François-Marie Arouet de Voltaire
La pulcella d'Orléans

CANTO VENTUNESIMO

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CANTO VENTUNESIMO

 

 

ARGOMENTO.

 

Si scoprono a vicenda il loro affetto

Giovanna e Dunoè; ma pur la cosa

pensano differir per buon rispetto.

La moglie di Louvet con amorosa

lettera invita il gran Talbò nel letto;

e preso è in Orleano. Alfin la rosa

fin qui non tocca Dunoè disfiora.

Grida Capocchio ch'è pulcella ancora.

 

 

I. Sa il mio lettor per sana esperienza

che il bel dio, che fanciul piangon le genti,

e i cui giochi son d'alta intelligenza,

ha due turcassi affatto differenti.

Nell'uno ha dardi, la cui punta è senza

duolo e periglio, e dolce entrar la senti:

cresce col tempo e lascia una ferita

che non uccide il cor, ma gli vita.

II. Son gli altri dardi un foco che divora,

che nel medesmo istante entra e consuma,

strugge i sensi al meschin che s'innamora,

e d'un vivo incarnato il volto alluma.

Una vita novella l'accalora,

d'un nuovo sangue il corpo avvampa e fuma.

Non riflette, non ode, e le pupille,

specchio dell'alma, gettano scintille.

III. L'onda, che al foco lentamente bolle

e dentro il vaso in modo strano e vago

corre, fugge, combatte, e alfin s'estolle

sugli orli, e casca, e al suol fa spuma e lago;

quest'onda, che s'infuria e che par folle,

non è che smorta ed imperfetta imago

di quel foco d'amor di ch'io ragiono,

quando accese talor l'alme ne sono.

IV. Scrittor profani, che l'onor la gloria

macchiato avete della mia Pulcella,

falsificando la sua casta istoria,

voi dite, o vili, che la gran donzella,

la ragion tenebrata e la memoria,

arse d'amor pel suo ronzino, e ch'ella

male assai combatté: questo è un espresso

villano insulto alla virtù del sesso.

V. Infami di bugie compilatori,

più rispetto alle dame, e più non dite

che Giovanna soggiacque: in questi errori

nessun dotto è caduto, e voi mentite,

voi confondete e fatti e tempi e amori,

e i portenti più bei prostituite.

Voi calunniate il mio ronzino, alfine,

e l'inclite sue gesta peregrine.

VI. Rispettatelo. Voi gli alti talenti

non possedete d'animalraro,

ben più lunghe le orecchie. In quei momenti,

se a Giovanna il suo amor non fu discaro,

s'ella mirò con paghi occhi contenti

del suo viso il poter sopra il somaro,

fu vanità, che al sesso si perdona,

fu amor proprio, non quel che sì mal suona.

VII. Per alfin porre in tutto il suo splendore

di Giovanna la gloria immaculata,

per provar che del nero tentatore

alla fina malizia inaspettata,

e ai trasporti dell'asino oratore

invitta e salda la bell'alma è stata;

sappiate, che Giovanna in quell'istante

già sospirava per un altro amante.

VIII. Egli era, come dissi in altro loco,

il gran Bastardo, e queste non son fole.

Si può talor per divertirsi un poco

d'un asino ascoltar quattro parole,

desiar di sentir così per gioco

dirsi talor: – Mia vita, o mio bel sole; –

ma tal capriccio innocente e leggero

non tradisce un amor casto e sincero.

IX. Gli è un fatto nell'istoria incontrastato

che questo gran Bastardo, eroe perfetto,

d'un'aurea freccia si sentì piagato

che Amor tirò dal suo turcasso eletto;

ma, signor di sé stesso ed elevato,

mai nel sen non ammise un basso affetto.

La prima legge che nel cor s'impresse,

fu del regno e del re l'alto interesse.

X. Ei sa che di Giovanna il pulcellaggio

è il palladio di Francia, e che sta sotto

a quel fior la vittoria; onde da saggio

digiuna e astiensi da bocconghiotto:

pari a un bracco fedele e di coraggio,

che, benché molto dalla fame indótto,

pur, resistendo all'appetito, in bocca

tien la grassa pernice e non la tocca.

