio e raddoppiaro i baci.
IX. Sorgea nel bosco istesso una chiesetta,
ospizio della morte atro e ferale,
ove l'antivigilia in arca eletta
aveano di Sandò sepolto il frale.
Tre preti in cotta feano strazio in fretta
di De profundis, mentre al funerale
Tirconello assistea per affezione
verso il defunto e non per devozione.
X. Stato egli era a Sandò nella milizia
fratello d'arme, e avea com'esso il core
fiero, superbo e lordo di nequizia,
né conoscea di lacrime e d'amore;
e un avanzo serbando d'amicizia
per Giovanni Sandò, nel suo furore
giurò che la vendetta ne farà,
XI. Visti dal finestrino al praticello
pascere i due destrier, quell'arrogante
lascia i divini uffizi, e nel più bello
converte verso lor ratte le piante.
Alzan questi le groppe a Tirconello,
e riedono alla grotta ove l'amante
coppia a' suoi dolci furti s'abbandona,
tutta a sé sola, e non vedea persona.
XII. Tirconello, la cui mente feroce
del prossimo il piacer non può patire,
fe' un ringhio a quella vista, e ad alta voce
gridò: – Profani, olà, ch'è questo ardire?
Nell'impuro desìo che il cor vi cuoce,
così venite, o vili, a insolentire
degli eroi sulla tomba? È questo il loco
da baciarsi e dar sfogo al vostro foco?
XIII. Feccia di corte infame, allor che spento
cade un inglese, ad un bel modo in vero
tu festeggi sì raro avvenimento!
Parlo teco, villano cavaliero:
sei tu la cui vil mano a tradimento
ha messo a morte così gran guerriero?
Tu guardi la tua donna e non rispondi?
Segno che ti conosci e ti confondi. –
XIV. – Non son io, non fu mia sì bella gloria,
disse Trimuglio: Iddio guida il valore
e a suo senno dispon della vittoria.
Pugnai seco qual debbe un uom d'onore:
ma i giorni di Sandò spense e la boria
una man più felice: ed io, signore,
potrei qui forse l'arroganza adesso
di tal altro punir nel modo istesso. –
XV. Come vento che pria con fresche penne
increspa sussurrando al mar la faccia,
poi sorge e mugge e rompe sàrte e antenne
e di spavento i naviganti agghiaccia:
tal, poiché l'ire e quindi e quinci venne
e li orgogli a scaldar quella minaccia,
si sfidàr fieramente, e a rio duello
discesero Trimuglio e Tirconello.
XVI. Son senz'elmo amendue, senza lorica:
Trimuglio avea tra' fiori alla verzura
gittato accanto alla sua dolce amica
spada, asta, usbergo e tutta l'armatura,
per comodo maggiore: il ver si dica,
tutta questa pesante vestitura
a che serve in amor? Quanto all'Inglese,
ei sempre andar solea sotto l'arnese:
XVII. ma per raro accidente avea lasciato
quel dì ne la cappella il suo cimiero,
il suo lucente panzeron dorato
e i braccialetti in man d'uno scudiero.
Non ha che un largo cinto a cui legato
pende il brando. Lo trasse il cavaliero:
e adirato Trimuglio come lampo
raccoglie il suo da terra, e salta in campo.
XVIII. E – Aspetta, grida, aspetta, inglese mostro,
e vedrai che si merta un mascalzone
che, fingendo di dire il paternostro,
vien d'amore a turbar la funzione. –
Dice e incalza. Fu tale il caso vostro,
Paride e Menelao, quando Ilione
venir vi vide a rio duel, presente
la bella greca infida e indifferente.
XIX. Ma non già tal fu Dorotea, che il cielo,
l'antro, il bosco di grida empiendo viene.
D'amor la fiamma e della téma il gelo
sì forte mai non le agitàr le vene.
– Qui dunque, dove l'ombra prestò il velo
a' miei diletti, perderò il mio bene?
