François-Marie Arouet de Voltaire
La pulcella d'Orléans

CANTO VENTESIMO

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CANTO VENTESIMO

 

 

ARGOMENTO.

 

Un diavolo nel corpo entra al somaro,

che si presenta di Giovanna al letto,

e con temerità che non ha paro,

le favella d'amor. Pria con dispetto

ella ascolta l'audace; alfin discaro

più non le torna l'asinino affetto.

Ma san Dionigi, che lor veglia a lato,

la storna in tempo da sì gran peccato.

 

 

I. L'uomo e la donna è fragil cosa, e matto

chi alla virtù s'affida. Ella è un bel vaso,

ma di creta composto, che ad un tratto

si rompe, appena che vi accosti il naso.

Può racconciarsi, è ver, ma dopo il fatto

difficile è l'impresa e raro il caso;

e custodirlo poi con gelosia

senza macchiarlo è un sogno in fede mia.

II. Dico ch'è un sogno, e che nessun v'arriva.

Ne sia d'Eva il marito testimone,

e il buon vecchio, che Sodoma fuggiva,

e l'accecato povero Sansone,

e quel santo Davidde, e quella viva

fonte di sapienza Salomone,

e tu principalmente, o sesso amabile,

sesso dolce e gentil, ma sempre instabile.

III. Tanto il vecchio che il nuovo testamento,

tanto l'istoria che la poesia,

confermano il mio detto. Io senza stento,

devoto sesso, ti perdonerìa

i tuoi raggiri, i tuoi capricci e cento

dolci artifizi; ma in coscienza mia

certi casi vi son, donne mie care,

e certi gusti che non so scusare.

IV. Per esempio, vedute io v'ho sovente

con la bamboccia o la bertuccia in letto,

grassa, bigia, pelosa, impertinente,

ma carezzata più d'un giovinetto.

Me ne duole per voi sinceramente

e pei vostri bei corpi, e, a dirlo schietto,

credo più vi convegna un ciuccio alato

che un ciuccio in toga o un damerin sgarbato.

V. Donne adorate, a cui consacro i versi

di che la Musa m'onorò cortese,

per vostro bene è tempo da sapersi

l'error che di Giovanna al cor s'apprese,

e come un bel somaro per diversi

modi un momento la ragion le offese;

non son io, ma il dottor Tritemo istesso,

quel saggio abate, che vi parla adesso.

VI. Quel dannato figliuol di san Francesco,

il terribile padre Grisbordone,

arrostito, e bollito, e ognor più fresco,

bestemmiando cercava occasione

di e scuoter bene il pèsco

all'altera Giovanna, che al ghiottone

netto reciso con un colpo giusto

il tosato occipizio avea dal busto.

VII. Gridava a Belzebù: – Ma, padre mio,

tu dunque indurre in qualche gran peccato

questa Pulcella non potrai? Per Dio,

se ti scappa, tu sei disonorato. –

Così parlava borbottando il rio,

quando giunse rabbioso e inopinato

Ermafrodito al margo d'Acheronte

ancor coll'acqua benedetta in fronte.

VIII. Questo anfibio animal, per vendicarsi,

indrizzossi egli pure a Belzebù.

Eccoli dunque tutti e tre legarsi

contro una donna. Oimé, che per lo più

non occorre cotanto affaticarsi,

per sedur d'una donna la virtù!

Da qualche tempo tutti e tre sapeano

qual è il palladio che rapir doveano.

IX. Sapean che ascosa sotto il gonnellino

costei la chiave d'Orleàn tenea,

e che di Francia afflitta il gran destino

tutto da quel giojello dipendea.

Il diavolo fu sempre astuto e fino:

corse dunque a veder che si facea

dagl'Inglesi, e lo stato in cui pur era

di spirto e corpo la fatal guerriera.

X. Bonifazio, Bonel, Giovanna, Agnese,

l'asino, il Re, il Bastardo eran tornati

vèr' la notte del forte alle difese,

aspettando rinforzi: gli assediati

riparavan la breccia; il campo inglese

tutti i suoi corpi avea già ritirati;

di quei di ciascuno alle sue tende

fa la sua cena in fretta e sonno prende.

XI. Muse, tremate dello strano eccesso

che ai posteri narrar debbe il mio canto,

e voi, lettori, ne' cui petti ha messo

di Dio la grazia un amor puro e santo,

imparate saggezza, e con sommesso

muto giudizio ringraziate intanto

Dionigi e Dunoè, se consumato

non fu del tutto così gran peccato.

XII. Io v'ho promesso di cantar gli amori

di questo nuovo Pègaso orecchiuto

che or sotto questo or quel fece stupori,

e fu di regi e di donzelle ajuto.

