Lorenzo Magalotti
Relazioni di viaggio in Inghilterra, Francia e Svezia

RELAZIONE D'INGHILTERRA

<Ritratti della corte d'Inghilterra>

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<Ritratti della corte d'Inghilterra>

 

<Il re e la regina.>

 

Il re d'Inghilterra, se fusse un privato cavaliere sarebbe brutto, ma perché egli è re arriva a passar per uomo ben fatto. Ha la vita nondimeno assai bella, ed in ogni suo gesto è sciolto e avvenente della persona. Il suo colorito è bruno, ma d'un bruno che nel nero, neri i suoi capelli e nerissime le basette e le grosse ciglia. Gli occhi son chiari e lustranti, ma incassati stranamente nella fronte, il naso grande ed ossuto ma però ben fatto, la bocca larga e le labbra sottili, col mento corto e le guance segnate a traverso sotto gli occhi da due righe o grinze risentite e profonde, che partendosi dalla metà del naso s'avanzano verso l'estremità degli occhi, benché, a poco a poco assottigliandosi, prima d'arrivar svaniscono. Porta parruca quasi del tutto nera, la quale, per esser molto granata, in sulla fronte gli accresce tristezza, senza però darli alcuna tintura d'orrore: essendo bensì la sua aria funesta, ma non orrida; anzi, che una certa apparenza di riso, che gli viene dalla larghezza della bocca, rischiara e rammorbidisce talmente il crudo delle sue fattezze, che piuttosto alletta che atterrisce.

Della religione se la passa con disinvoltura: ma quando fosse obbligato a rifletterci, non crederebbe che fussi salute fuori della cattolica. Ha spirito grande e capace, e collo spirito maturità di senno e chiarezza meravigliosa d'intendimento. Niuno meglio di lui intende gli affari e niuno maneggia con più padronanza il politico. L'affabilità, la bontà, la clemenza, la mansuetudine sono in lui senza pari, ed ha buona legge nell'amicizia. Conosce a fondo il temperamento de' suoi sudditi, e in breve tempo sa ritrovare a ciascuno il suo tenero, e ritrovare il modo di farlo operare.

Dall'altro canto, i suoi più fieri nemici son l'applicazione e il negozio: idolatra i comodi, i piaceri e le burle, odia irreconciliabilmente tutto quello ch'è negozio ed ama con trasporto di genio tutto quello che è giuoco e divertimento. Gli uomini seri l'atterriscono, i faceti e gli allegri lo rapiscono. È generoso, perché non vuol la fatica di dir di no; del resto, sa senza nuocere e sa voler bene senza giovare: quindi cresce in immenso il numero degli amici suoi, perché gli costan poco, e quelli che son più sfacciati a chiederli son più fortunati nell'ottenere.

Il solo amore lo fa liberale per elezione, e in questo caso non ha misura nel dare. Le sue inclinazioni son piuttosto lascivia dell'animo che brutalità de' sensi, godendo più del commercio dello spirito che di quel del corpo. Non è però che ancor questo non abbia voluto la sua parte: ora però, da qualche tempo in qua, pare che al diletto della sensualità subentri quello del bere in compagnia d'amici, senza osservar sempre, con sì esatto rigore, le misure della sobrietà.

Dicono che la cortesia e l'affabilità non sian talmente effetto di regia magnanimità, che non v'abbia qualche poca di parte l'abito fatto nella sua gioventù alle maniere troppo dimesse di povero e privato cavaliere: dal che forse avviene ancora, che nei princìpi della sua inclinazione si lasci talmente trasportare dall'impeto, che nelle finezze d'amante si scordi del decoro di re.

Degli esercizi del corpo il più odiato è la caccia, il più gradito la palla a corda. Si picca di grand'intelligenza nelle fortificazioni, per facilitare l'uso delle quali pretende aver trovate nuove regole, che in due figure di linee ha fatto improntare nelle faccie d'una medaglia. A sentirlo discorrere, mostra aver gran diletto d'ogni nobile curiosità, non escludendone quello delle nuove esperienze e delle cose naturali; ma se pur n'arriva ad aver qualche tornagusto, non arriva ad aver alcuna stima né delle cose stesse né di coloro che le professano.

La regina (mi disse un amico mio, al quale ne domandai avanti di vederla) è bella, perché non s'è mai sentito in questo mondo che una regina sia brutta. Nondimeno, chi la considerasse in qualità di dama privata ci troverebbe qualche cosa da dire. Primieramente, la sua statura per donna è piccola e per nana è un tantin grande. Il viso dal mezzo in giù è assai stretto, onde il mento ne rimane aguzzo: la bocca è grande e i denti spaventevoli. Arriva per disgrazia ch'ella gli mostra sempre perché sempre ride, ed accompagna il riso con certi scontorcimenti di testa e sporgimento di viso in fuore <da cui>, per tema di non pregiudicare al suo decoro, s'asterrebbe. Il naso è un poco piccolo, ma ben contornato, tondo assai, gli occhi sono angelici per la grandezza e per lo splendore delle pupille nerissime, la fronte grande, maestosa ed i capelli bruni e lucenti, in grandissima copia. Il colorito è un po' bruno per Inghilterra, ma candido per Portogallo, se pur non v'ha parte qualche piccola industria secondo l'uso dell'uno e dell'altro paese. Il portamento è giusto e l'abito ordinario, e più da vedova che da giovane principessa.

La sua educazione fu da principio sotto gli occhi d'una prudentissima madre; e poi, secondo lo stile di Portogallo, che non esclude le figlie reali tra le monache, in un convento. Il re don Giovanni suo padre lasciò morendo che, pervenuta all'età di maritarsi, fosse data al giovane duca d'Aviero. La regina madre, per vendetta d'antiche nimicizie colla madre del duca, non volle dargliela; ond'egli disgustato, subito che intese le prime aperture di trattato con l'Inghilterra, pensando di guastare ogni pratica fece intendere al cancelliere che l'infanta, per la gracile corporatura, per l'adusta tempera della complessione e per la straordinaria frequenza e abbondanza di mestrui, era resolutamente giudicata inabile alla generazione.

Questi ragguagli, che si vedono pur troppo veri, trovarono il cancelliere di già rivolto con ogni suo spirito alla conclusione del matrimonio di Portogallo, portatovi fin allora dal solo motivo di distrugger quello di Parma, non tanto per fuggire un'alleanza spagnola, quanto per deludere i negoziati del conte di Bristol, cui egli cercava, non meno per la via del discredito che per ogni altro mezzo, di rovinare. Ora aggiunto, per le suddette relazioni del duca, a questi due motivi di politica con la Francia e di vendetta contro Bristol, il terzo e quello efficacissimo dell'interesse della figliola, di già divenuta moglie del duca di York, mentre la sperata sterilità della regina assicurava la corona al suo sangue: non frappose un minimo indugio alla conclusione del matrimonio, che rimase effettuato con dote delle due piazze di Tanger e di Bombaim e di <2.000.000> cruzadi, metà all'arrivo della sposa e metà tra lo spazio d'un anno, benché questi secondi non sien ancora stati pagati. Fu promesso all'incontro dalla parte d'Inghilterra una continuata assistenza al Portogallo, fino ad ottenerli, o per via d'armi o di negoziato, una pace sicura e onorevole.

È la regina di spirito mediocre, per inclinazione portata alla pietà, o piuttosto alla superstizione: messe, rosari, vespri, sermoni e compiete fanno l'intero d'ogni sua applicazione. Fuor di questo, il suo maggior impiego è il ritrovarsi mattina e sera al cerchio, e quivi, su una sedia, tenere il fermo per tre o quattro ore del giorno ai cicalecci delle donne, dispensandone alle volte per giocare all'ombre. Ciò fa ella nell'istessa camera, e chiama indifferentemente al gioco e dame e cavalieri. Il resto del giorno lo passa o in dir avemarie o in taccolar con femmine, non dilettandosi né di lettura né di musica né di pittura né di cosa immaginabile che sia. Non ha né tra gli uomini né tra le donne della sua corte persona capace di governarla, non acquistando ella mai verso alcuno né confidenzaamore. S'irrita bene fuor di proposito e, presa una volta una dirittura d'aborrimento verso di un servitore, non v'è rimedio. Ha grandissima opinione di sé, della sua casa e del suo paese: di qui è che la riesce inflessibile nelle sue determinazioni, avendo per aggiunta alla dote ordinaria dell'ostinazione, che ha come portoghese, quella che le viene dall'esser donna e regina. È pericoloso con esso lei di entrare in paragoni tra le cose e i costumi di Portogallo e quelli degli altri paesi, perché, a meno d'abbassar questi sotto terra e innalzar quelli di dal cielo, non si dice abbastanza per compiacerla, anzi si fa d'avanzo per offenderla. Non è già questa sua massima inganno della mente, ma affettamento dell'ambizione, che non vuol mostrare d'aver lasciato meno a casa il fratello, di quel che l'abbia trovato a casa il marito.