XI. Ma come vide che il divin somaro

avea fatta la sua dichiarazione,

parlò il Bastardo anch'esso, e parlò chiaro:

il tacer sempre è sempre da minchione.

Per altro è una pazzia che non ha paro,

alla patria anteporre la passione;

e Dunoè mi scusi, ché dovea

considerar che tutto si perdea.

XII. Giovanna, che ancor tutta è vergognosa

d'aver sofferta la proposta ardita

d'un orecchiuto, non parea ritrosa

a quella d'un eroe che dolce invita.

Amor spronava l'alma virtuosa

terribilmente: insomma era finita,

se il santo protettor, pietoso e saggio,

non spiccava dall'alto il suo bel raggio.

XIII. Quel raggio d'òr, già sua cavalcatura,

del suo nimbo divin parte più bella,

che portò la beata sua figura

quando in traccia fra noi d'una zitella

d'Orleano discese entro le mura,

questo raggio nel seno alla Pulcella

drittamente ferendo, ogni profano

vil sentimento ne mandò lontano.

XIV. – Bastardo mio, diss'ella, ah lo sapete,

non è tempo; è fatale il nostro amore.

Non guastiamo il destin: voi solo avete

la mia fede, e voi sol n'avrete il fiore:

ma col vostro gran braccio in pria dovete

cacciar di Francia l'anglo usurpatore.

Aspettiam questo, e allor, dolce mia speme,

sovra gli allori corcheremci insieme. –

XV. Il Bastardo calmossi ai saggi accenti

e rimise il poledro in scuderia:

ella n'accolse i puri sentimenti

con gran modestia, e poi, per garanzia,

trenta baci gli die' casti e prudenti,

quai la sorella al suo fratel darìa.

L'uno e l'altra al desio la briglia pose,

e onestamente differìr le cose.

XVI. Ne fu pago Dionigi, e divisò

di dar l'ultimo effetto al suo gran piano.

Dovea la notte stessa il fier Talbò

per stratagemma entrare in Orleano.

Una simile impresa era però

straniera all'albagìa d'un anglicano.

Eran gl'Inglesi allor teste sensate,

ma più ardite d'assai che sdoganate.

XVII. Oh Amore! Oh potente debolezza!

tu fosti ancor per consegnare

al nimico breton questa fortezza

che ridotto l'aveva al disperare.

Ciò che né di Bedfort l'alta accortezza,

né il valor di Talbò potér mai fare,

tu l'imprendesti, Amor; tu opprimi e uccidi,

crudo e caro fanciullo, e poi sorridi.

XVIII. Se Amor nel corso de' suoi fatti immensi

sfiorò a Giovanna il cor con innocente

dardo, ben altro poi ne' cinque sensi

ne vibrò della nostra presidente.

Ei ferilla con un di quelli accensi

ferrei dardi che tolgono la mente.

Voi visto avete superar lo spalto

l'orrenda cannonata, il fiero assalto,

XIX. e le zuffe, e le molte uccisioni

che seguìr dentro e fuor con varii effetti,

quando il crudo Talbò co' fier Bretoni,

atterrate le porte e i parapetti,

ruinar vide addosso a' suoi campioni

dalle mura dagli argini e dai tetti

l'armi il foco la morte: tutto questo

già sentiste, lettori; udite il resto.

XX. Penetrava Talbò sulle calcate

teste nella città con franco passo,

fulminando e gridando: – Inglesi, entrate:

abbasso l'armi, cittadini, abbasso! –

Marte, che sotto le sue gran pedate

scoscende il mondo, fa minor fracasso

quando il braccio di morte esecutore

gli arma Bellona il Fato ed il Furore.

XXI. La Presidente nella casa avea

presso un muro dirùto un'apertura

da cui l'amante contemplar godea;

quell'elmo, quella testa alta e sicura,

quella destra, que' lampi che mettea

dalle pupille, e tutta la figura

che par d'un nume: e n'era la carogna

di cervello spogliata e di vergogna.

XXII. Tale in altra stagion per una grata

madama Audon, guatando il commediante

celebrato Baron, tutta infiammata

ne divorava il signoril sembiante,

l'andamento, il gestir, la profumata

capigliatura e l'abito elegante,

e tra sé ne imitava i cari accenti,

tutti aperti ad amore i sentimenti.

