Lorenzo Magalotti
Relazioni di viaggio in Inghilterra, Francia e Svezia

RELAZIONE D'INGHILTERRA

<La presente costituzione d'Inghilterra>

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<La presente costituzione d'Inghilterra>

 

Il re d'Inghilterra non è nel suo Regno quel che sono ordinariamente i re e i principi ne' loro stati; anzi, egli non è nemmeno quello che vien creduto essere eziandio da coloro che nell'intelligenza di quella monarchia intendono molto avanti. Egli non è altro co' suoi sudditi che fonte di grazie e d'onore; e benché apparentemente dalle leggi fondamentali del Regno non gli sia dato con sì gran tara il titolo di monarca, facendolo arbitro della pace e della guerra e lasciandoli tutto l'arbitrio di non voler per sé e di non voler ch'altri vogliano ciò che ei non vuole, nondimeno e nell'uno e nell'altro è costretto da una legge più forte (e tutta depende dalla violenza delle congiunture) a regolare con tal discreto avvedimento l'uso di questa sua sovranità, che non può dirsi che ella risegga interamente in lui, essendo per lo meno costretto a moderarla col freno della propria circospezione, senza poterne mai abbandonare il governo all'esigenza dell'interesse o al trasporto della passione.

Due cose hanno a mio credere condotto il re nello stato presente: l'autorità suprema divisa con troppa uguaglianza tra il re e i sudditi, ed il mutamento della religione. La prima, alterando per natura della propria incompatibilità l'antico governo del Regno, lo rivoltò in tanto favore del re, che quello, per assicurarsene il possedimento, venne coll'estremo del rimedio a farlo divenir seme di nuovo male; il quale, insensibilmente aumentandosi, è ritornato nel primo stato di quel primo pericoloso equilibrio d'autorità tra il re e i sudditi, onde ogni giorno si può temere che arrivi il punto in cui cominci a operare l'ordinaria incompatibilità di questo governo. Con questa differenza però: che dove nel primo combattimento la religione militava dalla parte del re, in questo gli sarà contro; e dove prima il re vinse ed esterminò i suoi nemici con apparenza di beneficarli (onde non pensaro alla difesa se non dopo che furono affatto in terra), ora gli converrà vincere col sangue e coll'armi: e queste gliel'hanno a somministrare i suoi nemici stessi, o ha da aspettarle per merito di una saggia condotta dall'opportunità delle congiunture. E che sia il vero, le ricchezze, il seguito e la forza della nobiltà, che aveva altre volte deposto il re, fece sì gran paura ad Enrico VIII (che senza adularsi riconosceva il debole de' suoi dritti alla corona), che l'obbligò, per assicurarsene, a disunirla e distruggerla. Ciò, come ho detto, gli riuscì di fare con apparenza di benefizio: poiché, risguardando allo stato di ultima oppressione nel quale si ritrovavano i nobili, attesa la soma insopportabile degli eccessivi debiti impossibili a sodisfarsi con gli avanzi delle rendite annuali, repugnando la legge alla distrazione de' fondi, dispensò sotto specie di paterno affetto al rigore di quella; e in un tempo medesimo, coll'impoverimento dei più potenti, parte rimasti esausti dai pagamenti parte dalla divisione delle famiglie, per l'uguale scompartimento dei beni liberati dai vincoli delle primogeniture, dissipò tutte l'ombre de' suoi sospetti ed assicurò, coll'aggiunta dell'autorità mancata ne' nobili, la sussistenza di quella che, per esser troppo egualmente spartita, lo rendea mal sicuro.

Questi beni però, cominciando a poco a poco a venir nelle mani d'un'altra sfera di gente inferiore, che per la via del traffico aveva ramassato gran quantità di danaro, cominciò a risvegliare in essa qualche spirito d'ambizione; e portò la congiuntura ne' tempi susseguenti che, venendo da Scozia il re Giacomo nuovo e forestiero nel Regno, non stimò di potersi meglio assicurare che col proccurar di formarsi un nuovo partito suo dependente. Per lo che, trovando nello stato popolare molte ricchezze assodate colle compre degl'antichi fondi de' nobili, giudicandole perciò capaci d'alimentare di lustro bastevole quelle dignità che nei posseditori di esse avesse collocate, cominciò a sollevarne molti ai primi offici della corte e ai primi gradi del Regno, e ad ampliare i privilegi di già troppo cresciuti della Casa de' comuni, in discredito sempre maggiore di quella de' grandi, ridotta oramai ad un maestoso tribunale di giudicatura suprema, ma, per quel che tocca le deliberazioni importanti degli affari del Regno, spogliata d'ogni ornamento di credito o d'autorità.