È per natura sensibilissima ai piaceri; ma, o sia virtù o dapocaggine, non solamente si contenta di quelli col re, ma si tempera dall'uso di essi il più ch'ella può: poiché, riconoscendo che l'uso troppo continuo, sia per soprabbondanza di sangue o per eccesso di diletto, le provoca purghe straordinarie e fuor de' suoi tempi, teme di rendersi troppo presto in istato di disperata figliolanza. Con tutto ciò non ha riguardo a mangiar le vivande piene di condimenti caldissimi, credendo di rimediare abbastanza coll'astenersi dal vino: e de fatto non bee che una sol volta alla fin della tavola, facendo allora una grandissima tirata d'acqua. È sottoposta a grandissime febbri ardenti, per una delle quali è stata una volta all'estremo. E questa fu la cagione che mosse il cancelliere a indurre il duca di Richmont <a sposare la Stuard> contro la volontà del re, mentre riconoscendo egli nella sua bellezza un alimento per lungo tempo ai fervidi amori del re, e nella chiarezza del suo sangue discendente da progenitori reali un sufficiente splendore per esser regina, il re non avesse così subito dove voltarsi con apparente sicurezza di successione ma gli convenisse cercar fuori del Regno la moglie, con perdimento di tutto quel tempo che porta seco la conclusione de' matrimoni reali; con l'aggiunta di tutto quello che egli in avvantaggio dei figlioli del duca si prometteva di far correre, inutilmente frapponendo ostacoli alla conclusione d'ogni partito. E questo fu il suo maggior equivoco perché, toccato il re nella parte più sensitiva, cominciò a dar orecchio a di quei rapporti del cancelliere che per innanzi non aveva voluto udire; e indottovi per questa via a riconoscerne la sussistenza, gli trovò veri.

Ha la regina di suo appannaggio dal re sessantamila lire sterline: di queste il re ne ritiene ventimila e piglia sopra di sé la tavola per lei, per le sue dame e per tutti quelli che devono averla della sua corte, la stalla, le livree, i salari della servitù bassa, e una parte delle provvisioni della servitù nobile, che terrebbe una regina eretica, perché per quelle cariche che ella ha di più per esser cattolica ho detto che alla servitù nobile il re paga una parte delle lor provvisioni, e per questa parte s'intende l'antico emolumento che avevano quelle cariche, secondo le vecchie tasse della casa reale, quando il danaro era in Inghilterra più scarso e per conseguenza valeva più. Ora però essendo cresciute tali provvisioni, tutto il di soprappiù resta a carico della regina. Il maggior peso poi che le resti è il mantenimento della sua chiesa, che oltre alla cappella privata di Whitthall ha nel palazzo di Giacomo, dove va tutti i giorni di festa attraversando il parco. Questa (compreso il convento de' francescani portughesi, fabbricato da lei di pianta, che sono undici sacerdoti compresi i domenicani e i benedettini, che fra tutti sono altrettanti e ha ciascuno fra due abiti l'anno da secolare, comprese le provvisioni del grand'elemosiniero, di quattro elemosinieri ordinari e di sette o otto tra cappellani e chierici) importa da ottomila lire sterline. Vi sono poi i regali che si fanno alle figlie d'onore, e gli straordinari quando si maritano, benché in questo non ci sia altra regola che del proprio genio e della propria generosità.

E a questo proposito dirò che l'uso di questi regali alle figlie d'onore, soliti a farsi tanto dal re quanto dalla regina, sono introdotti per supplire alla tenuità degli assegnamenti ch'elle hanno dalla casa del re, che consistono nella tavola, nelle stanze e in dieci lire sterline l'anno, con obbligo di vestirsi del loro. Niuna però in quella corte è così goffa che non sappia procacciarsi degli alimenti e straordinari, e le governanti, la cui paga è di quaranta lire sterline l'anno, sono assai discrete per lasciarli godere i frutti della loro industria. Avanti d'uscire di questo proposito dirò che alla corte d'Inghilterra non è l'istesso figlia e dama di onore (anco lasciando da parte la prima dama d'onore): poiché le figlie hanno da esser fanciulle o almeno non maritate, e queste non solo non possono entrare in camera della regina, ma di rigore (il che una volta si praticava; benché nell'inclinazione del re, abilitandone or una or un'altra, abbiano messo generalmente la cosa in abuso) non doverebbero entrare nemmeno nel gabinetto o camera di parata, ma stare in quella di presenza, che noi diremo del baldacchino. Le dame d'onore entrano in camera, e queste sono delle principali della corte e del Regno, che non cavano da tal titolo altro che l'onorevolezza.

Tornando adesso all'appannaggio della regina, parrebbe che ella avesse d'avere in avanzo un grandissimo danaro, non delettandosi di nulla e nulla spendendo d'attorno alla sua persona. Con tutto ciò non ha mai cento lire nello stipo, dando tutto a tutti che gli chieggono, pur che sian portughesi: così non ce n'è grandepiccolo, né pretefrate, né donnicciuolamarinaro, né barcaruolo di quella nazione che non viva, sin che ce n'è, a spese della regina. Un grande scolo per la sua borsa è don Francesco di Melose e la sua sorella. Questa venne a Londra per esser sua prima dama, benché, sorpresa da una debolezza di vista che s'avanza a gran passi all'intera cecità, non entrasse nemmeno in possesso della carica, ma si ritirasse in una casa particolare, dove sta tuttavia, occupata sempre in esercizi di pietà, senza veder mai nessuno, venendo rarissime volte, scusata dalla sua infermità, a veder la regina. Il fratello, che al presente si ritrova all'Aia e che verisimilmente, finita quell'ambasceria, ritornerà con l'istesso carattere a Londra, vive ed è vissuto, si può dire, da che egli uscì di Lisbona, in sulle braccia della regina, invaghita della vanità d'avere un imbasciadore di Portogallo alla corte d'Inghilterra; alla quale non avendo mai voluto accudire il conte di Castel Migliar, benché cugino di don Francesco, ella, seguendo il costume del suo genio ostinato, s'esibì di sostenerlo a sue spese e n'ebbe la grazia.

Per i servitori inglesi, riscosse che gli hanno le loro paghe non c'è da sperar altro: e <per> quel che tocca gli effetti della protezione in qualche occorrenza, non vi sia né ingleseportughese che se l'aspetti, tanto è ella lontana dall'ingerirsi o da riscaldarsi per chi che sia, mercé dell'adombramento che le fanno ancora nell'animo le paure fittele dal cancelliere per levarle ogni animo dall'intraprendere alcuna cosa. Non è per questo che, s'ella volesse, non fosse capace di far fare al re molte cose: non per gran condotta che sia in lei, ma per quella natura che è nel re, di sapere scuotere il giogo a qualunque ha l'ardire di metterglielo, e di lasciar fare anche ben bene una cosa quando trova che un altro si mette a farla per lui. S'aggiugne ch'ei l'ama per la sua bontà e, sebbene non arriva ad averne stima, glien'acquisterebbe quando ella cominciasse a tormentarlo con l'importunità e col domandare. Da principio passarono delle freddezze reciproche, perché, trovatasi ella a far muso, s'accorse presto che il re nella materia di amore muta natura, non ammettendo burlesuggezione. Ora però s'è accomodata a portare in pace la sua croce, ammettendo di buona voglia e con disinvoltura alla sua presenza, con madama di Castel Main, i suoi piccoli figli ancora.