XXIII. Era il demonio (ve 'l ricorderete),

senza niente rendersi importuno,

già entrato in corpo alla Louvet: sapete

che il diavolo e l'amore egli è tutt'uno.

Or dunque, come quel che sempre ha sete

di nuocere, che fe' l'angelo bruno?

Prese il volto e la cuffia di Sufona,

serva antica di casa e donzellona.

XXIV. Avea costei un sacco di virtù;

cameriera, massaja, atta per tre

a far gli affari, ad intrigar; di più

eccellente ruffiana, a segno che

spesso a un tempo allestia due rendez-vous,

uno per la padrona, uno per sé.

Sotto la costei forma il tentatore

alla bella parlò di tal tenore:

XXV. – La mia capacità, la mia sincera

affezion v'è nota: io vo' servire

l'innocente amor vostro: ho la maniera

di farlo, e il desir vostro è il mio desire.

Mio cugino è di guardia questa sera

del soccorso alla porta. Ivi venire

può non veduto il vostro amante, senza

punto arrischiar la vostra convenienza.

XXVI. Scrivetegli, Madonna. Il mio cugino,

uom di senno, faravvi egregiamente

il vostro affar. – Sì disse, e a tavolino

corse senza indugiar la Presidente;

scrisse un biglietto tenero divino:

ogni parola al core ed alla mente

desire incendio e voluttà portava.

Qual maraviglia? Il diavolo dettava.

XXVII. Talbò, svelto del par che innamorato,

rescrisse che al proposto abboccamento

alla tal ora si sarìa trovato:

ma giurò che in quel dolce accampamento

per la via del piacer sarìa passato

alla gloria; e fe' tal preparamento,

che non vi fosse dal letto d'amore

che un salto a quel di Marte e dell'onore.

XXVIII. Ti sovverrai, lettor, che san Dionigi

inviò fra' Capocchio dal paese

della Sciocchezza a spargere i prestigi

del sogno e dell'error nel campo inglese:

ch'ivi furfelici i suoi servigi,

che frusta e ceppi vi buscò: cortese

Talbò lo sciolse appresso, ed ei cantava

l'officio, dicea messa e confessava.

XXIX. Talbò, che andar pel campo il lascia a zonzo

sulla parola, non avea sospetto

che un fra' Bertoldo, un imbecille, un gonzo,

un escremento di san Benedetto,

a cui le chiappe di color di bronzo

fe' far col nerbo, avrìa tanto intelletto

pur da ficcarla a un general valente:

ma il cielo la pensò diversamente.

XXX. Spesso beffarsi Iddio s'è compiaciuto

dei più gran capi ed ingannarne l'occhio:

per confondere, spesso, il più saputo

ne' suoi giudizi, ei sceglie il più batocchio.

Un baleno di spirito venuto

dal paradiso illuminò Capocchio:

del suo duro cervel la densa massa

lieve divenne e meno oscura e crassa.

XXXI. Del subitano suo discernimento

stupisce il frate. Oh caso inconcepibile!

io penso, e Dio sa il come, io penso e sento.

Ma conosch'io quella virtù invisibile

che il pensiero mi dona e il sentimento?

che più o men rende il cervel sensibile?

Conosco io bene l'atomo diverso

che fa l'ingegno or dritto ora traverso?

XXXII. Qual fibra nel suo seno ha ricevuta

la fantasia d'Omero e di Marone;

e in qual germe venefico tessuta

fu poi quella di Gianni e di Frerone?

Spunta il giglio d'accanto alla cicuta;

e nel dito di Dio che la dispone,

ne sta la causa ai nostri raggi ascosa;

e più se n' parla, più divien dubbiosa.

XXXIII. Non imitiam la lor garrulità,

e seguitiam Capocchio. Ei dunque acquista

primamente una gran curiosità,

e con profitto impiega la sua vista.

Vede verso la sera alla città

sfilar cuochi con tutta la provvista

d'un banchetto magnifico, capponi,

starne, fagian, tartufi, salsiccioni.

