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CANTO VENTUNESIMO | «» |
I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio
Si scoprono a vicenda il loro affetto
Giovanna e Dunoè; ma pur la cosa
pensano differir per buon rispetto.
La moglie di Louvet con amorosa
lettera invita il gran Talbò nel letto;
e preso è in Orleano. Alfin la rosa
fin qui non tocca Dunoè disfiora.
Grida Capocchio ch'è pulcella ancora.
I. Sa il mio lettor per sana esperienza
che il bel dio, che fanciul piangon le genti,
e i cui giochi son d'alta intelligenza,
ha due turcassi affatto differenti.
Nell'uno ha dardi, la cui punta è senza
duolo e periglio, e dolce entrar la senti:
cresce col tempo e lascia una ferita
che non uccide il cor, ma gli dà vita.
II. Son gli altri dardi un foco che divora,
che nel medesmo istante entra e consuma,
strugge i sensi al meschin che s'innamora,
e d'un vivo incarnato il volto alluma.
d'un nuovo sangue il corpo avvampa e fuma.
Non riflette, non ode, e le pupille,
specchio dell'alma, gettano scintille.
III. L'onda, che al foco lentamente bolle
e dentro il vaso in modo strano e vago
corre, fugge, combatte, e alfin s'estolle
sugli orli, e casca, e al suol fa spuma e lago;
quest'onda, che s'infuria e che par folle,
non è che smorta ed imperfetta imago
di quel foco d'amor di ch'io ragiono,
quando accese talor l'alme ne sono.
IV. Scrittor profani, che l'onor la gloria
macchiato avete della mia Pulcella,
falsificando la sua casta istoria,
voi dite, o vili, che la gran donzella,
la ragion tenebrata e la memoria,
arse d'amor pel suo ronzino, e ch'ella
male assai combatté: questo è un espresso
villano insulto alla virtù del sesso.
V. Infami di bugie compilatori,
più rispetto alle dame, e più non dite
che Giovanna soggiacque: in questi errori
nessun dotto è caduto, e voi mentite,
voi confondete e fatti e tempi e amori,
e i portenti più bei prostituite.
Voi calunniate il mio ronzino, alfine,
e l'inclite sue gesta peregrine.
VI. Rispettatelo. Voi gli alti talenti
non possedete d'animal sì raro,
ben più lunghe le orecchie. In quei momenti,
se a Giovanna il suo amor non fu discaro,
s'ella mirò con paghi occhi contenti
del suo viso il poter sopra il somaro,
fu vanità, che al sesso si perdona,
fu amor proprio, non quel che sì mal suona.
VII. Per alfin porre in tutto il suo splendore
di Giovanna la gloria immaculata,
per provar che del nero tentatore
alla fina malizia inaspettata,
e ai trasporti dell'asino oratore
invitta e salda la bell'alma è stata;
sappiate, che Giovanna in quell'istante
già sospirava per un altro amante.
VIII. Egli era, come dissi in altro loco,
il gran Bastardo, e queste non son fole.
Si può talor per divertirsi un poco
d'un asino ascoltar quattro parole,
desiar di sentir così per gioco
dirsi talor: – Mia vita, o mio bel sole; –
ma tal capriccio innocente e leggero
non tradisce un amor casto e sincero.
IX. Gli è un fatto nell'istoria incontrastato
che questo gran Bastardo, eroe perfetto,
d'un'aurea freccia si sentì piagato
che Amor tirò dal suo turcasso eletto;
ma, signor di sé stesso ed elevato,
mai nel sen non ammise un basso affetto.
La prima legge che nel cor s'impresse,
fu del regno e del re l'alto interesse.
X. Ei sa che di Giovanna il pulcellaggio
è il palladio di Francia, e che sta sotto
a quel fior la vittoria; onde da saggio
digiuna e astiensi da boccon sì ghiotto:
pari a un bracco fedele e di coraggio,
che, benché molto dalla fame indótto,
pur, resistendo all'appetito, in bocca
tien la grassa pernice e non la tocca.