 

 

<Il duca e la duchessa di York.>

 

Il duca di York ha le fattezze del viso più contraffatte di quelle del re: con tutto ciò ne risulta una certa fierezza, che sostituisce l'idea di principe feroce all'aria, che gli manca, di bel cavaliere. La sua statura, benché minore notabilmente di quella del re, è nondimeno giusta e il colorito si può dir chiaro; del resto, tutti i contorni del volto son risentiti: la fronte quadra, gli occhi grandi, gonfi e turchini, il naso piuttosto grande e curvato, le labbra pallide e grosse col mento un poco aguzzo. Porta parruca tra bionda e bruna, e bionda ha la barba e le ciglia; solo il portamento <non> accompagna, non accordandosi punto con quel carattere di maestà severa che serve in lui di bellezza: cammina frettolosamente, curvo e senza decoro, e la maniera del vestire, sempre positiva e trascurata, accompagna la poca avvertenza di tutti i suoi movimenti.

Abbiasi religione o non l'abbia, l'animo suo non acquistaperde tranquillità, lusingandosi con la credenza che, se la religione è necessaria a salvarsi, ogni religione è buona. Il concetto ch'egli ha di bravo gli ha nociuto assai più che la morte del padre, la povertà e l'esilio: poiché, accreditato dalle sue azioni nelle guerre di Fiandra, dove comandò un reggimento servendo alla Spagna, appresso i popoli d'Inghilterra arrivò ad esser desiderato re in concorrenza del fratello, e fino in tempo di Cromuell s'adoperarono (impediti dalle pratiche maneggiate da un gesuito) per farli sposare una sua figlia e stabilire in lui la corona, supponendo che il benefizio di farlo ingiustamente re potesse prevalere alla offesa d'averli ammazzato il padre ed oppresso iniquamente il fratello. Questi motivi d'amore e di stima, procacciatili dall'opinione del suo coraggio  --  che, come ho detto altrove, è l'esca più propria per allettare alla suggezione del loro prencipe i popoli d'Inghilterra  --  , risvegliarono tal gelosia nell'animo del re al suo ritorno, che per renderlo altrettanto odioso e aborrito promosse il matrimonio colla figliola del cancelliere, allora figlia d'onore della principessa d'Oranges, insinuandogli un appetito di gloria nel mantenerle, per atto di generosa gratitudine, collo sposarla ciò che le aveva promesso, per impeto di fervida concupiscenza, in goderla.

Tutte le difficoltà, che i barlumi della ragione svelarono in quest'affare alla mente giovenile del duca, furono supite dall'arti del cancelliere e dal poco zelo de' suoi più cari servitori. Pure, la cosa è qui e forse il re n'è pentito, prevedendo che la sterilità della regina non è talmente ricompensata dalla fecondità della duchessa che possa (attesa la bassa qualità del suo sangue) tener sotto abbastanza gli spiriti inquieti del Regno; molti de' quali si darebber paceandrebber con sua presente inquietudine facendo il letto alle sedizioni avvenire, quando vedessero per mallevadore della regia stirpe un principe nato di sangue reale, senza infezione di popolarità e di vassallaggio. Ed è certo che, venendo a mancare il re, come si trova al presente, senza figlioli, quand'anche si trasportasse quietamente la corona sopra la testa del duca e senza interrompere il riposo della pubblica tranquillità, l'averla a lasciare ai figlioli avuti dalla duchessa gli costerebbe almeno qualche applicazione di vantaggio, che non farebbe forse quando gli avesse avuti d'un'altra donna in cui non fusse la tara del vassallaggio.

È il duca impetuoso e violento, e per conseguenza il più delle volte inconsiderato ed irragionevole; nelle cose politiche non penetra molto addentro, perché il suo spirito rozzo e impaziente non lascia fermar gran tempo nell'esame delle cose, ma lo determina a seguire alla cieca gl'impulsi delle prime apprensioni. Si fa nondimeno bene spesso dei padroni, e dopo la prima elezione non gli è così facile il sottrarsi dal loro imperio: ed ha sempre la mente, com'una cera, presta a ricevere e ritenere indelebilmente ogni leggera impressione delle loro massime, senza reflettere se la ragione o l'interesse o la malignità o l'ambizione le somministri. Ad ogn'altro fuor che a costoro è inflessibile, vengasi pur chi che sia armato, non che di ragione, dell'istessa evidenza. Vive in buona unione col re, né tutto per forza né tutto per elezione. Ama la moglie, ma non l'idolatra com'una volta: ed ella, che conosce il suo debole, gl'ha messa una briglia che, sebbene talora s'allenta, è però difficile che arrivi del tutto a sciogliersi. La disapplicazione in lui sarebbe uguale a quella del re, se in quello l'obbligo, tanto maggiore, ch'egl'ha del continuo, non la facesse apparire in lui incompatibilmente più grande. Nelle inclinazioni della sensualità egli è a rovescio del re, mentre, poco curando i più nocenti preparativi delle dolcezze, non vede l'ora di venire allo sfogo d'una velenosa brutalità. Si picca straordinariamente nell'intelligenza del suo mestiere, nell'esercizio del quale risente con senso delicatissimo gli stimoli della gloria, la quale non può indursi a spartire con chi che sia. È grandissimo cacciatore, tira benissimo per aria e quasi sempre da cavallo. È cortese ed affabile co' forastieri, parla diverse lingue, ma tutte dentro la mediocrità, e nel discorso è poco felice in esprimersi, poco nel gestire, e in nulla ha maniera e carattere di principe.

Presentemente apparisce quieto, dopo grandi agitazioni eccitate in lui dalla moglie per l'avvenimento del suocero, e forse non andrà molto che Conventry ritornerà seco nell'antica pace e confidenza; con tutto che l'onnipotenza di quella donna e la sua scoperta maniera di cooperare alla rovina del cancelliere l'abbiano precipitato dal posto ch'egli teneva nella sua grazia. Il che quando segua, sarà un effetto di quell'impotenza che è nel duca, di liberarsi da uno a cui s'è dato una volta.

 

La duchessa è la più schietta e sincera donna del mondo, perché discopre apertamente nel viso tutto quello che ha di dentro. Per non perder gran tempo nel suo retratto, basterà, per vederla effigiata nel vivo, qual dovrebb'esser nel di fuori una donna che internamente non ha né religionefede: una donna ostinata, superba, vendicativa, iraconda, sfacciata, ingannatrice, disprezzante, crudele, e idolatra della gola e dei piaceri. In queste poche parole si rinchiudono tutte le relassazioni che <passano> per una verità confessata generalmente per bocca di tutti e accreditata dall'odio e dall'aborrimento universale de' suoi servitori più interni (ai quali ell'è insopportabile per il disprezzo, per la ingratitudine e per l'alterezza), della corte, della casa e di tutt'a tre i Regni. Del resto, ben si può credere che una simil natura non può sussistere senza gli alimenti di un grande spirito, che le sfavilla fino per gli occhi, con un lume di baleno che in cambio di confortare spaventa. Dicono che sia stata assai bella, e ben lo rende verisimile la poco accertata resoluzione del duca nello sposarla. Ora però il soperchio grasso, ond'ella di giorno in giorno va raggiugnendosi, ha talmente alterato la proporzione d'una bellissima vita e di un vaghissimo viso, che a gran pena si raffigurano nell'altezza della statura, nella delicatezza del colorito e del petto (perché le guance sono un poco irruvidite da qualche macchia di vaiolo) e nel diluvio dei capelli castagni.

Tanto si può dire di questa donna, a non voler offendere indegnamente la verità per misurare con troppo rigore gli ordinari temperamenti, inventati per pubblicar con rispetto i vizi e i mancamenti dei grandi.