XXXIV. E boccioni, che in pance cesellate

fresco a ghiaccio chiudean l'almo licore,

il liquido rubin ch'alle beate

cantine di Citeaux donò il Signore.

Tutto questo in silenzio. Allora il frate

il sapere acquistò, non di dottore

della Sorbona, ma il saper leggiadro

di ben condursi in questo mondo ladro.

XXXV. In oltre diventò cauto, prudente,

accorto, saggio, parlator facondo,

gatta morta, che a tutto ponea mente

sottecchi, astuto, aggirator profondo,

cortigian consumato, e finalmente

il monaco più monaco del mondo.

Così i suoi pari in ogni tempo vanno

dalla cucina in corte a prender scanno.

XXXVI. Monarchi dei balordi e dei pezzenti,

torbidi in pace ed intriganti in guerra,

entran ne' gabinetti de' potenti,

e sconvolgono alfin tutta la terra,

or volpi, or lupi, or scimie, ora serpenti,

e tutto che di peggio il mondo serra.

Ben dunque fece il miscredente inglese,

se purgò di tal pèste il suo paese.

XXXVII. Prende Capocchio un piccolo sentiero

che al quartier regio per un bosco mena,

in sé volgendo questo gran mistero

di che tutta la testa avea ripiena.

A trovar corre il fratel bianco e nero

Bonifacio, che, mentre vien la cena,

stassi appunto nel suo pensier profondo

meditando i destin di questo mondo.

XXXVIII. L'invisibil catena egli misura

che lega i tempi, i fati e gli accidenti,

e la vita presente e la futura

e i più lievi e i più grandi avvenimenti.

Tutta in sua testa abbraccia la natura,

cause, effetti, armonie, sconvolgimenti.

Conclude alfin che un rendez-vous talora

perder può un regno e può salvarlo ancora.

XXXIX. Ricorda i gigli sovra il cul forbito

del paggio inglese; pensa che in ginocchio

già Carlo gli adorò; d'Ermafrodito

il caduto palazzo ha innanzi all'occhio.

Ciò di che maggiormente s'è stupito,

è lo spirto e il buon senso di Capocchio:

e da tutto risultagli che tutto

di questa guerra avrà Dionigi il frutto.

XL. Si fa Capocchio con gentil maniera

presentar ad Agnese in sul momento

dal confratello, e fatto, a pie' com'era,

sovra la sua bellezza un complimento,

le narra che Talbò la stessa sera

ha preso un amoroso appuntamento

alla tal porta, dove il disperato

dall'amante Louvet era aspettato.

XLI. – Lo possiam, disse, corbellar tenendo

dietro all'incanto, e còrlo nel concubito,

come un còlto fu Sanson tremendo.

Bella Agnese, portatene al re subito. –

Ed ella: – Oimé, mio caro reverendo,

siete voi di parer, come ne dubito,

che il mio re possa amarmi eternamente? –

Le rispose Capocchio: – Io non so niente.

XLII. So ch'ei va per la strada dei dannati.

Quanto a me, come frate, lo condanno;

ma, come uom, l'assolvo: oh fortunati

quei che un giorno per voi si danneranno! –

– Siete il più furbo e il più gentil de' frati: –

e tratto in un cantone il torcimanno,

– Per caso avreste voi, soggiunse Agnese,

visto il giovin Monroso al campo inglese? –

XLIII. Il frate, ch'era frate, e ancor di fresco

illuminato, subito rispose:

– L'ho veduto, ed è bel per san Francesco! –

Arrossì Agnese, chinò i rai, compose

il suo visetto, e l'animal fratesco

pria che facciansi l'ombre tenebrose,

alle stanze menò del suo sovrano,

cortesemente presolo per mano.

XLIV. E qui Capocchio tenne un sorprendente

discorso al suo buon re, che nulla intese.

Si raduna il Consiglio immantinente,

e v'assiste Giovanna in tutto arnese.

Siede in mezzo a gli eroi: discretamente,

con bella grazia intanto cuce Agnese;

e saggio ad or ad or dando ne viene

il suo parer, cui sempre il re s'attiene.