Ecco per qual maniera l'estremo del rimedio, che da principio consisteva nell'abbassamento dei nobili, s'è fatto seme di nuovo male, mentre per lenti ed insensibili aumenti l'autorità, caduta tutta nelle mani del re, è andata talmente crescendo in un nuovo partito popolare, che, ritornata un'altra volta all'equilibrio, non solo ha fatto al re quel che egli aveva fatto alla nobiltà, d'abbassarla, ma l'ha distrutto e dato vita a un principio di repubblica: la quale, sebbene è morta in fasce, egli è stato perché coloro che dovevano notricarla colla propria moderazione e col disinteresse, sono stati i primi ad opprimerla e far luogo un'altra volta al re; il quale, se avesse tenuta stretta quell'autorità che nello stato fluttuante dell'Inghilterra gli cadde da principio nelle mani, non è dubbio che al presente potrebbe esser considerato anch'egli come gli altri prencipi negli stati loro. Ma l'altrui malizioso interesse lo consigliò a governarsi con tali misure, che a poco a poco quest'autorità è ritornata a spartirsi, e al d'oggi si ritrova così vicina a quella pericolosa uguaglianza, che (sì come ho detto un'altra volta) possono arrivare ad ogn'ora gli effetti solita a produrre per sua natura: mentre, essendo così necessaria l'una parte all'altra, come si son l'un all'altro il re e il parlamento, è impossibile che, trovandosi ciascuno repugnante a fornire il compagno di quell'autorità che gli manca per operar validamente ciascuno secondo le proprie esigenze, non si rendano scambievolmente intollerabili, e non si pensi da ambidue le parti a liberarsi per sempre da sì necessaria e noiosa soggezione. Quando questo avverrà è molto incerto, qual ne sia per essere l'evento, e qual parte abbia a riportare il vantaggio che per l'addietro è stato giornaliero, una volta seguendo il re contro i sudditi nobili e un'altra i sudditi popolari contro il re.

È bene infallibile anche questa parte del mio primo assunto: che questa volta il re non averà in suo favore la religione, qual'ebbe Enrico VIII, e che il partito che egli ha da vincere non è tale da abbattersi, come fu quello, con apparenza de' benefizi, ma gli converrà farlo con l'armi, il nervo delle quali essendo il danaro, di cui si trova affatto sprovveduto, bisogna che l'abbia da' suoi nemici o che, rinnovando tutte le massime della sua passata condotta, si metta in tale stato di poter senza l'aiuto di essi usar con profitto dei favori della fortuna, per quando le piacesse aprirli di quelle strade che finora non appariscono.

E che sia il vero, se si considereranno i due fondamenti più stabili per la sussistenza della monarchia, si troveranno tutti deboli e infermi. La nobiltà, come ho detto finora, è povera, manchevole e destituita d'autorità. La religione, benché quella che si professa nel Regno s'accordi meglio d'ogni altra, dopo la cattolica, colla sussistenza del re per la dependenza de' vescovi, nondimeno bisogna considerarla come una cosa immaginaria e che sussiste nel culto esterno e nell'apparenza; mentre per la condotta de' vescovi ell'è la più scandolosa ed abborrita di tutto il Regno, essendo le massime di quelli l'avidità del guadagno, la sordida tenacità del danaro, la trascuranza dell'uffizio pastorale, la sollecita applicazione per le loro cose domestiche, il fasto e la superbia, l'ipocrisia, la crapula e le lascivie, il favorir quelli del partito contrario alla loro religione e la propria sussistenza, e, sopra tutto, il riserbarsi dei beni delle lor chiese tanto terreno quanto può servire per l'ordinario consumo delle loro case, e pigliar sopra il resto tutto il danaro che trovano, dandolo a livelli eterni, per goder così dei frutti che renderanno molt'anni dopo la lor morte, con pregiudizio grandissimo dei beni della mensa e di quelli che dopo loro succederanno nel vescovado. V'è di vantaggio che fra lor medesimi son discordanti negli articoli della religione, la quale perciò diventa una cabala che non s'intende, regnando di mano in mano le credenze più conformi alla dottrina di quel vescovo che sta meglio col re. Cresce il lor odio dal vedere come negli spessi bisogni che ha il re di danaro, tutte le imposizioni si posano sui secolari, riuscendone sempre illeso, o per un verso o per l'altro, lo stato degli ecclesiastici.