 

 

<Il principe Ruberto.>

 

 

Il prencipe Ruberto, cadetto della casa elettorale di Eidelberg, ha dai primi anni seguitato sempre la fortuna della casa d'Inghilterra, dove venne fino dal tempo del morto re per procacciarsi la sua. Nelle guerre civili ebbe qualche comando, finché, ribellatisi alcuni pochi vascelli del parlamento, egli ne fu fatto ammiraglio; e andato con essi nell'Indie Occidentali per vedere d'assicurare al vivente re, che allora si trovava in Francia, qualcuna di quelle piazze, sopraggiunto da uno urcan in vicinanza d'una dell'Antisole, si salvò con un paggio e un valletto di camera sur uno schifo, e vedde perir davanti a' suoi occhi il vascello. Tornato in Europa e sbarcato a Marsiglia, seguitò poi sempre il re, approfittandosi di tutte l'occasioni che ebbe durante l'esilio della famiglia reale, d'ammaestrarsi nell'armi. Dopo il ritorno del re ha comandato più volte in mare, e in ogni occasione ha dimostrato un prodigioso coraggio, che sarebbe ancora più riguardevole se fosse tutto effetto d'animo obbediente all'elezione di una mente intrepida, e non ci avesse (come molti vogliono) una grandissima parte l'inconsideratezza e la temerità.  Di qui avviene che le operazioni della sua testa non si stimano nelle battaglie a un gran pezzo quanto quelle del suo cuore, benché in ogni esecuzione sia infaticabile e che il posto di capitano non gli serva per esentarsi, anche senza bisogno, da ogni minuta obbligazione di soldato privato e di marinaro. E veramente è incredibile la sua perizia nell'arte della marineria e in quella dell'ingegnere, arrivando a perfezionare con le proprie mani -- che per l'uso continuo della lima, dello scalpello e dell'ascia son sempre mai ferite e callose -- qualunque artificio meccanico che gli venga in testa di fare. Si diletta di odori e di chimica ed intende assai bene molte cose dell'istoria naturale. È affabile, cortese e obbligante, senza abusar punto il decoro di prencipe nell'uso de' modi, che son più propri di gentil cavaliereEntra in parlamento come duca di Cumberlant e cavalier dell'ordine, entra nel consiglio privato senza però aver le prime participazioni negli affari più intimi; ha quartiere in palazzo e tira dal re una pensione di quattromila misere lire sterline l'anno. V'è chi lo mette in cielo per l'ottimo discernimento nelle materie politiche, ma di quelli ai quali mi sono abbattuto a domandarne, ho trovato che i meno sono di questa opinione.  Nell'ultima battaglia, dopo la vittoria, sdrucciolando disgraziatamente sul vascello, cadde e battendo la testa su un chiodo ne fu ferito, onde bisognò trapanarlo ed ebbe che fare a guarire. Ora apparisce che non stia bene: credo però che la parte sia remasta debole, e vi porti di continuo qualche difensivo occultato dalla parruca.  È il prencipe forse in età di 51 anni (ma in questo posso ingannarmi), altissimo di statura, scarso e svelto di vita, ha aria nobile ma non bella, avendo il viso lungo, secco, bruno e macchiato dal vaiolo, gli occhi bianchi e profondi, il naso aquilino, la bocca grande e le labbra sottili. Il suo vestire è presentemente positivo e trascuratissimo a maggior segno, e il trattamento di gran lunga inferiore a quello di molti principali cavalieri di Londra. La sua qualità non gli fa pigliar suggezione di nulla, andando con tutti e per tutto, sino a mangiare nei pubblici ordinari della città, pagando ancor egli il suo scotto, com'è lo stile anche della prima nobiltà in Inghilterra. Nasce questa sua libertà parte da disinvoltura, parte, può anch'essere, <da> spender meno di quel ch'ei può: il che si vede ancora dalla moderazione con cui si governa ne' fervori eziandio delle sue inclinazioni, le quali (almeno da un pezzo in qua) non gli costano grand'applicazionegran tesori. Quanto alla religione, bench'ei sia calvinista non lascia d'intervenire col re alle preghiere de' protestanti, essendo in questa materia il suo genio facile ed accomodativo.

 

 

<La regina madre.>

 

La regina madre si contenta presentemente della figura che ella ha fatto e dell'autorità che ella ha aùto altre volte in Inghilterra; e, paga del potere avuto sul genio del marito insieme col disinganno, apportatole dall'infelice fine di quello, che le sue massime non son buone per dirigere i re d'Inghilterra, si pace del suo presente riposo da tutti gli affari: e si chiama contenta di quegl'atti di riverente stima ch'ella riceve giornalmente dalla persona del re nel suo palazzo quand'ella si ritrova in Londra, e d'ottantamila lire sterline l'anno che, dovunque ella sia, le son pagate profumatamente, metà per ragion de' frutti dotali e metà per pensione lasciatale dal morto re.

Se ne vive ella da un pezzo in qua quasi sempre in Francia, data talmente allo spirito che riesce, non meno che alle sue dame e figlie di camera, indiscreta e intollerabile esaminatrice d'ogni minuta fragilità di ciascheduna della sua corte.

 

 

<Il duca di Monmouth.>

 

Giacomo, duca di Monmouth, figlio naturale del re, nacque in Francia d'una donna inglese che s'era dedicata ai diletti dell'una e l'altra nazione. Conosciuta carnalmente dal re nel tempo de' suoi travagli, si scoperse gravida e gli accreditò il figliolo per suo. Fu perciò dato ad educare a un bastardo del duca di Bellegarde chiamato La Soccarière, benché passi universalmente sotto <il> nome di m.r di Montbrun, appresso il quale stette sempre, fin tanto che il re suo padre fu richiamato nel Regno. Allora chiamollo a sé, facendolo duca e cavalier dell'ordine; e quando fu in età di quattordici anni gli fece sposare una privata dama di Scozia, giovanetta ancor ella di prima età, non bella di fattezze ma bella di leggiadria, erede della sua casa e ricca di seimila lire di rendita, le quali son tuttavia amministrate independentemente dalla suocera. Perché, quanto al duca, si renderebbe in breve con nulla: di suo non ha altro di fermo che mille lire sterline della carica di gentiluomo della camera.

Bellissimo di vita e di volto, dove appena appariscono i primi segni di barba, ma debolino, ignorantello e freddo a maggior segno. Infelicissimo nel discorrere e nel complimentare, con tutta la scuola di Francia, la pratica della corte e la conversazione di tanti prencipi. Il genio lo porta ai piaceri del senso e del vino: in quest'ultimo da qualche tempo in qua è più rimesso, nei primi è di facile contentatura, e bene spesso ha pagato nelle mani dei medici la pena della sua troppo vile e incauta sensualità. È ora tornato nuovamente dal viaggio di Francia, dove ha dato maggior sodisfazione alla vista delle dame che ad alcun altro de' loro sentimenti, essendo in lui maggior la pompa che l'utile, in riguardo ai maggiori bisogni di quel sesso.

Del motivo del suo viaggio ci sarà luogo altrove di discorrerne. Il re ne vive perduto e mena smanie di non poter cavare alcuna bella forma d'uomo da così bella materia di giovane: averebbe desiderato di metterli attorno qualche uomo di garbo, accioché gli stillasse con la conversazione il diletto del sapere; ma la sua natura, che ama più le pratiche di persone basse e insensibili allo strapazzo, che d'uomini di condizione e d'onore, è stata cagione che qualcuno, a chi n'era stato dato de' tasti, se n'è ritirato con buon modo, prevedendo che con esso seco o bisogna tornar ragazzo o perder il credito, o tollerare strapazzi o finalmente rompersi. Quanto ha potuto impetrare il re è stato un piccolo principio d'applicazione, che presto è svanita, allo studio delle lingue, delle quali non parla se non quelle due che egli ha apprese per necessità. Con tutto ciò il re non sa moderar punto il suo tenero amore verso di lui, che lo sforza talora abbracciarlo e baciarlo pubblicamente. Ha quartiere in palazzo, ch'è quanta prerogativa gli porta la mescolanza che è in lui del sangue reale, non distinguendosi nel rimanente in alcuna cosa, secondo lo svantaggioso costume che si pratica in Inghilterra co' bastardi del sangue reale, che non si considerano e non si riconoscon per nulla. Il re gli ha data un'arme, dov'è fra l'altre inquartata quella d'Irlanda, e nel parlarli, tacendo sempre il titolo di duca, lo chiama sempre col proprio nome.

