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I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio
Un diavolo nel corpo entra al somaro,
che si presenta di Giovanna al letto,
e con temerità che non ha paro,
le favella d'amor. Pria con dispetto
ella ascolta l'audace; alfin discaro
più non le torna l'asinino affetto.
Ma san Dionigi, che lor veglia a lato,
la storna in tempo da sì gran peccato.
I. L'uomo e la donna è fragil cosa, e matto
chi alla virtù s'affida. Ella è un bel vaso,
ma di creta composto, che ad un tratto
si rompe, appena che vi accosti il naso.
Può racconciarsi, è ver, ma dopo il fatto
difficile è l'impresa e raro il caso;
e custodirlo poi con gelosia
senza macchiarlo è un sogno in fede mia.
II. Dico ch'è un sogno, e che nessun v'arriva.
Ne sia d'Eva il marito testimone,
e il buon vecchio, che Sodoma fuggiva,
e quel santo Davidde, e quella viva
e tu principalmente, o sesso amabile,
sesso dolce e gentil, ma sempre instabile.
III. Tanto il vecchio che il nuovo testamento,
tanto l'istoria che la poesia,
confermano il mio detto. Io senza stento,
devoto sesso, ti perdonerìa
i tuoi raggiri, i tuoi capricci e cento
dolci artifizi; ma in coscienza mia
certi casi vi son, donne mie care,
e certi gusti che non so scusare.
IV. Per esempio, vedute io v'ho sovente
con la bamboccia o la bertuccia in letto,
grassa, bigia, pelosa, impertinente,
ma carezzata più d'un giovinetto.
Me ne duole per voi sinceramente
e pei vostri bei corpi, e, a dirlo schietto,
credo più vi convegna un ciuccio alato
che un ciuccio in toga o un damerin sgarbato.
V. Donne adorate, a cui consacro i versi
di che la Musa m'onorò cortese,
per vostro bene è tempo da sapersi
l'error che di Giovanna al cor s'apprese,
e come un bel somaro per diversi
modi un momento la ragion le offese;
non son io, ma il dottor Tritemo istesso,
quel saggio abate, che vi parla adesso.
VI. Quel dannato figliuol di san Francesco,
il terribile padre Grisbordone,
arrostito, e bollito, e ognor più fresco,
bestemmiando cercava occasione
di vendicarsi e scuoter bene il pèsco
all'altera Giovanna, che al ghiottone
netto reciso con un colpo giusto
il tosato occipizio avea dal busto.
VII. Gridava a Belzebù: – Ma, padre mio,
tu dunque indurre in qualche gran peccato
questa Pulcella non potrai? Per Dio,
se ti scappa, tu sei disonorato. –
Così parlava borbottando il rio,
quando giunse rabbioso e inopinato
Ermafrodito al margo d'Acheronte
ancor coll'acqua benedetta in fronte.
VIII. Questo anfibio animal, per vendicarsi,
indrizzossi egli pure a Belzebù.
Eccoli dunque tutti e tre legarsi
contro una donna. Oimé, che per lo più
non occorre cotanto affaticarsi,
per sedur d'una donna la virtù!
Da qualche tempo tutti e tre sapeano
qual è il palladio che rapir doveano.
IX. Sapean che ascosa sotto il gonnellino
costei la chiave d'Orleàn tenea,
e che di Francia afflitta il gran destino
tutto da quel giojello dipendea.
Il diavolo fu sempre astuto e fino:
corse dunque a veder che si facea
dagl'Inglesi, e lo stato in cui pur era
di spirto e corpo la fatal guerriera.
X. Bonifazio, Bonel, Giovanna, Agnese,
l'asino, il Re, il Bastardo eran tornati
vèr' la notte del forte alle difese,
aspettando rinforzi: gli assediati
riparavan la breccia; il campo inglese
tutti i suoi corpi avea già ritirati;
di quei di là ciascuno alle sue tende
fa la sua cena in fretta e sonno prende.
XI. Muse, tremate dello strano eccesso
che ai posteri narrar debbe il mio canto,
e voi, lettori, ne' cui petti ha messo
di Dio la grazia un amor puro e santo,
imparate saggezza, e con sommesso
muto giudizio ringraziate intanto
non fu del tutto così gran peccato.
XII. Io v'ho promesso di cantar gli amori
di questo nuovo Pègaso orecchiuto
che or sotto questo or quel fece stupori,
e fu di regi e di donzelle ajuto.
Sull'ale di celesti aurei colori,
portar l'avete in Lombardia veduto
il gran Bastardo: al par di lui famoso
ei ne tornò, ma ne tornò geloso.