XI. Ma come vide che il divin somaro
avea fatta la sua dichiarazione,
parlò il Bastardo anch'esso, e parlò chiaro:
il tacer sempre è sempre da minchione.
Per altro è una pazzia che non ha paro,
alla patria anteporre la passione;
considerar che tutto si perdea.
XII. Giovanna, che ancor tutta è vergognosa
d'aver sofferta la proposta ardita
d'un orecchiuto, non parea ritrosa
a quella d'un eroe che dolce invita.
terribilmente: insomma era finita,
se il santo protettor, pietoso e saggio,
non spiccava dall'alto il suo bel raggio.
XIII. Quel raggio d'òr, già sua cavalcatura,
del suo nimbo divin parte più bella,
quando in traccia fra noi d'una zitella
d'Orleano discese entro le mura,
questo raggio nel seno alla Pulcella
drittamente ferendo, ogni profano
vil sentimento ne mandò lontano.
XIV. – Bastardo mio, diss'ella, ah lo sapete,
non è tempo; è fatale il nostro amore.
Non guastiamo il destin: voi solo avete
la mia fede, e voi sol n'avrete il fiore:
ma col vostro gran braccio in pria dovete
cacciar di Francia l'anglo usurpatore.
Aspettiam questo, e allor, dolce mia speme,
sovra gli allori corcheremci insieme. –
XV. Il Bastardo calmossi ai saggi accenti
e rimise il poledro in scuderia:
ella n'accolse i puri sentimenti
con gran modestia, e poi, per garanzia,
trenta baci gli die' casti e prudenti,
quai la sorella al suo fratel darìa.
L'uno e l'altra al desio la briglia pose,
e onestamente differìr le cose.
XVI. Ne fu pago Dionigi, e divisò
di dar l'ultimo effetto al suo gran piano.
Dovea la notte stessa il fier Talbò
per stratagemma entrare in Orleano.
straniera all'albagìa d'un anglicano.
Eran gl'Inglesi allor teste sensate,
ma più ardite d'assai che sdoganate.
XVII. Oh Amore! Oh potente debolezza!
tu fosti ancor lì lì per consegnare
al nimico breton questa fortezza
che ridotto l'aveva al disperare.
Ciò che né di Bedfort l'alta accortezza,
né il valor di Talbò potér mai fare,
tu l'imprendesti, Amor; tu opprimi e uccidi,
crudo e caro fanciullo, e poi sorridi.
XVIII. Se Amor nel corso de' suoi fatti immensi
sfiorò a Giovanna il cor con innocente
dardo, ben altro poi ne' cinque sensi
ne vibrò della nostra presidente.
Ei ferilla con un di quelli accensi
ferrei dardi che tolgono la mente.
Voi visto avete superar lo spalto
l'orrenda cannonata, il fiero assalto,
XIX. e le zuffe, e le molte uccisioni
che seguìr dentro e fuor con varii effetti,
quando il crudo Talbò co' fier Bretoni,
atterrate le porte e i parapetti,
ruinar vide addosso a' suoi campioni
dalle mura dagli argini e dai tetti
l'armi il foco la morte: tutto questo
già sentiste, lettori; udite il resto.
XX. Penetrava Talbò sulle calcate
teste nella città con franco passo,
fulminando e gridando: – Inglesi, entrate:
abbasso l'armi, cittadini, abbasso! –
Marte, che sotto le sue gran pedate
scoscende il mondo, fa minor fracasso
quando il braccio di morte esecutore
gli arma Bellona il Fato ed il Furore.
XXI. La Presidente nella casa avea
presso un muro dirùto un'apertura
da cui l'amante contemplar godea;
quell'elmo, quella testa alta e sicura,
quella destra, que' lampi che mettea
dalle pupille, e tutta la figura
che par d'un nume: e n'era la carogna
di cervello spogliata e di vergogna.
XXII. Tale in altra stagion per una grata
madama Audon, guatando il commediante
celebrato Baron, tutta infiammata
ne divorava il signoril sembiante,
l'andamento, il gestir, la profumata
capigliatura e l'abito elegante,
e tra sé ne imitava i cari accenti,
tutti aperti ad amore i sentimenti.