XLV. Profondamente ognun vi ragionò;

e si concluse alfin dopo gran lite

di fare alla Louvet e al gran Talbò

per le vie più segrete e più spedite

la burla che Vulcano praticò

un nel cielo a Marte e ad Afrodite.

Tutto il bisogno subito s'appresta

per tanta impresa, che vuol mano e testa.

XLVI. Il Bastardo fe' prima una girata

alla lontana, e con isforzo d'arte

una marcia eseguì saggia e studiata

qual la farìa Scipione e Bonaparte.

Tra la città poi passa e tra l'armata,

e alfin giunge alla porta il nostro Marte

nel punto che Talbò con la sua dea

i primi frutti dell'amor cogliea,

XLVII. sempre sperando di non far che un passo

dal letto all'armi. Una legione intera

seguitarlo dovea senza fracasso;

l'ordine è dato, ed Orleano it'era.

Ma divenuta stupida e di sasso,

tutta dormìa pel campo la sua schiera:

l'uno all'altro appoggiato con la schiena,

o sbadigliando ancor moveasi appena.

XLVIII. Era questo torpor parte l'effetto

del soverchio vegghiar, parte l'incanto

del sermon di Capocchio, e già l'ho detto.

Oh prodigio! oh poter del nostro santo!

Giovanna e Dunoè, col fiore eletto

dei cavalier che li seguian, frattanto

sotto le mura d'Orlean venièno

costeggiando il nemico terrapieno.

XLIX. Sopra un magro caval di Barberia,

l'unico che in istalla ha il re di Francia,

Giovanna con gran cor batte la via,

squassando in man di Dèbora la lancia.

Sospeso al fianco il fatal brando avìa

che al superbo Oloferne die' la mancia

tra capo e collo: allor con devozione

fe' a Dionigi fra sé quest'orazione:

L. – O tu che un nella taverna oscura

di Doremigi alla mia debil mano

ti degnasti fidar quest'armatura,

reggi il mio braccio e fa' che torni sano.

Perdonami se qualche idea non pura

i miei sensi offuscò, quando profano

il tuo celeste portator di sella

l'ardir si prese di trovarmi bella.

LI. Ti risovvenga che col braccio mio

tu castigasti, o caro protettore,

quello stuol di breton nefando e rio

che violò le spose del Signore,

cogliendo fiori consacrati a Dio.

Or si presenta un caso anco maggiore;

ma se mi manca la tua santa aita,

io non posso far nulla, ed è finita.

LII. Alla tua serva umìl la tua possente

forza deh presta; da' nemici artigli

uopo è salvar la mia patria dolente

e vendicar di Carlo i sette gigli,

e con essi l'onor del Presidente.

In porto adunque netta da perigli

guida un'impresaonorata e pia:

ti guardi Iddio la testa, e così sia. –

LIII. L'udì Dionigi dall'eterno trono,

e il suo ronzino ne sentì la pésta:

sentilla e, l'ali con allegro suono

battendo, a lei se n' vola alta la testa.

Inginocchiossi, dimandò perdono

della sua tenerezza disonesta:

– Io fui, io fui, le disse in quel momento,

dal demonio invasato, e me ne pento. –

LIV. E qui piange, e la prega a più non posso

di montarlo, né vuol ch'altri sì ardito

sia di portar la sua Giovanna in dosso.

Ved'ella ben che Dio gliel'ha spedito,

e non può non averne il cor commosso.

Dice adunque te absolvo al suo pentito;

poi lo frusta e l'esorta a far coraggio:

– Ma siate, aggiunse, più discreto e saggio. –

LV. L'asino il giura, e d'ardimento pieno,

e del suo carco altier, l'aria guadagna:

indi giù piomba a guisa di baleno,

di balen che la folgore accompagna.

Vola Giovanna, e sciolto all'ire il freno,

tutta di sangue inonda la campagna:

fère i colli nemici e ne dispaja

le teste che giù vanno a centinaja.

LVI. La luna, che crescente è quella notte,

dubbia la luce al suo ferir concede.

Attonito il Breton sente le bòtte,

alza lo sguardo, e il feritor non vede.

Fuggon per tutto sbalordite e rotte

l'avverse schiere, e con errante piede

cascano in man di Dunoè, di Carlo,

che quanto goda è vano il raccontarlo.