 

 

<Il generale Monk.>

 

Il generale Giorgio Monk duca d'Albemarle, famiglia inglese della provincia di Devincer, fatta grande in persona del vivente duca, è d'età di 66 anni: corto e grosso di statura, senza garbo di cavaliere e senz'aria di gran capitano. È un buon uomo e così pieno di coraggio, che non rimane in lui alcun luogo per dar ricetto ad altre virtù, fuori che a quella della costanza verso il re e della sincerità verso gli amici suoi. La grande esperienza, però, l'ha reso uomo che intende meglio d'ogn'altro il paese. Anzi, la sua condotta non varrebbe l'istesso altrove, non avendo fuori d'Inghilterra veduto molto. La sua maggior taccia è la lentezza nel risolvere, ed il suo maggior pregio è la celerità nell'eseguire, anzi, l'esser egli mai sempre il primo all'esecuzione; vive contento delle sue ampie mercedi, s'ingerisce di poco, ama il riposo: ha l'ambizione, al pari dello spirito, moderata; fuma, beve ed ascolta tutti.

 

 

<Lord Arlington.>

 

Milord Arlington, di casa Benet, fa presentemente la figura di primo ministro, e per verità ha gran potere sullo spirito del re. Fu da principio semplice aiuto del duca di Bristol, sotto la di cui scuola prese le prime notizie degl'affari; di poi fu segretario del duca, si trovò ne' maneggi di tutti i negozi del re in Francia, passò alla corte di Madrid, dove eseguì con lode le sue commissioni servendo utilmente e con somma fede il suo principe. Fu sempre del partito del duca di Bristol; al ritorno del re fu tesoriere della borsa privata, fin tanto che, a dispetto del cancelliere, fu fatto segretario di stato.

È egli generoso amico degli amici e assai affabile nel trattare, quantunque da alcuni, fuori al parer mio di tutta ragione, sia tacciato di troppo altiero. I suoi talenti son più vicini alla mediocrità che alla maraviglia: con tutto ciò non sono tanto inferiori al bisogno, che con l'aggiunta della sua fede il re non ne possa esser contento. La sua maggior imperfezione è l'esser poco paziente nell'ascoltare il soperchio degl'altrui consigli e la gran presunzione di se medesimo. Con tutto ciò merita d'esser considerato per il miglior servitore che abbia d'attorno il re, il quale vogliono alcuni che abbia avuto, oltre ai sopraddetti, due altri motivi d'amarlo: il primo, l'avergli messa <...>; l'altro, l'avergli revelato molti andamenti del duca nel tempo ch'egli era suo segretario. Quello che è ammirabile in lui è la moderazione colla quale si vale col re medesimo del suo favore, quantunque ei conosca meglio d'ogn'altro quanto potrebbe tiranneggiarlo, attesa la sua natura inabile a difendersi dalle violenze di tutti quelli ai quali si getta in braccio. Si comporta ancora con gran rispetto verso il duca, secondo ch'ei considera con discreto avvedimento anche il tempo avvenire e le cose possibili a succedere in quello.

 

 

<Gioseppe Williamson.>

 

Non per ragion di posto, ma bensì di ragione e di stima e di stretta unione con milord Arlington, di cui è presentemente primo commesso, parlerò in questo luogo del cavaliere Gioseppe Williamson. Questo è gentiluomo, di quei che in Inghilterra (come dirò trattando della nobiltà inglese) chiamansi di costume. Visse un tempo nella sua gioventù scolare in un collegio di Oxford, assai povero compagno: fu per mezzo del vivente arcivescovo di Cantorbery, allora vescovo di Londra, dato a servire nella segreteria di stato, avanti di milord Arlington. Questo giovane, essendo accorto e diligente, arrivò a esser suo primo commesso: e secondo che il cavaliere era assai vecchio, egli, che di già aveva viaggiato in Francia in qualità di governatore d'un privato gentiluomo chiamato Tomas Lee, e possedendo assai bene la lingua francese, con qualch'altra ch'egli aveva studiato per istinto di mera curiosità, instrutto di qualche conoscenza degl'affari del mondo, arrivò in brevissimo tempo a rigirare egli solo tutti i negozi della segreteria. Intanto, reso il signor Niccolas sempre più inabile dalla sua età all'esercizio della carica, ingannato da qualcuno nella credenza che il re fosse per conferirla al figliolo, si lasciò indurre, senz'averne altra sicurezza che la speranza, a renunziarla nelle mani del re, che immediatamente la diede al cavalier Benet suo tesorier privato, che è milord Arlington presentemente.

Questi, la prima cosa ch'ei fece fu il levar subito il cavalier Williamson dalla segreteria considerandolo come creatura intima del suo antecessore: ma riconoscendone ben presto la necessità per le cognizioni ch'egli aveva degl'affari, lo richiamò in poco tempo nel posto di prima, dove seguita ancora, ritenendo seco strettissimo legamento di massime e di confidenza. Di qui nasce la stima verso di lui del re e della corte, la finezza e le dimostrazioni d'ossequio dei ministri <e> dei principi, e finalmente i grossi emolumenti che egli tira dalle sue cariche, avendo, oltre a quella della segreteria, quella d'esser guardiano degli scritti del re, o <per> dir meglio, della corona, -- la produzione de' quali essendo spesse volte necessaria alle Camere de' parlamenti e alle persone private, gli vale un danaro considerabile, -- e inoltre sottosegretario del consiglio: che in tutto, con altri minuti vantaggi, si dice avergli fatto un peculio di quarantamila lire sterline di denar contanti.

Egli è uomo di grande statura e d'assai buona presenza, accorto, diligente, ossequioso, affabile; parla bene l'italiano, lo spagnolo e il francese, scrive con ogni possesso il latino; non presume di se medesimo, e perciò è curiosissimo d'informarsi da chi che sia delle cose che ei non ha intese; ha aura d'ufficioso e di saper conservar con rispetto e con fede i suoi vecchi amici. Molti se ne lodano, altri se ne dolgono: chi dice che finge le sue buone parti e chi sostiene che le sieno radicate nel fondo più cupo della sua natura. Non ha gran fondamento fuori di quelle cose che per natura della sua carica gli son passate fra mano; e la filosofia e la teologia scolastica studiata in Oxford è quasi tutto il forte della sua erudizione: e insomma non ha posto o fortuna quella corte d'Inghilterra, di cui egli oramai non sia giudicato capace.

 

 

<Il conte di Bristol.>

 

Son due soggetti in Inghilterra che meritano con giustizia il titolo di grandi, benché né l'uno né l'altro faccia presentemente la sua figura.

Il primo, che è il conte di Bristol, dell'antica famiglia di Digby, l'ha fatta in altri tempi, e il mondo gl'ha fatto giustizia con gli applausi dovuti. Egli è cattolico senza suggezione, buonissimo soldato e buonissimo politico. Nel suo primo mestiere di segretario di stato non è creduto aver molti pari: milord Arlington e Francesco Slinsebey, già suoi commessi, attestano, scrivente lui, aver loro dettati nell'istesso due dispacci per Francia e per Irlanda: uomo indefesso nello scrivere altrui.

Fu nemico del cancelliere, ed il principio dell'inimicizia fu in Francia quando c'era il re; s'avanzò grandemente in Fiandra e divenne irreconciliabile sull'affare dei due parentadi del re e del duca. È un pezzo che ei si provò a rovinare il suo nemico colla temeraria accusa, non provata, di tradimento, di vendite d'uffizi al ritorno del re, di mezzi indegni per il matrimonio della figliola col duca, e del fine di pregiudicare alla successione reale con l'elezione dell'infanta di Portogallo. Dicono che in tale occasione mutasse religione: che che si fosse dell'interno, certa cosa è che in Inghilterra, a voler esser sentito in parlamento, basta non esser provato ricusante.

È sfortunato nei figli. Il primo, che è maritato, è impotente: s'è tagliato la pietra ed è quasi fuor di cervello. Maister Digby, che è il secondo, è capitano di vascello ed è il meno infelice. Andò a Roma per battersi col conte di Sunderland della famiglia Spenser, che furono favoriti al tempo d'Oduardo secondo. Questo, trovandosi in punto di dover sposar la figlia secondogenita del conte, partì improvvisamente d'Inghilterra e se n'andò in Italia, benché dopo il duello s'inducesse a sposarla, dopo essere stata rifiutata dal conte d'Oxford e da altri. Le figliole son tre: una maritata al baron di Pola in Fiandra, non veduta dal padre; la seconda è Sunderland, detta di sopra, e la terza è fanciulla.