Ferma, Trimuglio mio! qui l'ire appaga,
barbaro Inglese, e questo seno impiaga. –
XX. Corre, così dicendo, e con ardenti
sguardi le braccia e 'l bianco petto ardito
fra le spade interpon dei combattenti.
Già del suo caro il seno era ferito,
né lievemente. Ma qual fiamma ai vènti,
dalla piaga Trimuglio infellonito,
sul nimico si scaglia, e tanta è l'ira,
che starsi in mezzo Dorotea non mira.
XXI. Oh colpo! oh al suo signor brando infedele!
qual sarà l'alma che ben senta amore,
e il pianto a' versi miei neghi crudele?
Ah dolor che va sopra ogni dolore!
Degli amanti il più bello, il più fedele
della sua donna, ahimé, trafitto ha il core,
quel cor che l'adorava: ella spirante
cade, e chiama cadendo il caro amante.
XXII. Già l'occupa la morte; già vien meno
del cor la forza, e al guardo il dì s'oscura:
ella del sole all'ultimo baleno
i pesanti occhi riaprir procura,
e, con debile man toccando il seno
del suo Trimuglio, eterno amor gli giura:
poi dell'ultimo spirto fa richiamo,
e muore in queste voci: – Io t'amo, io t'amo. –
XXIII. Né già Trimuglio la sentì, ché cinto
di morte in braccio a Dorotea si stava;
e, tutto quanto del suo sangue tinto,
non udìa, non vedea, non favellava.
L'orrendo e pio spettacolo, il cor vinto,
agghiacciato d'orror, l'altro mirava
con attonite luci, in tutto casso
di movimento e indifferente a un sasso.
XXIV. Tal è fama che Atlante, al quale invano
chiese il figlio di Giove ospizio e tetto,
rupe divenne, quando all'inumano
della Gorgon fu móstro il sacro aspetto.
Ma la dolce pietà, che di sua mano
natura pose in fondo all'uman petto
onde li orgogli temperarne e l'ire,
a quell'alma crudel si fe' sentire.
XXV. Soccorrendo l'esangue Dorotea,
pon mente a due ritratti in miniatura
che la meschina in ogni tempo avea
seco serbati con attenta cura.
L'uno è Trimuglio, e al guardo lo dicea
l'occhio azzurro e la chioma biondoscura;
fiero e dolce è il suo viso, e in un felice
misto la grazia coll'ardir s'addice.
XXVI. – Volto non v'ha d'amor più degno al mondo, –
disse il Breton col guardo a quel ritratto:
ma qual rimase allor che nel secondo
sé medesmo mirò tratto per tratto?
Mira, stupisce, e in sé cogitabondo
si ricorda che, avendo un tempo fatto
un viaggio a Milano, avea d'amore
punto alla bella Carminetta il core.
XXVII. E che di là facendo dipartita
dopo alcun mese, e lei lasciando piena,
diede all'amante dama, onde addolcita
di quel duro partir fosse la pena,
questo ritratto, che la man perita
del Bellino dipinse in pergamena.
Ella, ohimé, poi di Dorotea fu madre,
e Tirconello, ahi Tirconello, è il padre!
XXVIII. Egli era freddo, altero, indifferente,
ma di cuor buono in fondo e generoso.
Quando in alme siffatte entra il pungente
strale del duolo, va più dentro ascoso
che in anima vulgar, troppo al torrente
esposta degli affetti. Più ritroso
s'infoca il ferro che la canna lieve,
ma forte in quello, e mite in questa e breve.
XXIX. Vede il fiero al suo pie' morta la figlia,
la vede, la contempla; e alfin s'affaccia
il primo pianto in copia alle sue ciglia,
che dell'amata estinta empie la faccia.
Freme, bestemmia, e con furor si piglia
il cadavere caro infra le braccia;
e maledetto con la guerra il fato,
cade alfin senza voce e senza fiato.