Sull'ale di celesti aurei colori,

portar l'avete in Lombardia veduto

il gran Bastardo: al par di lui famoso

ei ne tornò, ma ne tornò geloso.

XIII. Sapete che, portando l'Eroina,

sentì nel cor svegliarsi una scintilla

di quella elementar fiamma divina

che viva più che dolce arde e sfavilla;

che l'aria i monti i boschi e la marina

scorre, accende, feconda, e sempre brilla,

creatrice de' mondi, anima e vita

universale eterna ed infinita.

XIV. Questo raggio divin, di che restato

è qualche saggio in questo esausto mondo,

del Sol fu tolto al carro ed innestato

nell'uom primiero con saper profondo.

Questo raggio dappoi s'è logorato,

invilito, smarrito, e il moribondo

di natura vigor nei nostri cuori

più non produce che imperfetti amori.

XV. Se vive tuttavia qualche fiammella

di questo foco, se ne resta ancora

qualche germe felice, entro la stella

nol cercar della Dea che Pafo adora;

non cercarlo in Urania e in tutta quella

filza di fole che la Grecia onora.

Corri in Arcadia e cercalo nel seno

del famoso corsier del buon Sileno.

XVI. Leggiadri cicisbei, che, incatenati

di fior, languite appiè del caro obbietto,

duchi, marchesi, monsignori, abati,

amanti in toga e militar corsetto,

genti di mondo, consiglieri e frati,

foste di quelli ancor del cordonetto

di san Francesco, non venite al paro

in materia d'amor col mio somaro.

XVII. L'asino d'oro, in tanto onor salito

per la sua metamorfosi famosa,

non s'avvicina al mio neppur d'un dito.

Ei non fu ch'uomo, e questo è poca cosa.

Tritemo, ingegno saggio e più erudito

del pedante Larchet, sì paurosa

ebbe la man, la mente a questo passo,

che veramente diventò di sasso.

XVIII. Mandar dovendo ad ogni età futura

di questo eccesso la memoria ingrata,

stentò co' suoi tre diti a tener dura

sopra il foglio la penna spaventata.

Infatti gli cascò per la paura

quattro volte: ma l'anima turbata

alfin rassicurò, facendo mente

quanto il diavolo sia tristo e potente.

XIX. Questo rival di Dio, questo gran padre

del peccato, che fa la professione

di tentator, si sa con che leggiadre

arti dell'alme in signoria si pone;

si sa ch'egli la nostra cara madre

già sedusse una sera in un cantone

del giardino, ed in serpe convertito,

mangiar le fece il pomo proibito.

XX. Si vuol che peggio le facesse ancora.

Basta, la sciocca fu cacciata in bando

dal paradiso, e il diavol da quell'ora

ci va le mogli e i figli governando.

Il buon Tritemo, che il ver dice ognora,

n'ha visto più d'un caso memorando.

Ecco come il grand'uom, tutto decenza,

narra del santo ubino l'insolenza.

XXI. La paffuta Giovanna, a cui del volto

già rinfrescate il sonno avea le rose,

fra' suoi lenzuoli nel pensier raccolto

di sua vita volgea le strane cose:

il giovin core, lusingato molto

più del dover di tante opre famose,

senza darne a Dionigi alcuna gloria,

ne concepì in segreto un po' di boria.

XXII. Potete immaginar come scontento

restò il Santo di simile albagìa.

A punirla, pensò per un momento

lasciarla de' suoi sensi alla balìa.

L'ama, e vuol che per proprio esperimento

sappia cosa in sé stessa ella si sia,

e che una donna in tutti i luoghi e l'ore

per ben condursi uop'ha d'un protettore.

XXIII. Poco dunque le manca che non cada

nell'orribile insidia che le tese

Satana. Quando si va fuor di strada,

più che non vuolsi ancor si fa paese.

Il tristo tentator, che a tutto bada,

prende il suo tempo: ei sempre bene il prese.

Pel cul si ficca del somaro e gli entra

destramente nel corpo e vi s'inventra.

XXIV. Gli forma e spirto e lingua e la rozzezza

gli addolcisce del tuon rauco e gagliardo.

Ogni grazia gl'insegna, ogni finezza

dell'arte di Nasone e di Bernardo.

L'asino illuminato la cavezza

rompe ad ogni pudor; senza riguardo

lascia la stalla e a pie' del letto monta,

ove Giovanna le sue storie conta.

XXV. Bassa le orecchie, va pian piano, e poi

dolcemente s'accoscia accanto ad ella;

la loda di aver vinti i primi eroi,

d'esser invitta, e soprattutto bella!

Così il gran serpe il ch'Eva ne' suoi

inganni fe' cascar, la vanerella

prima adulò con voci lusinghiere.