La caduta del cancelliere ha dato campo agli amici suoi di richiamarlo dall'esilio, in cui è stato pellegrinando per il Regno, sconosciuto, sotto varie forme, durante il tempo della sua disgrazia. L'apparenza è stata di mera generosità del re; ma il braccio più forte è stato quello di milord Arlington, che riconoscendo da lui i princìpi e gli avanzamenti della sua fortuna, gli professa gratitudine; ed è cosa rara e degna di grand'ammirazione il rispetto con cui ne parla.

È finalmente il forte del conte di Bristol la spada, la penna, gl'ornamenti, la poesia; il debole, la prodigalità e le lascivie.

 

 

<Robert More.>

 

L'altro soggetto non è tanto conosciuto di qua dal mare, ma questo che vengo di nominare non si sdegnerà per avventura di vederselo così d'appresso. Egli è il cavalier Robert More, famiglia principale di Scozia, benissimo imparentato e fatto cavalier dal vivente re: buon soldato, buon dottore, buon ministro; generoso, caritativo, magnanimo, non si cura di nulla, niun'ambizione, indifferente a ogni avvenimento di fortuna. L'uomo è per temperamento il più iracondo del mondo, e non veduto mai in collera da nessuno. Accusato dal cancelliere e da altri suoi nemici, di mago e di nemico del re, non scapitò mai nulla. È presbiterano, ma come buon suddito e buon consigliere del suo prencipe, lo persuade per suo bene a sostenere i vescovi. È uno de' tesorieri del Regno di Scozia, di dove va e viene; ma il re lo tiene volontieri , come uomo nettissimo di mano e di cui si fida. L'averebbe fatto conte, ma egli non mostrò di curarsene.

Nell'armi s'è ammaestrato in Francia, dove ha servito prima luogotenente e poi colonnello (s'io non erro, che non lo credo certamente) del reggimento scozzese. Ama ed intende ogni sorte di letteratura, ed è stato uno dei principali promotori della Società Reale. È sempre <lodata> la sua fermezza nell'amicizia e la sua generosità nel sovvenire agl'amici. Uomo insomma, detrattone l'error della religione, ornato di quelle virtù morali che hanno reso illustri gli uomini più riveriti nel cristianesimo. Tutto il suo debole consiste in un odio troppo apparente, e non punto necessario a tal segno, contro di Roma e del papa, portando sempre appresso di sé un catalogo di tutti i luoghi della Scrittura che possono stirarsi a stimar Roma Babilonia, e il papa Antecristo; col quale nome il re è solito chiamarlo continuamente per piacevolezza.

 

 

<Il duca di Buckingam.>

 

Giorgio Villers, secondo duca di Buckingam, dopo il titolo conferito a suo padre dal re Giacomo, di cui fu favorito, è un uomo pieno di vizi e pieno di virtù. Da giovane rovinato nel partito del re, perduti i beni, visse gran tempo fuggiasco per l'Italia e la Francia, fintanto che, avendo gl'amici suoi rivolto a suo favore il Fairfax, questi domandò ed ottenne dal Cromuell il suo ristabilimento. Gli diede per moglie una sua figliola così deforme, che poi, per meritare la continuazione degli abbracciamenti del duca, gl'ha servito e gli serve di fida ed efficace mezzana per il contentamento de' suoi più alti desideri.

È il duca ancora assai giovane e bellissimo della persona. Si tratta alla grande, veste e mangia con lusso, gioca benissimo a tutti i giochi, fa a maraviglia tutti gli esercizi cavallereschi; intende molto addentro nella geometria e nelle meccaniche, nella filosofia segue la via sperimentale e le operazioni chimiche; informatissimo degli affari del mondo e giudiziosissimo nella discussione delle materie politiche. Cortese, affabile, generoso, magnanimo, liberale fino alla prodigalità dove si tratta di donare, tenace fino alla sordidezza dove si tratta di pagar quel ch'ei deve. Mirabile è la sua facondia nel dire, ed incontrastabile per la sua persuasiva, agevolmente efficace e discreta. Bravo della sua persona, come ha dimostrato in molte occasioni ed ultimamente nel famoso duello col conte di Shreusbery, che in sustanza è morto della sua ferita; uomo insomma adorato dal popolo e amato e applaudito dalla nobiltà.

Dall'altro canto, ateo, bestemmiatore, violento, crudele e infame per le lascivie nelle quali è così rinvolto, che non c'è sessoetàcondizione di persona a cui la perdoni. Il suo genio però lo porta agl'abbracciamenti più vili: di qui è che i bordelli più appestati sono i suoi rigiri più graditi, ed i lacchè più ribaldi le sue delizie più care, onde fra l'uno e l'altro ha fatto raccolta di mal franzese infinito. La natura, che forse prevedeva l'abbandonamento di questo cavaliere alle più sfrenate sensualità, cercò di renderlo inabile alla concupiscenza de' maschi, con un sì discreto artifizio che potesse renderlo altrettanto più proprio e gradito alle donne. Ma, al vedere, non ha servito, perché egli, senza alcun discreto riguardo, ci lascia pensare agl'altri; come ben lo sa un ballerino, impedito ultimamente per qualche tempo dall'esercizio del suo mestiere, e un povero lacchè franzese che, ridotto in grado miserabile, onde gli era necessario il mettersi sui pubblici spedali, una mattina si trovò scannato sulla strada di Londra.

Dicono che il duca non faccia altro presentemente che ricattarsi di quel che fu fatto a lui nella sua più tenera età, con questa differenza però: che niuno fece mai a lui quel che non volle, dove egli fa spesso ad altri quel che essi non vorrebbero. In materia di coraggio una sol volta diede materia di meraviglia, con la sua non necessaria tolleranza. Andava il re incontro alla principessa reale sua sorella che veniva d'Olanda, e rimontato a cavallo su non so qual posta, dove per la scarsità delle cavalcature bisognava trasportarne molti degli stracchi, arrivato il prencipe Ruberto e vedendo il duca di Buckingam di già rimontato sul cavallo fresco senza farli alcun atto di civiltà in offerirglielo, piccatolo da principio assai discretamente di poco cortese e quello rispondendo piuttosto in modo da maggiormente irritarlo, accesosi il prencipe lo prese per una gamba e, tiratolo in terra, montò su egli e tirò innanzi. Veramente si trovava il duca in quel tempo impedito dal braccio diritto, ed avendogli il re immediatamente aggiustati, non poteva con giustizia proseguir la querela. Poteva bene, al parer d'ognuno, passato qualche tempo, proccurarne una nuova: tanto più che, essendosi battuto in Francia il cavalier Leveston, in oggi milord Naiburg, col prencipe Odoardo fratello d'esso prencipe Ruberto, non si poteva allegare alcuna inconvenienza che impedisse il mandare una disfida a un cugino del re. Non per questo si deve far torto alla bravura del duca il quale, essendosi tant'altre volte cimentato con lode per cagioni leggerissime, essendo la maggior parte delle sue querele derivate da amori e da gelosie, altro non si può dire se non che in quell'occasione s'ingannasse nella scelta d'una resoluzione troppo rispettosa verso il suo prencipe.

 

 

<L'arcivescovo di Cantorbery e il vescovo di Rocester.>

 

Gilberto, arcivescovo di Cantorbery, è di nascita assai ordinaria, com'è la maggior parte di tutti i vescovi d'Inghilterra. È uomo finissimo, e che ha spirito e talento grande; l'apparenza è tutta mansuetudine ed il di dentro tutto malizia. Era amico del cancelliere, ed ha proccurato di sostenerlo in faccia del re: perciò non è presentemente benissimo visto alla corte. Si tratta bene, fa gran tavola e vive con delizia nel suo palazzo e giardino di Lambet dall'altra parte del fiume. A Oxford fabbrica a sue spese un magnifico teatro di pietra viva, per tenervi le conclusioni che al presente si tengono nella chiesa dell'università. Questa credo che si possa contare per l'azione più zelante ed apostolica di quel prelato, il quale nel resto è come tutti gli altri di quel paese. M'ha detto una persona ben informata, che senza barba non si stimerebbe gran cosa sicuro il rigirarseli d'attorno.