XXIII. Era il demonio (ve 'l ricorderete),
senza niente rendersi importuno,
già entrato in corpo alla Louvet: sapete
che il diavolo e l'amore egli è tutt'uno.
Or dunque, come quel che sempre ha sete
di nuocere, che fe' l'angelo bruno?
Prese il volto e la cuffia di Sufona,
serva antica di casa e donzellona.
XXIV. Avea costei un sacco di virtù;
cameriera, massaja, atta per tre
a far gli affari, ad intrigar; di più
eccellente ruffiana, a segno che
spesso a un tempo allestia due rendez-vous,
uno per la padrona, uno per sé.
Sotto la costei forma il tentatore
alla bella parlò di tal tenore:
XXV. – La mia capacità, la mia sincera
affezion v'è nota: io vo' servire
l'innocente amor vostro: ho la maniera
di farlo, e il desir vostro è il mio desire.
Mio cugino è di guardia questa sera
del soccorso alla porta. Ivi venire
può non veduto il vostro amante, senza
punto arrischiar la vostra convenienza.
XXVI. Scrivetegli, Madonna. Il mio cugino,
uom di senno, faravvi egregiamente
il vostro affar. – Sì disse, e a tavolino
corse senza indugiar la Presidente;
scrisse un biglietto tenero divino:
ogni parola al core ed alla mente
desire incendio e voluttà portava.
Qual maraviglia? Il diavolo dettava.
XXVII. Talbò, svelto del par che innamorato,
rescrisse che al proposto abboccamento
alla tal ora si sarìa trovato:
ma giurò che in quel dolce accampamento
per la via del piacer sarìa passato
alla gloria; e fe' tal preparamento,
che non vi fosse dal letto d'amore
che un salto a quel di Marte e dell'onore.
XXVIII. Ti sovverrai, lettor, che san Dionigi
inviò fra' Capocchio dal paese
della Sciocchezza a spargere i prestigi
del sogno e dell'error nel campo inglese:
ch'ivi fur sì felici i suoi servigi,
che frusta e ceppi vi buscò: cortese
Talbò lo sciolse appresso, ed ei cantava
l'officio, dicea messa e confessava.
XXIX. Talbò, che andar pel campo il lascia a zonzo
sulla parola, non avea sospetto
che un fra' Bertoldo, un imbecille, un gonzo,
un escremento di san Benedetto,
a cui le chiappe di color di bronzo
fe' far col nerbo, avrìa tanto intelletto
pur da ficcarla a un general valente:
ma il cielo la pensò diversamente.
XXX. Spesso beffarsi Iddio s'è compiaciuto
dei più gran capi ed ingannarne l'occhio:
per confondere, spesso, il più saputo
ne' suoi giudizi, ei sceglie il più batocchio.
dal paradiso illuminò Capocchio:
del suo duro cervel la densa massa
lieve divenne e meno oscura e crassa.
XXXI. Del subitano suo discernimento
stupisce il frate. Oh caso inconcepibile!
io penso, e Dio sa il come, io penso e sento.
Ma conosch'io quella virtù invisibile
che il pensiero mi dona e il sentimento?
che più o men rende il cervel sensibile?
Conosco io bene l'atomo diverso
che fa l'ingegno or dritto ora traverso?
XXXII. Qual fibra nel suo seno ha ricevuta
la fantasia d'Omero e di Marone;
e in qual germe venefico tessuta
fu poi quella di Gianni e di Frerone?
Spunta il giglio d'accanto alla cicuta;
e nel dito di Dio che la dispone,
ne sta la causa ai nostri raggi ascosa;
e più se n' parla, più divien dubbiosa.
XXXIII. Non imitiam la lor garrulità,
e seguitiam Capocchio. Ei dunque acquista
primamente una gran curiosità,
e con profitto impiega la sua vista.
sfilar cuochi con tutta la provvista
d'un banchetto magnifico, capponi,
starne, fagian, tartufi, salsiccioni.
XXXIV. E boccioni, che in pance cesellate
fresco a ghiaccio chiudean l'almo licore,
il liquido rubin ch'alle beate
cantine di Citeaux donò il Signore.