XXX. Aprì gli occhi Trimuglio a quelle grida,
vide il dì, detestollo; e, in un baleno
ritirando il crudel ferro omicida
che trafiggeva l'adorato seno,
ne pianta l'elsa al suolo, al cor ne guida
la punta, vi si versa a corpo pieno,
sull'amata e le spira a fior di bocca.
XXXI. Al doloroso orribile lamento
che mandò Tirconel, corre una schiera
di scudieri, di preti, e di spavento
gli empì la vista lagrimosa e fiera.
Quelle tigri devote in tal momento
sentìr pietate anch'esse, e, se non era
l'aita lor, seguìto avrìa quel forte
l'anime innamorate oltre la morte.
XXXII. Di quel crudo accidente alfin avendo
l'orror calmato, e più severa e chiara
ne' suoi discorsi la ragion sentendo,
fe' di canne formar tosto una bara;
sovr'essa, incarco in un pietoso e orrendo,
posàr la coppia sventurata e cara:
e quindi al campo la portàr segreti,
la via bagnando del lor pianto, i preti.
XXXIII. Tirconello, che in tutto è violento,
prese tosto partito. Anima dura,
detestò dopo questo avvenimento
e moglie e figli e tutta la natura.
Licenzia i servi, cavalca un giumento
di Barberìa, e con pupilla oscura,
con petto afflitto e senza mai parlare,
vola a Parigi e da Parigi al mare.
XXXIV. Imbarcasi a Calais, va al suo paese;
e colà si fa frate di san Bruno,
il ciel mettendo, come il duol lo prese,
fra il mondo e sé, né più vedendo alcuno;
vide appena sé stesso, e non attese
che al cilicio alla frusta ed al digiuno.
Visse sempre in silenzio e in orazione,
ma senza gustar mai la devozione.
XXXV. Come re Carlo, Agnese e la Pulcella
vider passar la pompa dolorosa,
e quella coppia, un dì sì lieta e bella,
or di polve coperta e sanguinosa,
senza moto restàr, senza favella,
per lo spavento, quasi morta cosa:
poi la pietà del pianto i fonti aperse,
e tutti gli occhi in lagrime converse.
XXXVI. Si pianse meno in Troja Ettore estinto,
allor che Achille, vincitor modesto,
sì dolcemente il trasse, i piedi avvinto,
il capo penzolone e tutto pesto,
spingendo il carro d'un bel rosso tinto
sovra un monte di morti in modo onesto:
ivi si pianse men, perché la sposa
pur sopravvisse: e ciò fu qualche cosa.
XXXVII. La bella Agnese intanto al sen tremante
stringesi il re che le piangea sul petto,
e mesta gli dicea: – Mio caro amante,
forse noi pure un dì nel cataletto
sarem portati in modo somigliante
all'altro mondo. Oh tristo un cotal letto!
Ah che l'anima mia, come il mio seno,
sia per sempre alla vostra unita almeno! –
XXXVIII. A siffatto parlar, che al cor la vile
paura infonde e la tristezza molle,
Giovanna, preso il tuon fiero e maschile,
lingua verace d'un ardir che bolle,
disse: – Non è con musica sottile
di bei singhiozzi e piagnistei da folle,
che noi quest'ombre vendicar dovremo,
ma coll'armi: e diman le prenderemo.
XXXIX. Mirate, o re, mirate d'Orleano
gli assediati bastioni. I campi intorno
fuman di sangue che la vostra mano,
la vostra mano ha sparso l'altro giorno.
Armatevi, seguite il vostro piano;
ché il resto, vel dich'io, non vale un corno.
Questo è tutto che all'ombra insanguinata
di Trimuglio si debbe e dell'amata.
XL. Vinca un re valoroso e non sospiri,
se il suo dover conosce e non minchiona.
Lungi, Agnese gentil, lungi i deliri
d'un'alma troppo delicata e buona.
La bella Agnese al suo fedele ispiri
sensi più degni della sua corona. –
– Ah dite bene, Agnese rispondea,
ma lasciatemi piangere. – E piangea.