Tutte queste cose fomentano nei protestanti, col disprezzo dei loro superiori, una vita licenziosa e bestiale, e una tal confusione di massime e dogmi ed opinioni, che nella gente bassa è superstizione e nella nobiltà è ateismo. L'erezione degli altari, gli abiti sacri, le musiche, gli organi, le preci molto conformi alla Chiesa Romana, le litanie, benché senza l'invocazione dei santi e le formalità delle cerimonie, sono tutto il forte di questa religione e servono nell'istesso tempo ai nemici di essa  --  che sono altresì quelli del re e gli amici delle novità e delle sedizioni  --  del più forte argumento per render persuasi i popoli del disegno che hanno i vescovi, di ricondur l'Inghilterra sotto il giogo di Roma e nelli errori dell'antica romana superstizione. Così si proccura, coll'esterminio della riforma anglicana, di metter la falce alla radice della monarchia, e ciò perché il genio avaro e superbo della nazione, in quel breve tempo di libertà, conobbe quel che sarebbe il Regno senza il re: e ricordandosi d'aver conquistata la Francia colle sole proprie forze del Regno, non può star sotto ad aver perduto tanto coll'Olanda, in una pace susseguente a una guerra in cui hanno guadagnato più battaglie che non hanno fatto i loro nemici, e ciò in un tempo che per l'affluire del traffico si posson dire assistiti dalle forze d'Asia e d'America, nonostante la profusione di un tanto tesoro dell'erario del re, dove è entrato più danaro del Regno in questi otto anni dopo il suo ritorno, che non ha fatto nei tempi di tutti i suoi antecessori.

Accade per maggior male che il partito dei presbiterani ha questo credito, d'aver qualche religione, onde le genti ignoranti gli crede; ed essendo costoro la maggior parte gente di spirito, di rigiro e di macchine, ha troppo gran vantaggi con quelli, cui l'abbandonamento all'ubriachezza <e> ai piaceri rende incapaci di difesa contro le loro arti. E di qui avviene che, quantunque il parlamento sia composto la maggior parte di protestanti, nondimeno quel piccolo partito di presbiterani occulti ci fa star talora il più forte.

La fortuna del re è stata finora che la maggior parte di costoro amano la monarchia: ma considerando essi il bisogno che il re ha di loro, e che ogn'altro parlamento che, sciolto questo, si trattasse di ragunare, sarebbe tutto presbiterano, ed il primo atto sarebbe l'abolizione del vescovado, diventano ogni più insolenti e domandano al re tali cose che, concedendole, viene insensibilmente, dall'equilibrio per se stesso abbastanza dannoso della sovrana autorità, a far traboccare la bilancia dalla parte del parlamento. Dall'altro canto, la perpetua necessità in cui egli si ritrova di danaro, lo forza miseramente a ballare al suono dei capricci di quella inquieta canaglia: per lo che è difficile l'andare innanzi senza che una parte o l'altra ne tocchi, se non s'apre qualche nuova strada che per mera necessità riduca le cose in più proporzionato temperamento.