Tutto questo in silenzio. Allora il frate
il sapere acquistò, non di dottore
della Sorbona, ma il saper leggiadro
di ben condursi in questo mondo ladro.
XXXV. In oltre diventò cauto, prudente,
accorto, saggio, parlator facondo,
gatta morta, che a tutto ponea mente
sottecchi, astuto, aggirator profondo,
cortigian consumato, e finalmente
il monaco più monaco del mondo.
Così i suoi pari in ogni tempo vanno
dalla cucina in corte a prender scanno.
XXXVI. Monarchi dei balordi e dei pezzenti,
torbidi in pace ed intriganti in guerra,
entran ne' gabinetti de' potenti,
e sconvolgono alfin tutta la terra,
or volpi, or lupi, or scimie, ora serpenti,
e tutto che di peggio il mondo serra.
Ben dunque fece il miscredente inglese,
se purgò di tal pèste il suo paese.
XXXVII. Prende Capocchio un piccolo sentiero
che al quartier regio per un bosco mena,
in sé volgendo questo gran mistero
di che tutta la testa avea ripiena.
A trovar corre il fratel bianco e nero
Bonifacio, che, mentre vien la cena,
stassi appunto nel suo pensier profondo
meditando i destin di questo mondo.
XXXVIII. L'invisibil catena egli misura
che lega i tempi, i fati e gli accidenti,
e la vita presente e la futura
e i più lievi e i più grandi avvenimenti.
Tutta in sua testa abbraccia la natura,
cause, effetti, armonie, sconvolgimenti.
Conclude alfin che un rendez-vous talora
perder può un regno e può salvarlo ancora.
XXXIX. Ricorda i gigli sovra il cul forbito
del paggio inglese; pensa che in ginocchio
già Carlo gli adorò; d'Ermafrodito
il caduto palazzo ha innanzi all'occhio.
Ciò di che maggiormente s'è stupito,
è lo spirto e il buon senso di Capocchio:
e da tutto risultagli che tutto
di questa guerra avrà Dionigi il frutto.
XL. Si fa Capocchio con gentil maniera
presentar ad Agnese in sul momento
dal confratello, e fatto, a pie' com'era,
sovra la sua bellezza un complimento,
le narra che Talbò la stessa sera
ha preso un amoroso appuntamento
alla tal porta, dove il disperato
dall'amante Louvet era aspettato.
XLI. – Lo possiam, disse, corbellar tenendo
dietro all'incanto, e còrlo nel concubito,
come un dì còlto fu Sanson tremendo.
Bella Agnese, portatene al re subito. –
Ed ella: – Oimé, mio caro reverendo,
siete voi di parer, come ne dubito,
che il mio re possa amarmi eternamente? –
Le rispose Capocchio: – Io non so niente.
XLII. So ch'ei va per la strada dei dannati.
Quanto a me, come frate, lo condanno;
ma, come uom, l'assolvo: oh fortunati
quei che un giorno per voi si danneranno! –
– Siete il più furbo e il più gentil de' frati: –
e tratto in un cantone il torcimanno,
– Per caso avreste voi, soggiunse Agnese,
visto il giovin Monroso al campo inglese? –
XLIII. Il frate, ch'era frate, e ancor di fresco
illuminato, subito rispose:
– L'ho veduto, ed è bel per san Francesco! –
Arrossì Agnese, chinò i rai, compose
il suo visetto, e l'animal fratesco
pria che facciansi l'ombre tenebrose,
alle stanze menò del suo sovrano,
cortesemente presolo per mano.
XLIV. E qui Capocchio tenne un sorprendente
discorso al suo buon re, che nulla intese.
Si raduna il Consiglio immantinente,
e v'assiste Giovanna in tutto arnese.
Siede in mezzo a gli eroi: discretamente,
con bella grazia intanto cuce Agnese;
e saggio ad or ad or dando ne viene
il suo parer, cui sempre il re s'attiene.
XLV. Profondamente ognun vi ragionò;
e si concluse alfin dopo gran lite
di fare alla Louvet e al gran Talbò
per le vie più segrete e più spedite
un dì nel cielo a Marte e ad Afrodite.