Del lodar l'arte è l'arte del piacere.

XXVI. – Cielo! dove son io? che cosa sento?

gridò Giovanna stupefatta allora.

È questo il mio somaro? oh gran portento!

Per Dio ch'ei parla, e parla bene ancora! –

L'asino, componendo il portamento,

e stando ginocchion, senza dimora

le fece su lo stil del Massiglione

il seguente bellissimo sermone:

XXVII. – Giovanna d'Arco, quello che vedete,

non è prestigio. L'asino saputo

di Canaano in me riconoscete.

Pria dal vecchio Balam fui mantenuto.

Balamo fra i pagani era un gran prete,

io giudeo: il padron, senza il mio ajuto,

quel popol santo maledetto avrìa,

di che un mal grande nato ne sarìa.

XXVIII. Adonai mi fu grato, e diemmi in dono

a Enocco; Enocco immortal vita avea:

ebbi altrettanto, ed il padron mio buono

fece decreto che la Parca rea

rispettasse i miei , ch'eterno or sono.

Fece ancora di più: quanto io sapea

desiar, m'accordò senza contrasto:

ma comandommi, oimé! di viver casto.

XXIX. Per un somaro d'ogni dote adorno

qual divieto! Il pensier mi fa terrore.

Giovine sciolto in così bel soggiorno,

di tutto quanto io dunque era signore;

dritto avea di far tutto e notte e giorno,

tutto tutto, meschin! fuor che l'amore.

Obbedii meglio che il primier buon uomo,

che perdé frutto per mangiarsi il pomo.

XXX. Misi la briglia all'arroganza, al foco

della parte inferior, giunsi a domare

il mio temperamento a poco a poco,

e vergin vissi senza mai peccare.

Sapete come? In così santo loco

per mia sorte non v'erano somare.

Così passai, contento del mio stato,

più di mill'anni in dolce celibato.

XXXI. Quando Bacco portò tirsi ed allori

e buon vino sul Gange, a questo dio

servii di tromba, e gl'Indi adoratori

cantano ancor festosi il valor mio.

Di quanti lo seguìr duchi e signori,

i più nomati siam Sileno ed io.

E ad Apulejo chi fe' tanto onore?

Il mio nome, i miei fasti, il mio valore.

XXXII. Quando alfine su in ciel Giorgio, quel santo

così nimico dell'onor francese,

quel Giorgio che la guerra ama soltanto,

cavalcar volle un bel leardo inglese;

quando Martin, famoso pel suo manto,

un superbo cavallo anch'ei si prese;

Dionigi, che quant'essi in ciel figura,

volle anch'egli la sua cavalcatura.

XXXIII. Mi scelse, mi chiamò, d'ali mi cinse.

Volai del cielo sulle vòlte aurate,

ove il can di san Rocco mi distinse,

e il porco caro a sant'Antonio abbate

in perfetta amistà meco si strinse,

celeste porco emblema d'ogni frate.

Con striglie d'oro il signor mio strigliommi,

e di nèttare e ambrosia ubbriacommi.

XXXIV. Ma di vitabella il paragone

non s'accosta, o Giovanna, alla dolcezza

che mi scorre la schiena e il pettignone,

quando contemplo in voi tanta vaghezza.

Il porco, il cane e Giorgio e il mio padrone

non vagliono la vostra alta bellezza.

Credete soprattutto che di quante

cariche il cielo m'onorò costante,

XXXV. la più cara e beata, e al mio disegno

e al mio cor più conforme, e di cui sono,

se non m'inganno, il più d'ogni altro degno,

è di portarvi sulla groppa in trono.

Quando per voi lasciai l'empireo regno,

io mi crebbi d'onor: ma che ragiono?

No che il cielo peranco io non lasciai;

ancor vi sono, egli è ne' vostri rai. –

XXXVI. All'ardito parlar Giovanna in core

una giusta sentissi alta indignanza.

Dovrà un asino amar, dargli il suo fiore?

una tanta soffrir disonoranza,

dopo aver salvo il virginal suo fiore

dai mulattieri e dagli eroi di Franza?

dopo aver con la grazia che vien d'alto,

Sandò deluso in quello sconcio assalto?

XXXVII. Ma qual asino, oh Dio! Come vestita

di pregi ha l'alma e culta la favella!

Non val egli la capra favorita

d'un calabrese che di fior l'abbella?

– No, no, lunge, poi dice inorridita,

lunge la fantasia che mi martella! –

Tutti questi pensier facean tempesta

nel suo gran core e confondean la testa.

XXXVIII. Tal, quando guerreggiata è la marina

dal soffio boreal, dall'affricano,

vien battuta una nave che cammina

per Sumatra, Bengala o Ceilano;

or la vedi alle stelle andar vicina,

or gettarsi tra' scogli, e l'oceano

per inghiottirla una vorago aprire,

su cui poi sembra dall'inferno uscire.