Sono così confidenti delle lor proprie forze i presbiterani, che non diffidano con qualche tempo di tirare anche il presente parlamento all'abolizione dei vescovi; e credo che la loro speranza si fondi sulla considerazione che, crescendo giornalmente il loro partito, quando sarà a segno formidabile, niuno dei parlamentarii averà renitenza ad abbandonare una religione che essi anche presentemente non credono. Così si ritroverebbe il re un altro parlamento con aver sempre mantenuto l'istesso; e a questo risico non può negarsi che egli non sia sottoposto, e che l'insussistenza della religione protestante non renda in qualche parte fondate le speranze dei presbiterani, ai quali, secondo che cresce il loro partito, non è dubbio che s'accresceranno ancora le migliori teste del Regno. Perché le religioni in Inghilterra non tengono molto attaccati gli spiriti, e dove questo freno non opera ciascuno ama naturalmente di mettersi da quel partito che si vede venir su in speranza di credito e d'autorità.

Presentemente (che non può domandarsi la soppressione dei vescovi perché il re e il parlamento si domanderebbon fra di loro la soppressione della religione che professano e che giurarono solennemente) si mette in campo, in quello scambio, l'atto della comprensione, che importa, oltre alla libertà delle coscienze, l'esercizio libero d'ogni altra setta, se pur la sola religion cattolica (com'è verisimile) non restasse esclusa. Non è dubbio ch'e' era <...> di proporre il negozio l'istesso giorno che egli v'entrò: ragunatosi di buonissim'ora, passò un atto dirittamente contrario a questo disegno; onde il re, intesa abbastanza l'inclinazione degli animi, non venne al cimento. Non per questo disperano i presbiterani di poter fare il colpo, ben sapendo che non il zelo della religione, ma i danari e i rigiri e le pratiche dei vescovi infiammano di tanto fervore i petti di costoro, fra i quali non lasciano d'esser anche dei presbiterani, corrotti dai loro donativi; i quali però non averanno più tanta forza quando il re <sarà> persuaso di trovare la vera congiuntura per ottener quest'atto dal parlamento, essendo certo che allora prevarrà, all'allettamento di qualche danaro che potessero tirare dagli ecclesiastici, la considerazione degli avvantaggi che potranno sperare molto maggiori nell'esercizio libero d'una religione che, per esser affatto indipendente dal re, è abile a seminar fra i popoli, senza timore di punizione, le massime più adeguate allo stabilimento dei loro disegni.

Quello che sia per accadere al re quando quest'atto di comprensione sarà corso, è molto difficile a giudicarsi: prima, per esser cosa lontana e non potersi prevedere in quali congiunture egli sia per correre; e poi perché, dopo corso, in caos così confuso infinite cose possono nascere in un momento abili a farlo divenir vantaggioso o dannevole a questa o quella parte, contro ogni dritto di anticipata ragione. Certa cosa è che da principio il re vi troverebbe il suo conto, per l'immenso danaro che ne ritrarrebbe: e se egli pigliasse la congiuntura d'una guerra desiderata dal Regno, dopo aver aùto dal parlamento grosse assegnazioni di danaro per mantenerla, onde si trovasse armato in sul mare, e nell'istesso tempo consentisse all'abolizione dei vescovi, incorporando e subito vendendo i beni delle chiese, facendo <a> tutto questo, contro ogni espettazione de' suoi sudditi, succedere immediatamente la pace, è molto verisimile che egli si trovasse in uno stato tutto affatto diverso dal presente. E questo perché, dopo dispersa e impoverita la nobiltà da Enrico VIII, dopo scacciata la religion cattolica sotto la regina Elisabetta, dopo screditata e divenuta ludibrio dei grandi e degli infimi la religione episcopale, e dopo confuso e sconvolto tutto il Regno con la libertà di formar ciascuno nuove religioni a suo senno, non riman più altro braccio per la monarchia che la forza del danaro, la qual metta il re in stato di poter far senza il parlamento; da cui gli conviene al presente mendicare indegnamente il modo di sostener le guerre che egli intraprende, eziandio per l'avvantaggio de' proprii sudditi, i quali, paurosi non meno del proprio principe che de' nemici esteriori, l'armano a misura della necessità, e amano meglio di temer qualche cosa al di fuori che il non temer qualche cosa al di dentro. Di qui è che al presente la massima del re d'Inghilterra non è l'esser generoso, non l'esser clemente, non savio, non giusto, ma l'esser ricco e l'esser in concetto di soldato e di bravo: il primo, per assicurarsi sulla forza, e il secondo per profittare del genio vano e superbo dei popoli, che non sanno disistimaredisamare un principe che gli abbiano in concetto di gran capitano.