Tutto il bisogno subito s'appresta
per tanta impresa, che vuol mano e testa.
XLVI. Il Bastardo fe' prima una girata
alla lontana, e con isforzo d'arte
una marcia eseguì saggia e studiata
qual la farìa Scipione e Bonaparte.
Tra la città poi passa e tra l'armata,
e alfin giunge alla porta il nostro Marte
nel punto che Talbò con la sua dea
i primi frutti dell'amor cogliea,
XLVII. sempre sperando di non far che un passo
dal letto all'armi. Una legione intera
seguitarlo dovea senza fracasso;
l'ordine è dato, ed Orleano it'era.
Ma divenuta stupida e di sasso,
tutta dormìa pel campo la sua schiera:
l'uno all'altro appoggiato con la schiena,
o sbadigliando ancor moveasi appena.
XLVIII. Era questo torpor parte l'effetto
del soverchio vegghiar, parte l'incanto
del sermon di Capocchio, e già l'ho detto.
Oh prodigio! oh poter del nostro santo!
Giovanna e Dunoè, col fiore eletto
dei cavalier che li seguian, frattanto
sotto le mura d'Orlean venièno
costeggiando il nemico terrapieno.
XLIX. Sopra un magro caval di Barberia,
l'unico che in istalla ha il re di Francia,
Giovanna con gran cor batte la via,
squassando in man di Dèbora la lancia.
Sospeso al fianco il fatal brando avìa
che al superbo Oloferne die' la mancia
tra capo e collo: allor con devozione
fe' a Dionigi fra sé quest'orazione:
L. – O tu che un dì nella taverna oscura
di Doremigi alla mia debil mano
ti degnasti fidar quest'armatura,
reggi il mio braccio e fa' che torni sano.
Perdonami se qualche idea non pura
i miei sensi offuscò, quando profano
il tuo celeste portator di sella
l'ardir si prese di trovarmi bella.
LI. Ti risovvenga che col braccio mio
tu castigasti, o caro protettore,
quello stuol di breton nefando e rio
che violò le spose del Signore,
cogliendo fiori consacrati a Dio.
Or si presenta un caso anco maggiore;
ma se mi manca la tua santa aita,
io non posso far nulla, ed è finita.
LII. Alla tua serva umìl la tua possente
forza deh presta; da' nemici artigli
uopo è salvar la mia patria dolente
e vendicar di Carlo i sette gigli,
e con essi l'onor del Presidente.
In porto adunque netta da perigli
guida un'impresa sì onorata e pia:
ti guardi Iddio la testa, e così sia. –
LIII. L'udì Dionigi dall'eterno trono,
e il suo ronzino ne sentì la pésta:
sentilla e, l'ali con allegro suono
battendo, a lei se n' vola alta la testa.
Inginocchiossi, dimandò perdono
della sua tenerezza disonesta:
– Io fui, io fui, le disse in quel momento,
dal demonio invasato, e me ne pento. –
LIV. E qui piange, e la prega a più non posso
di montarlo, né vuol ch'altri sì ardito
sia di portar la sua Giovanna in dosso.
Ved'ella ben che Dio gliel'ha spedito,
e non può non averne il cor commosso.
Dice adunque te absolvo al suo pentito;
poi lo frusta e l'esorta a far coraggio:
– Ma siate, aggiunse, più discreto e saggio. –
LV. L'asino il giura, e d'ardimento pieno,
e del suo carco altier, l'aria guadagna:
indi giù piomba a guisa di baleno,
di balen che la folgore accompagna.
Vola Giovanna, e sciolto all'ire il freno,
tutta di sangue inonda la campagna:
fère i colli nemici e ne dispaja
le teste che giù vanno a centinaja.
LVI. La luna, che crescente è quella notte,
dubbia la luce al suo ferir concede.
Attonito il Breton sente le bòtte,
alza lo sguardo, e il feritor non vede.
Fuggon per tutto sbalordite e rotte
l'avverse schiere, e con errante piede
cascano in man di Dunoè, di Carlo,
che quanto goda è vano il raccontarlo.