XIII. Sapete che, portando l'Eroina,
sentì nel cor svegliarsi una scintilla
di quella elementar fiamma divina
che viva più che dolce arde e sfavilla;
che l'aria i monti i boschi e la marina
scorre, accende, feconda, e sempre brilla,
creatrice de' mondi, anima e vita
universale eterna ed infinita.
XIV. Questo raggio divin, di che restato
è qualche saggio in questo esausto mondo,
del Sol fu tolto al carro ed innestato
nell'uom primiero con saper profondo.
Questo raggio dappoi s'è logorato,
invilito, smarrito, e il moribondo
di natura vigor nei nostri cuori
più non produce che imperfetti amori.
XV. Se vive tuttavia qualche fiammella
di questo foco, se ne resta ancora
qualche germe felice, entro la stella
nol cercar della Dea che Pafo adora;
non cercarlo in Urania e in tutta quella
filza di fole che la Grecia onora.
Corri in Arcadia e cercalo nel seno
del famoso corsier del buon Sileno.
XVI. Leggiadri cicisbei, che, incatenati
di fior, languite appiè del caro obbietto,
duchi, marchesi, monsignori, abati,
amanti in toga e militar corsetto,
genti di mondo, consiglieri e frati,
foste di quelli ancor del cordonetto
di san Francesco, non venite al paro
in materia d'amor col mio somaro.
XVII. L'asino d'oro, in tanto onor salito
per la sua metamorfosi famosa,
non s'avvicina al mio neppur d'un dito.
Ei non fu ch'uomo, e questo è poca cosa.
Tritemo, ingegno saggio e più erudito
del pedante Larchet, sì paurosa
ebbe la man, la mente a questo passo,
che veramente diventò di sasso.
XVIII. Mandar dovendo ad ogni età futura
di questo eccesso la memoria ingrata,
stentò co' suoi tre diti a tener dura
sopra il foglio la penna spaventata.
Infatti gli cascò per la paura
quattro volte: ma l'anima turbata
alfin rassicurò, facendo mente
quanto il diavolo sia tristo e potente.
XIX. Questo rival di Dio, questo gran padre
del peccato, che fa la professione
di tentator, si sa con che leggiadre
arti dell'alme in signoria si pone;
si sa ch'egli la nostra cara madre
già sedusse una sera in un cantone
del giardino, ed in serpe convertito,
mangiar le fece il pomo proibito.
XX. Si vuol che peggio le facesse ancora.
Basta, la sciocca fu cacciata in bando
dal paradiso, e il diavol da quell'ora
ci va le mogli e i figli governando.
Il buon Tritemo, che il ver dice ognora,
n'ha visto più d'un caso memorando.
Ecco come il grand'uom, tutto decenza,
narra del santo ubino l'insolenza.
XXI. La paffuta Giovanna, a cui del volto
già rinfrescate il sonno avea le rose,
fra' suoi lenzuoli nel pensier raccolto
di sua vita volgea le strane cose:
il giovin core, lusingato molto
più del dover di tante opre famose,
senza darne a Dionigi alcuna gloria,
ne concepì in segreto un po' di boria.
XXII. Potete immaginar come scontento
restò il Santo di simile albagìa.
A punirla, pensò per un momento
lasciarla de' suoi sensi alla balìa.
L'ama, e vuol che per proprio esperimento
sappia cosa in sé stessa ella si sia,
e che una donna in tutti i luoghi e l'ore
per ben condursi uop'ha d'un protettore.
XXIII. Poco dunque le manca che non cada
nell'orribile insidia che le tese
Satana. Quando si va fuor di strada,
più che non vuolsi ancor si fa paese.
Il tristo tentator, che a tutto bada,
prende il suo tempo: ei sempre bene il prese.
Pel cul si ficca del somaro e gli entra
destramente nel corpo e vi s'inventra.
XXIV. Gli forma e spirto e lingua e la rozzezza
gli addolcisce del tuon rauco e gagliardo.
Ogni grazia gl'insegna, ogni finezza
dell'arte di Nasone e di Bernardo.
L'asino illuminato la cavezza
rompe ad ogni pudor; senza riguardo
lascia la stalla e a pie' del letto monta,
ove Giovanna le sue storie conta.
XXV. Bassa le orecchie, va pian piano, e poi
dolcemente s'accoscia accanto ad ella;
la loda di aver vinti i primi eroi,
d'esser invitta, e soprattutto bella!
Così il gran serpe il dì ch'Eva ne' suoi
inganni fe' cascar, la vanerella
prima adulò con voci lusinghiere.
Del lodar l'arte è l'arte del piacere.