XXXIX. Il maligno fanciul, che gl'immortali

e gli uomini e i somari al par conquide,

coll'arco in man librandosi sull'ali,

guarda intanto Giovanna e dolce ride.

Ella infatti, allorché sì strane e tali

di sua beltà le conseguenze vide

sui rozzi sensi d'almavillana,

se n' compiacea, né tanto alla lontana.

XL. Stende la grassa man verso l'amante

senza pensarvi, e tosto la ritira

rossa in volto, pentita e palpitante,

e poi si rassicura e poi sospira.

Gli dice alfin: – Bell'asino galante,

vana è la speme che nel cor vi gira:

è una chimera: pregovi d'avere

rispetto alla mia gloria e al mio dovere.

XLI. Troppo, oh troppo distanti son tra loro

le nostre specie; né approvar poss'io

codesta vostra tenerezza in foro

conscientiae. Adunque fate punto: addio. –

– L'amore eguaglia tutto, o mio tesoro,

l'asino replicò: forse in oblio

ponete il cigno a cui Leda fa festa

senza punto cessar d'essere onesta?

XLII. E di Minosse conoscete voi

la moglie? Anch'ella d'un bel toro ardea,

e pospose di Creta i primi eroi

a un amator che quattro piedi avea.

Ganimede, il più bel de' tempi suoi,

d'un aquilon fu moglie. E che facea

quella Filira madre di Chirone?

Concedea le sue grazie a uno stallone. –

XLIII. Seguìa parlando, e il diavol, che primiero

la favola inventò, gli suggerìa

esempi così forti, che il somiero

uno de' più gran dotti comparìa.

Mentre parla con tanto magistero,

il gran Bastardo, che vicin dormìa,

si sveglia, e stupefatto ascolta quella

stringente eloquentissima favella.

XLIV. Conoscer brama l'orator rivale,

entra improvviso, ed (oh portento!) vede

dei lunghi orecchi il portator brutale;

lo guarda, e il fissa, e a gli occhi suoi non crede.

Si confuse Giovanna, e restò quale

Venere allor che nella rete diede

del cornuto Vulcan, che tutta nuda

sotto Marte agli dèi mostrò la druda.

XLV. Ma Giovanna non cade, ché nascosto

la soccorre Dionigi, e al gran peccato

l'involò, la sostenne, sì che tosto

tornò in sé stessa col pensier sdegnato.

Tal da sonno talor còlto al suo posto

svegliasi al primo allarme un buon soldato,

frega gli occhi, in pie' salta, armasi in fretta,

e sul nemico con gran cor si getta.

XLVI. Di Dèbora alla lancia, a cui non puote

regger forza infernal, stesa la mano,

nell'asino il demonio ella percuote.

Dunoè lo randella, e non fa piano.

Raglia il percosso, e alle tremende note

trema Nante e Blois, trema Orleano;

e sul medesmo tuono arditi e chiari

del Poitù rispondono i somari.

XLVII. Satana fugge, ma di sé vendetta,

e degl'Inglesi, in cor volge e travasa.

Vola dentro Orlean come saetta,

e dritto va del Presidente in casa.

Ivi in corpo alla moglie il rio si getta,

certo di governar quell'alma invasa.

Questo è antico possesso: ei già sapea

l'occulto mal che inferma la tenea.

XLVIII. Sa ch'arde per Talbò di fiamma impura:

quindi il Serpe vecchion segretamente

la dirige, l'incende, e s'assecura

ch'ella potrà dar tutto, e mano e mente,

a introdur d'Orleano entro le mura

l'adorato Talbò con la sua gente.

Facendo per gl'Inglesi, a cui s'è stretto,

sa che fa per sé stesso il maledetto!

 

 

NOTE AL CANTO VENTESIMO

 

Ottava XVII, v. 5-6:

Pietro Enrico Larcher, che soltanto nella Pulcella il Voltaire chiama Larchet, nato a Digione nel 1726, morto a Parigi nel 1812, coltivò le discipline storiche e filosofiche. Instigato da alcuni preti del collegio Mazarino (dov'egli pure insegnava), diede alle stampe, col titolo di Supplemento alla filosofia della storia, uno scritto in confutazione della Filosofia della storia del Voltaire; il quale gli rispose con l'opuscolo intitolato la Difesa di mio zio, che fa parte delle Miscellanee storiche.

Ottava XXIV, v. 3-4:

Il Bernard, autore dell'opera Castore e Polluce, e di alcune poesie leggère, scrisse, come Ovidio, un'Arte d'amare.


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