LVII. Gli venivano in bocca, sullo stile
di starnotti a cui dànno i can la caccia,
che poi cascan qua e là sotto il fucile:
dell'asino la voce i cori agghiaccia.
La guerriera dall'alto urta le file,
incalza e fende e serra e taglia e straccia:
pari è il Bastardo, e Carlo alla sicura
tira a quelli che fuggon di paura.
LVIII. Ebbro Talbò del piacer tolto e reso
con usura alla bella Presidente,
sovra il suo petto mollemente steso,
ecco alla porta rumor d'armi sente,
ne gode, e stima dentro sé che preso
è già Orlean, che quella è la sua gente:
s'applaude di sue trame e dice in core:
– Sei tu che prendi le fortezze, Amore. –
LIX. In così dolce speme il cavaliero
dà il bacio di congedo, e con baldanza
lascia il letto, si veste, e nel pensiero
d'ire i suoi prodi ad incontrar, s'avanza.
Ei seco non avea ch'uno scudiero
pien di fede, d'ardir, di vigilanza,
che pronta gli tenea l'asta e il mantello,
di sì galante eroe degno donzello.
LX. – Entrate, amici miei, vostro è Orleano; –
grida Talbò: ma la sua gioja è corta;
ché non gli amici, ma coll'asta in mano
fulminando Giovanna è sulla porta
con dugento de' nostri. L'Anglicano
freme a tal vista e fa la guancia smorta.
Entrano i buon' Francesi, e dal piacere
gridano: – Viva il re, presto, da bere!
LXI. Avanzate, correte, a me guasconi,
a me piccardi, sacrédieu, qua, gente!
Niente quartier, coraggio, ecco i Bretoni:
tira, ammazza, da bravo, egregiamente! –
Talbò, che l'avea fatta entro i calzoni,
tanta fu la sorpresa, finalmente
ricordossi ch'è inglese, ardir riprende,
e contrasta la porta e si difende.
LXII. Tal nella patria sua conversa in cenere,
tra le fiamme e le morti, combattea
lordo di sangue il pio figliuol di Venere,
e sopra il vinto il vincitor stendea.
Talbò, che tutto in ira ha l'uman genere,
pugna più furibondo anco d'Enea:
lo scudier lo seconda, e sostien solo
questo par di guerrier tutto uno stuolo.
LXIII. Or si slancia di fronte, or, schiena a schiena,
il torrente respinge inondatore.
Nei valorosi esausta alfin la lena,
cede ai Franchi un trofeo privo d'onore.
Talbò s'arrende, ma par vinto appena:
vinto è il vigor del corpo, e non del core.
E l'Eroina e il gran Bastardo a gara
onoràr la virtù d'alma sì rara.
LXIV. Quindi amendue n'andàr dal Presidente
a riportargli in guise accorte e buone
la sua bagascia, ch'egli lietamente
si ricevette senza sospicione.
Son casi in cui non sanno mai niente
i mariti di garbo: il buon caprone
ignorò sempre che la sua mogliera
fe' la salvezza della Francia intera.
LXV. Con animi diversi in ciel frattanto
san Dionigi ridea, Giorgio fremea,
e l'asino intonava il fiero canto
che lo spavento de' Breton crescea.
Il re Carlo, che dopo un sudor tanto
la gloria conseguì, qual si dovea,
di gran conquistator, da buon sovrano,
con Agnese dormì dentro Orleano.
LXVI. La stessa notte ancor la bellicosa
Giovanna, al cielo rimandato avendo
l'orecchiuto volante, ed amorosa
del giuramento suo le leggi empiendo,
in braccio a Dunoè finì la cosa;
mentre Capocchio, tuttavia correndo
misto ai soldati in questa parte e in quella,
ancor gridava: – Inglesi, ell'è pulcella! –
NOTE AL CANTO VENTUNESIMO
Il nome di madama Audon è sostituito a quello di una gran dama della Corte, che di fatto si era incapriccita del comico Baron.
Terza frustata del Monti all'improvvisatore Gianni.
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