XXVI. – Cielo! dove son io? che cosa sento?
gridò Giovanna stupefatta allora.
È questo il mio somaro? oh gran portento!
Per Dio ch'ei parla, e parla bene ancora! –
L'asino, componendo il portamento,
e stando ginocchion, senza dimora
le fece su lo stil del Massiglione
il seguente bellissimo sermone:
XXVII. – Giovanna d'Arco, quello che vedete,
non è prestigio. L'asino saputo
di Canaano in me riconoscete.
Pria dal vecchio Balam fui mantenuto.
Balamo fra i pagani era un gran prete,
io giudeo: il padron, senza il mio ajuto,
quel popol santo maledetto avrìa,
di che un mal grande nato ne sarìa.
XXVIII. Adonai mi fu grato, e diemmi in dono
a Enocco; Enocco immortal vita avea:
ebbi altrettanto, ed il padron mio buono
rispettasse i miei dì, ch'eterno or sono.
Fece ancora di più: quanto io sapea
desiar, m'accordò senza contrasto:
ma comandommi, oimé! di viver casto.
XXIX. Per un somaro d'ogni dote adorno
qual divieto! Il pensier mi fa terrore.
Giovine sciolto in così bel soggiorno,
di tutto quanto io dunque era signore;
dritto avea di far tutto e notte e giorno,
tutto tutto, meschin! fuor che l'amore.
Obbedii meglio che il primier buon uomo,
che perdé frutto per mangiarsi il pomo.
XXX. Misi la briglia all'arroganza, al foco
della parte inferior, giunsi a domare
il mio temperamento a poco a poco,
e vergin vissi senza mai peccare.
Sapete come? In così santo loco
per mia sorte non v'erano somare.
Così passai, contento del mio stato,
più di mill'anni in dolce celibato.
XXXI. Quando Bacco portò tirsi ed allori
e buon vino sul Gange, a questo dio
servii di tromba, e gl'Indi adoratori
cantano ancor festosi il valor mio.
Di quanti lo seguìr duchi e signori,
i più nomati siam Sileno ed io.
E ad Apulejo chi fe' tanto onore?
Il mio nome, i miei fasti, il mio valore.
XXXII. Quando alfine su in ciel Giorgio, quel santo
così nimico dell'onor francese,
quel Giorgio che la guerra ama soltanto,
cavalcar volle un bel leardo inglese;
quando Martin, famoso pel suo manto,
un superbo cavallo anch'ei si prese;
Dionigi, che quant'essi in ciel figura,
volle anch'egli la sua cavalcatura.
XXXIII. Mi scelse, mi chiamò, d'ali mi cinse.
Volai del cielo sulle vòlte aurate,
ove il can di san Rocco mi distinse,
e il porco caro a sant'Antonio abbate
in perfetta amistà meco si strinse,
celeste porco emblema d'ogni frate.
Con striglie d'oro il signor mio strigliommi,
e di nèttare e ambrosia ubbriacommi.
XXXIV. Ma di vita sì bella il paragone
non s'accosta, o Giovanna, alla dolcezza
che mi scorre la schiena e il pettignone,
quando contemplo in voi tanta vaghezza.
Il porco, il cane e Giorgio e il mio padrone
non vagliono la vostra alta bellezza.
Credete soprattutto che di quante
cariche il cielo m'onorò costante,
XXXV. la più cara e beata, e al mio disegno
e al mio cor più conforme, e di cui sono,
se non m'inganno, il più d'ogni altro degno,
è di portarvi sulla groppa in trono.
Quando per voi lasciai l'empireo regno,
io mi crebbi d'onor: ma che ragiono?
No che il cielo peranco io non lasciai;
ancor vi sono, egli è ne' vostri rai. –
XXXVI. All'ardito parlar Giovanna in core
una giusta sentissi alta indignanza.
Dovrà un asino amar, dargli il suo fiore?
una tanta soffrir disonoranza,
dopo aver salvo il virginal suo fiore
dai mulattieri e dagli eroi di Franza?
dopo aver con la grazia che vien d'alto,
Sandò deluso in quello sconcio assalto?
XXXVII. Ma qual asino, oh Dio! Come vestita
di pregi ha l'alma e culta la favella!
Non val egli la capra favorita
d'un calabrese che di fior l'abbella?
– No, no, lunge, poi dice inorridita,
lunge la fantasia che mi martella! –
Tutti questi pensier facean tempesta
nel suo gran core e confondean la testa.