Essendo entrato a parlar d'ecclesiastici, dirò due parole del vescovo di Rocester, divenuto considerabile da poco in qua per uno spiritoso attentato ch'ei fece di voler metter le mani nel fesso davanti a' calzoni di milord Mun, giovanetto proprio per l'età ma non per la bellezza del volto, e d'accreditare le cattive interpretazioni date dalla corte all'intenzione di questo prelato. L'effetto si è che il pover uomo è in assai misero stato per lo scandolo universale che l'indiscrete ciarle di quel giovane hanno seminato tra quella canaglia dei <presbiterani>, i quali non solo hanno operato di farlo assentare dall'<incarico> che aveva, d'esser uno de' vescovi assistenti alla sedia del re in cappella, ma volevano farli perdere la chiesa. È ben vero che, s'ei non fusse statostretto amico del cancelliere, la cosa non sarebbe andata tanto al palio com'ella è ita; ed è fatto, mi dicono, che non è questo il primo sentore che si ha dell'inclinazioni di questo prelato. Pure la cosa è qui, ed egli paga per questo verso più la costanza verso l'amico vecchio che la fragilità verso il giovane. Fu ridicola, a questo proposito, la risposta che diede un solenne presbiterano in parlamento a un fratello di questo vescovo. Si discorreva dell'atto di comprensione, dal quale il presbiterano protestava che non dovess'esser esclusi i cattolici, sostenendo ciò con efficaci motivi di ragione. Quand'ebbe finito, disse il protestante a quello che gli era allato, in modo però da esser sentito: «Si vede che questo signore ha il papa in corpo». Levatosi su il presbiterano: «Certo», rispose, «assai più volentieri il papa in corpo, che il vescovo in culo».

 

 

<Il conte di Manchester.>

 

Il conte di Manchester, ciambellano del re, subalterno del conte Lindesey gran ciambellano, è il vero retratto dell'accidia: e veramente niuno può dolersi di lui se dopo averlo veduto in viso ne rimane ingannato. Per descriverlo in poche parole, anch'egli s'è messo dalla parte del re quando non poté far di meno: fu ben de' primi a discostarsi dal prencipe e dal resto (delle forze) più nemiche della monarchia. S'egli è uomo da bene ha gran disgrazia, perché, quantunque le sue parole, i suoi gesti, i suoi risi sian tutti dolcezza, tutti innocenza, tutti umiltà, nessuno gli crede e anzi mostrano d'esser tutti persuasi ch'egli sia uno de' maggiori furbi del mondo e che in quella testa non ci sia altro che il far danari in qualunque modo. Dal re ha tutto quel che domanda, benché glielo dia malissimo volentieri. Egli, se lo sa, non perciò si disgusta: piglia allegramente, e dopo una cosa ne dimanda un'altra, ottenuta anche quella si rifà da capo.

 

 

<Il duca d'Ormond.>

 

Giacomo Butler, duca d'Ormond, viceré d'Irlanda, s'introdusse col re nelle sue disgrazie, benché nel consiglio e nel maneggio delle cose pubbliche e private si mostrasse in ogn'occasione uomo di poca intelligenza e di mediocre accorgimento. Fece il soldato in Irlanda, in Francia, in Inghilterra, e da per tutto lasciò poca reputazione di valoroso. Ritornato col re, fu quasi l'unico de' suoi servitori che ricevesse mercede, essendo prontamente stato rimunerato col titolo di duca e con la carica di primo maiordomo della casa, e finalmente viceré d'Irlanda, che è il maggior grado, per dignità e per emolumento, che conferisce alcun prencipe cristiano europeo a' suoi servitori. In tutti questi maneggi ha mostrato il duca venalità infinita, facendosi conto che in sei anni che egli è stato in Irlanda, contro la massima fondamentale di <non> lasciarvi allignare il viceré oltre il primo triennio, sia per riportarne 60.000 lire sterline. Grandi sono stati i richiami e le strida dei popoli, ma lo sforzo del favore l'ha sostenuto. Si crede non sia per aver la terza conferma nella carica, ma che in quello scambio sia per darglisi quella di gran tesoriere, che vaca presentemente per la morte di milord Southampton, benché vi aspirino il vescovo di Londra, milord Ascheley e milord Hollis. Per ora viene amministrata da cinque commissari deputati dal re, che sono il generale milord Ascheley, il cavalier Tommaso Clifford, il cavalier Conventry e il cavalier Giovanni Duncombe, creatura intima di milord Arlington.

 

 

<Milord Robertz.>

 

Milord Giovanni Robertz, guardiano del sigillo privato, è uno di quegli uomini che s'è messo nel cuore di voler vedere quanto sa veramente campare un poltrone. La sua condizione è bassissima, venendo addirittura da un padre conciator di pelle, il quale, avendo con la sua arte rammassato di grandissim'oro, poté opportunamente sovvenire il re Giacomo in qualche suo bisogno, onde fu da lui per ricompensa fatto cavaliere e barone. Questo suo figlio, adunque, essendo divenuto cognato di Manchester, per esser le prime moglie dell'uno e dell'altro sorelle, ne' tempi delle rivoluzioni seguì sempre la sua fortuna, non in favore del re né del parlamento (benché fossero stati de' primi autori delle rivolte), ma formando un terzo partito, pronto ad accudire ai vantaggi dell'una e dell'altra parte, secondo il miglior riscontro che avessero trovato i loro interessi. Ritiratisi pertanto nella provincia di Cornovaglia, dove per la situazione de' loro beni sono essi, per così dire, i signori e vi hanno grandissimo seguito ed autorità, levarono quivi un piccolo corpo d'armata sotto il comando di Manchester (questo è l'istesso di quel di sopra) e la luogotenenza di esso Robertz, che non vedde mai faccia di nemico: e la sua gente fu in brevissimo tempo dispersa. Chiariti pertanto da questo e da altri avvenimenti, s'applicarono seriamente a stabilirsi col re e a travagliare al suo ristabilimento, patteggiando con esso, come tutti gli altri, ricompensazioni alte e indiscrete. Ciò venne lor fatto molto bene, e a Robertz toccò il sigillo privato, offizio molto considerabile in Inghilterra, dovendo passare per le sue mani tutte le materie di grazie personali e che non passano in perpetuità nelle famiglie, poiché quelle debbono passare sotto il sigillo grande del Regno. Da questo è assai facile intendere i due capi principalissimi onde questa carica è riguardevole, portando necessariamente seco l'adito continuo appresso il re e le ricompense e i donativi di tutti quelli che ricevono grazie, le quali può egli tassare a suo arbitrio. Egli però si vale con gran moderazione del primo e disprezza interamente il secondo: il che dicono alcuni non nascere in lui da virtù, ma da abbandonamento d'animo ai propri piaceri e da trascuraggine e disapplicazione alle cose sue, benché per altro sia uomo sottile ed accorto e proccuri di tenersi bene con gli altri principali ministri.

È ben il vero ch'ei se ne vive quasi sempre a Gelsery, in una sua villa discosta da Londra un miglio in circa; di dove dicono, a proposito della sua infingardaggine, che volendo il re due anni sono, all'avviso dell'ingresso della flotta olandese nel fiume Chathan, raunare il consiglio, e perciò mandatolo a chiamare sur un'ora un poco straordinaria, egli recusò d'andarvi per non interrompere il suo passatempo di giocare alle pallottole. È il suo temperamento ostinato, superbo, rozzo, indiscreto; ingordo di vivande, di tabacco e di vino, grand'amator di dame, e solamente vago degli agi e dell'oziosità del vivere.