LVII. Gli venivano in bocca, sullo stile

di starnotti a cui dànno i can la caccia,

che poi cascan qua e sotto il fucile:

dell'asino la voce i cori agghiaccia.

La guerriera dall'alto urta le file,

incalza e fende e serra e taglia e straccia:

pari è il Bastardo, e Carlo alla sicura

tira a quelli che fuggon di paura.

LVIII. Ebbro Talbò del piacer tolto e reso

con usura alla bella Presidente,

sovra il suo petto mollemente steso,

ecco alla porta rumor d'armi sente,

ne gode, e stima dentro sé che preso

è già Orlean, che quella è la sua gente:

s'applaude di sue trame e dice in core:

– Sei tu che prendi le fortezze, Amore. –

LIX. In così dolce speme il cavaliero

il bacio di congedo, e con baldanza

lascia il letto, si veste, e nel pensiero

d'ire i suoi prodi ad incontrar, s'avanza.

Ei seco non avea ch'uno scudiero

pien di fede, d'ardir, di vigilanza,

che pronta gli tenea l'asta e il mantello,

di sì galante eroe degno donzello.

LX. – Entrate, amici miei, vostro è Orleano; –

grida Talbò: ma la sua gioja è corta;

ché non gli amici, ma coll'asta in mano

fulminando Giovanna è sulla porta

con dugento de' nostri. L'Anglicano

freme a tal vista e fa la guancia smorta.

Entrano i buon' Francesi, e dal piacere

gridano: – Viva il re, presto, da bere!

LXI. Avanzate, correte, a me guasconi,

a me piccardi, sacrédieu, qua, gente!

Niente quartier, coraggio, ecco i Bretoni:

tira, ammazza, da bravo, egregiamente! –

Talbò, che l'avea fatta entro i calzoni,

tanta fu la sorpresa, finalmente

ricordossi ch'è inglese, ardir riprende,

e contrasta la porta e si difende.

LXII. Tal nella patria sua conversa in cenere,

tra le fiamme e le morti, combattea

lordo di sangue il pio figliuol di Venere,

e sopra il vinto il vincitor stendea.

Talbò, che tutto in ira ha l'uman genere,

pugna più furibondo anco d'Enea:

lo scudier lo seconda, e sostien solo

questo par di guerrier tutto uno stuolo.

LXIII. Or si slancia di fronte, or, schiena a schiena,

il torrente respinge inondatore.

Nei valorosi esausta alfin la lena,

cede ai Franchi un trofeo privo d'onore.

Talbò s'arrende, ma par vinto appena:

vinto è il vigor del corpo, e non del core.

E l'Eroina e il gran Bastardo a gara

onoràr la virtù d'almarara.

LXIV. Quindi amendue n'andàr dal Presidente

a riportargli in guise accorte e buone

la sua bagascia, ch'egli lietamente

si ricevette senza sospicione.

Son casi in cui non sanno mai niente

i mariti di garbo: il buon caprone

ignorò sempre che la sua mogliera

fe' la salvezza della Francia intera.

LXV. Con animi diversi in ciel frattanto

san Dionigi ridea, Giorgio fremea,

e l'asino intonava il fiero canto

che lo spavento de' Breton crescea.

Il re Carlo, che dopo un sudor tanto

la gloria conseguì, qual si dovea,

di gran conquistator, da buon sovrano,

con Agnese dormì dentro Orleano.

LXVI. La stessa notte ancor la bellicosa

Giovanna, al cielo rimandato avendo

l'orecchiuto volante, ed amorosa

del giuramento suo le leggi empiendo,

in braccio a Dunoè finì la cosa;

mentre Capocchio, tuttavia correndo

misto ai soldati in questa parte e in quella,

ancor gridava: – Inglesi, ell'è pulcella! –

 

 

NOTE AL CANTO VENTUNESIMO

 

Ottava XXII, v. 1-4:

Il nome di madama Audon è sostituito a quello di una gran dama della Corte, che di fatto si era incapriccita del comico Baron.

Ottava XXXII, v. 4:

Terza frustata del Monti all'improvvisatore Gianni.

 


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