XXXVIII. Tal, quando guerreggiata è la marina
dal soffio boreal, dall'affricano,
vien battuta una nave che cammina
per Sumatra, Bengala o Ceilano;
or la vedi alle stelle andar vicina,
or gettarsi tra' scogli, e l'oceano
per inghiottirla una vorago aprire,
su cui poi sembra dall'inferno uscire.
XXXIX. Il maligno fanciul, che gl'immortali
e gli uomini e i somari al par conquide,
coll'arco in man librandosi sull'ali,
guarda intanto Giovanna e dolce ride.
Ella infatti, allorché sì strane e tali
di sua beltà le conseguenze vide
sui rozzi sensi d'alma sì villana,
se n' compiacea, né tanto alla lontana.
XL. Stende la grassa man verso l'amante
senza pensarvi, e tosto la ritira
rossa in volto, pentita e palpitante,
e poi si rassicura e poi sospira.
Gli dice alfin: – Bell'asino galante,
vana è la speme che nel cor vi gira:
è una chimera: pregovi d'avere
rispetto alla mia gloria e al mio dovere.
XLI. Troppo, oh troppo distanti son tra loro
le nostre specie; né approvar poss'io
codesta vostra tenerezza in foro
conscientiae. Adunque fate punto: addio. –
– L'amore eguaglia tutto, o mio tesoro,
l'asino replicò: forse in oblio
ponete il cigno a cui Leda fa festa
senza punto cessar d'essere onesta?
XLII. E di Minosse conoscete voi
la moglie? Anch'ella d'un bel toro ardea,
e pospose di Creta i primi eroi
a un amator che quattro piedi avea.
Ganimede, il più bel de' tempi suoi,
d'un aquilon fu moglie. E che facea
quella Filira madre di Chirone?
Concedea le sue grazie a uno stallone. –
XLIII. Seguìa parlando, e il diavol, che primiero
la favola inventò, gli suggerìa
esempi così forti, che il somiero
uno de' più gran dotti comparìa.
Mentre parla con tanto magistero,
il gran Bastardo, che vicin dormìa,
si sveglia, e stupefatto ascolta quella
stringente eloquentissima favella.
XLIV. Conoscer brama l'orator rivale,
entra improvviso, ed (oh portento!) vede
dei lunghi orecchi il portator brutale;
lo guarda, e il fissa, e a gli occhi suoi non crede.
Si confuse Giovanna, e restò quale
Venere allor che nella rete diede
del cornuto Vulcan, che tutta nuda
sotto Marte agli dèi mostrò la druda.
XLV. Ma Giovanna non cade, ché nascosto
la soccorre Dionigi, e al gran peccato
l'involò, la sostenne, sì che tosto
tornò in sé stessa col pensier sdegnato.
Tal da sonno talor còlto al suo posto
svegliasi al primo allarme un buon soldato,
frega gli occhi, in pie' salta, armasi in fretta,
e sul nemico con gran cor si getta.
XLVI. Di Dèbora alla lancia, a cui non puote
regger forza infernal, stesa la mano,
nell'asino il demonio ella percuote.
Dunoè lo randella, e non fa piano.
Raglia il percosso, e alle tremende note
trema Nante e Blois, trema Orleano;
e sul medesmo tuono arditi e chiari
del Poitù rispondono i somari.
XLVII. Satana fugge, ma di sé vendetta,
e degl'Inglesi, in cor volge e travasa.
Vola dentro Orlean come saetta,
e dritto va del Presidente in casa.
Ivi in corpo alla moglie il rio si getta,
certo di governar quell'alma invasa.
Questo è antico possesso: ei già sapea
l'occulto mal che inferma la tenea.
XLVIII. Sa ch'arde per Talbò di fiamma impura:
quindi il Serpe vecchion segretamente
la dirige, l'incende, e s'assecura
ch'ella potrà dar tutto, e mano e mente,
a introdur d'Orleano entro le mura
l'adorato Talbò con la sua gente.
Facendo per gl'Inglesi, a cui s'è stretto,
sa che fa per sé stesso il maledetto!
Pietro Enrico Larcher, che soltanto nella Pulcella il Voltaire chiama Larchet, nato a Digione nel 1726, morto a Parigi nel 1812, coltivò le discipline storiche e filosofiche. Instigato da alcuni preti del collegio Mazarino (dov'egli pure insegnava), diede alle stampe, col titolo di Supplemento alla filosofia della storia, uno scritto in confutazione della Filosofia della storia del Voltaire; il quale gli rispose con l'opuscolo intitolato la Difesa di mio zio, che fa parte delle Miscellanee storiche.
Il Bernard, autore dell'opera Castore e Polluce, e di alcune poesie leggère, scrisse, come Ovidio, un'Arte d'amare.