Un'altra cosa potrebbe megliorar lo stato del re, perché ell'è una di quelle che, perdendosi, l'ha indebolito. Questa è la religion cattolica, la quale non è dubbio che senza i consigli del cancelliere poteva al ritorno del re rimettersi in tale stato (con premere la libertà d'esercitarla, secondo l'intenzione che n'aveva il re) che al presente questo rimedio, che ancor è in erba, comincerebbe a dar colore di maturità. Ma secondo che il cancelliere <era> tirato dall'interesse che egli trovava intero nel ristabilimento de' vescovi, pauroso di ricondurre per questo mezzo il Regno sotto l'obbedienza di Roma, e dall'altra parte invaghito d'una certa gloria d'aver piuttosto nel Regno un modello che una copia di religione, distolse la mente del re dall'esecuzione de' suoi buoni pensieri, il che gli fu facile, insinuandogli un terror panico di nuove rivolte e di nuove e più irremediabili inquietudini.

Non è per questo che, essendosi egli accorto che quest'ombra di religione anglicana, in cambio di pigliar corpo andava sempre <più> dileguandosi, non avesse opportunamente incominciato a voltarsele contro favorendo i presbiterani, per non vedersi crescere a ridosso un partito formidabile, senz'aver con esso alcun merito d'aver contribuito alcuna cosa, dal canto suo, all'accrescimento della sua grandezza. Ciò facev'egli ancora, senza pregiudicarsi le paghe ordinarie ch'ei ricavava della sua protezione prestata ai vescovi; anzi, a misura ch'egli favoriva il partito contrario, le ritraeva più avvantaggiate, secondo che, quanto cresceva in essi la paura, altrettanto scemava la tenacità: ed egli sapeva così ben maneggiarsi nella discrepanza di questi due impegni, che senza il fulmine dell'indignazione del re durerebbe ancora nell'autorità, egualmente sostenuto dagli uni e dagli altri.

Ma tornando a quello che ci sia da sperare per la religione cattolica, son differenti i pareri. Credono i cattolici che l'impossibilità di veder pigliare mai alcuna buona piega quel disordinato governo, abbia finalmente a ridurre li spiriti alla necessità d'accordarsi in una religione che non sia incompatibile con la monarchia e col parlamento: e questa asseriscono non poter esser altra che la cattolica. Io non dubito punto che non dican bene: ma credo che, sì come i disinganni non si ricevono dall'altrui rimostranze ma si pigliano col proprio ammaestramento, ci voglia un così lungo tempo a disingannare l'Inghilterra, che un pezzo prima possa succedere tal mutazione di cose, che sbilanciando un'altra volta l'uguaglianza a queste due incompatibili autorità del parlamento e del re, non abbia più ad apprendersi per necessario l'andar cercando di quella religione che può essere più adeguata per collegarle, potendo bastar quella che sarà la megliore e la più confacevole cogli interessi di quella parte che rimarrà superiore.

Dicono i cattolici che il lor numero cresce ogni giorno e che l'atto di comprensione sarebbe il più vero mezzo di restabilire la religione nel Regno. I presbiterani si promettono l'istesso avvantaggio per la loro. Per dir chi s'inganni, ci vorrebbe altra intelligenza che non è la mia: tanto più che io non posso servirmi per regola della qualità delle persone che ho consultato, riconoscendo gli uni per cattolici troppo creduli, e poi gli altri per presbiterani troppo appassionati e perversi. Credo ben di poter dire che la nobiltà sarebbe cattolica e la gente ricca presbiterana: questa, non è dubbio ch'ell'è assai più considerabile di quella, ma non è per questo che non potesse rimanerle al di sotto, quando alla prima s'aggiugnesse la più gran parte della plebe; la quale in tal caso si arebbe da considerare com'una mandria di bestie esposta a due compratori, de' quali non c'è dubbio che i presbiterani, spacciando l'esca dell'interesse e lo spavento della tirannia del papa e del re, averebbe qualche vantaggio, se non fusse per buona sorte che il genio della nazione (che per se stesso apparisce, come si vede che la libertà del credere, piuttosto che sciorla dall'ateismo, l'allaccia sempre più in nodi di nuove religioni) si lascia portar volentieri alla superstizione, onde averebbe per avventura <meno inclinazione> alla nudità della chiesa presbiterana che agli ornamenti sponsali di cui la cattolica si riveste, a più perfetta imitazione di quella nuova Gerusalemme creduta scender dal cielo in abbigliamento di sposa reale.

Parrà gran cosa che in questa sconcertata costituzione di religione e di stato non vi sia alcun rimedio profittevole al re per le cose sue: ma la ragione di questo s'intende assai presto se si considera il re intorniato dai suoi più fieri nemici, riconciliati a lui non da pentimento o da amore, ma dall'ambizione o dall'interesse. E questa fu massima del cancelliere nel restabilimento del re: di ripigliar con le cariche e cogli onori gli spiriti più inquieti e più turbati, le persone più popolari, gli uomini insomma più ambiziosi e più avari, e trascurar quelli che avevano azzardato e vita e avere per servizio del re: col supposto che questi tali, poiché s'erano riconosciuti onorati nei giorni dell'afflizione, lo sarebbero stati altresì in quei della gloria, e poiché avevano avuto tanto zelo infino a quell'ora, averebbero aùto nell'avvenire altrettanta discretezza da compatire il re, se nella violenza delle congiunture gli conveniva lasciare indietro i suoi buoni e fedeli sudditi per assicurarsi, colle mercedi dovute a loro, di quei nemici che non poteva distruggere il ferro; dandosi in tutto pace nell'espettazione di tempo migliore, in cui fusse lecito al re di ricompensare in abbondanza l'indugio delle loro rimunerazioni. Questa cattiva massima non era tanto appoggiata sulla fede e la discretezza di costoro, quanto sulla loro impotenza; la quale, essendo principalmente originata dall'aver ben servito il re, in cambio d'attirar loro avvantaggi, attirò disprezzo e confidenza di profittarne impunemente, in derisione dei loro meriti e delle loro speranze.

L'effetto si è che, sebbene questi tali soffrono costantemente i pregiudizi di un sì dannoso riscontro, non deve per questo il re pigliar le misure di prima sulla loro fedeltà quando le cose mutassero. E di tanto è misera la sua condizione, che senza poter mai credere d'acquistar, come ha fatto delle persone, anche i cuori de' suoi nemici, non può liberarsi dalle loro maniremunerare gli amici: poiché è tanto il numero di quelli che lo tengonostrettamente assediato, che non può nemmeno riempiere i luoghi che vacano per la morte naturale di essi ad arbitrio del proprio genio o piuttosto della giustizia, mentre gli conviene sempre disporre secondo le impertinenti intercessioni di quei che rimangano. Tanto che, a meno che non s'accordino a morir tutti in un tempo medesimo, non v'è apparenza che il re abbia per lungo tempo a disfarsi di simil razza di gente o d'allievi venuti su sotto la loro scuola, imbevuti delle loro massime, legati con gli stessi interessi, attaccati agli stessi partiti, fortificati colle medesime intelligenze, e finalmente persuasi dell'istessa verità: che il redeve né può fidarsi di loro, che il fondamento della loro sussistenza appresso di lui non è e non può essere altro che il tenerlo abbandonato di amici in cui possa fidarsi, l'aver le mani nei parlamenti, il fomentar partiti, l'alimentar inquietudini, il mantenersi l'aura popolare, e insomma il rendersi necessari col tener il re in continua apprensione della loro condotta.

Questo è quel poco che della presente costituzione d'Inghilterra m'è parso di riconoscere così in generale; e sebbene è poco per impossessarsene l'altrui intendimento, può servir nondimeno per formar un giudizio accertato di quel che posson importare in progresso di tempo, in questo teatro, le qualità più intrinseche de' personaggi che vengo a descrivere.

 

 

 

 


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