Non è già così il figliolo, essendo egli giovane savio, cortese, giudizioso e aggiustato, e che già fa assai buona figura nella Camera bassa. È ben curiosa l'istoria del suo accasamento. Al ritorno del suo viaggio d'Italia cominciò egli a praticare in casa della moglie d'un certo Butteville, la quale ne' tempi addietro fattasi amica di Cromuell e di quanti soldati desiderarono la sua amicizia, si separò dal marito o, per dir meglio, ei medesimo se n'allontanò dichiarando la seconda delle due figlie, che aveva bellissime, per non sua. Questo giovane, praticando domesticamente in questa casa, dove si viveva con libertà proporzionata a un bordello, s'innamorò fieramente di questa seconda, contro la quale, oltre la presunzione disfavorevole dell'esser figlia d'una tal madre, militavano ancora diverse chiacchere, fomentate dalla passione che per lei avevano tre giovani cavalieri, tra' quali più particolarmente il conte di Cesterfil. Pur ei la sposò. Il padre sulle furie stette tre o quattro anni senza volerlo vedere, ed il suocero parimenti non ne voleva saper nulla. Questo giovane, disperato, monta un giorno a cavallo, se ne va in Cornovaglia dov'era il padre, se gli butta ai piedi, gli mostra il ritratto della moglie e gli dice che costei fu la cagione del suo fallo. Il buon vecchio, che non aveva finalmente il cuor di pietra, guardatala e riguardatala, gli entrò a traverso e, scusato interamente il giovane, ritornò seco da quel punto in tranquillità ed in pace. Per lo che, tornato il figliolo con la moglie in casa, il padre rimaritato di poco con una giovane e bella donna, trovarono il modo di star d'accordo (vogliono dire alcuni) per la discretezza del padre e per la saviezza del figlio. S'aggiustorno poi anche col padre di lei, in questa forma: che egli lascierebbe erede questa figliola, essendo l'altra di già morta, con che Robertz pagasse un tanto l'anno a lui e un tanto (se non erro) alla moglie, benché in divorzio, obbligandosi di più a dar al figliolo mille lire l'anno per mantenimento suo e della moglie. È ben vero che, venuto quest'uomo a morte, instituì un altro erede, lasciando solo quattromila lire alla figliola per sua legittima, la quale essendo stata fatta apparire maggiore per l'onnipotenza del Finkio, che in questo caso ha messo sottosopra cielo e terra, è stato giudicato invalido il secondo testamento, e Robertz è entrato in possesso di tutta l'eredità, che sarà intorno a duemila lire d'entrata. Di suo averà da sedicimila scudi.

Padre e figliolo son presbiterani ed ambedue gelosissimi, sapendo forse che razza di donne egli hanno alle mani. La madre di lei per certa malattia perdé il naso, ed essendo stata a curarsi in Francia, ne tornò con un posticcio così galantemente aggiustato, che con tutti i cinquant'anni che ella ha sulle spalle non lascia di apparire una bella e fresca donna.

 

 

<Il conte di Lauderdal.>

 

Giovanni, conte di Lauderdal, scozzese, commissario deputato dal Regno di Scozia appresso al re, si può dire che sia la serpe tra l'anguille, e tutto il suo male consiste nell'esser troppo conosciuto. I suoi talenti naturali son grandi, le maniere d'operare son soprafini: niuno meglio di lui sa inventare, ed è l'uomo più proprio per formar partiti e distruggerli secondo l'esigenza de' propri fini. Nelle sue mani è tutto il rigiro della religione e dell'interesse del suo paese, e la sua carica portandogli la domestica introduzione col re, gli campo d'insinuar le sue massime e di far provare l'efficacia delle sue arti: dicono, assai più spesso in pregiudizio de' suoi nemici, e forse talora degli indifferenti, che in vantaggio degli amici. Tutti gli voglion male ed egli vuol bene a pochi. Il suo impiego ordinario è di fumare e di bere, ma né il tabacco né il vino lo cavano mai di scherma, anzi si serve dell'ubriachezza per farsi meglio valere col re, il quale si piglia gusto de' suoi discorsi, particolarmente quando lo vede in tale stato: egli s'accorge di servir di trastullo, ma si fa pagar caro il trattenimento che altri piglia di lui, anzi fa mercanzia del far ridere. Nei tempi andati fu contro il re, ed una lunga prigionia l'ammaestrò nella cognizione dell'istorie, per l'assidua lettura ch'ei prese a farne; ed al presente è questo il forte de' suoi adornamenti, come l'astuzia <e> il rigiro è quello delle sue abilità e, può dirsi, della sua presente fortuna.

 

 

<Lord Ascheley.>

 

Milord Ascheley Cooper dicono che sia di nascita oscurissima, arricchito per l'eredità d'uno di questo cognome. Cominciò con l'ipocrisia a rendersi necessario ai rigiratori delle turbolenze. Cambiò poi molte volte di partito secondo il vento e fu sempre infedele a tutti, finché, resosi necessario al re nel suo ristabilimento, ne ha riportato per quest'ultimo servizio la ricompensa che non meritava per la sua passata condotta. Egli è fatto ora barone e pari del Regno, del privato consiglio, e tesorier delle prese, la più bella carica per rubare che sia in Inghilterra, con cent'altri impieghi che l'hanno fatto ricco. Uomo scaltro, che fa il semplice e non lo è, fa l'amico di tutti e non l'è di niuno, ha parole melate e cattivissimi fatti, non ha alcuna politura d'erudizioneabilità che trascenda la pratica delle cose ordinarie del Regno, non essendosi mai internato nel maneggio degli affari stranieri. È presbiterano, ed il suo maggior talento è d'introdurre un negozio e di venirne a fine secondo il suo intento, non già per una superiorità di spirito ma per una prodigiosa affluenza di rigiri, di bugie, di partiti e di cabale. Ha avuto due moglie: questa che ha presentemente è bella e disinvolta in tutti i generi. Ha un figliolo unico, che dicono maritarsi adesso.

 

 

<Il conte d'Anglesey.>

 

Arthur, conte d'Anglesey, è un uomo che tra la natura e la gotta hanno reso una figura ridicola, non potendosi direstroppiatosano. Egli è alto di statura, ha capelli corti e ricciuti, la testa è quasi calva, il viso lungo e macilente, il colorito tra pavonazzo e verde, gli occhi spaventosi: ha la bocca aperta, come se sempre volesse ridere, benché mai non lo faccia. È reputato uomo di pochissimi talenti, bugiardo, avaro, ingannatore, che in tutte le sue cariche è stato lacerato dal popolo, stimato affatto senza religione, che non ha mai servito il re se non quando non ha potuto farne di meno e che ha creduto trovarvi il suo utile.

Tutto il lustro maggiore della sua famiglia comincia in lui, come anche la sua ricchezza è divenuta in poco tempo grandissima, e la tesoreria d'Irlanda amministrata da lui per molti anni può renderne buon testimonio. Adesso il re gli ha fatto scambiare la sua carica con quella di tesoriere dell'armata navale, posseduta dal cavaliere Giorgio Carteret, indotto a levarla a questo per sodisfare alle strida de' soldati e de' marinari della flotta, i quali, necessitati dalla fame che la di costui avarizia faceva loro stranamente soffrire, sono stati più volte in procinto di gettarlo in mare e di scannarlo in terra; il che averebbe<ro> fatto se gente del suo partito non se gli fosse levata in aiuto. Anche il parlamento l'intendeva male contro di lui e voleva procedere a una rigorosa revisione de' conti delle somme immense passate per le sue mani in quest'ultima guerra: tanto che, non meno in riguardo del primo che di questo secondo motivo, è convenuto al re levarlo di quella carica, mandandolo in quello scambio (tanto può il partito di questa gente con quel povero prencipe) a dilapidar l'erario d'un altro Regno.

 

 

<Due cavalieri.>

 

Il cavalier Guglielmo Maurizio, segretario di stato, nell'istessa riga di milord Arlington, è un vecchio decrepito, consumato negli affari e che alle volte ha fatto gran figura alla corte, ma ora il favore del suo collega lo rende affatto scuro e di niuna considerazione, rimanendoli appena l'esercizio della sua carica nelle cose di niun rilievo.

Il cavalier Conventry, della casa Willielms, figlio cadetto d'un conte Conventry che fu tesoriere del Regno, è uomo civile, ornato di belle lettere, e che mostra grand'affabilità. Ne' tempi passati, dopo aver viaggiato gran parte dell'Europa, ridottosi in Inghilterra sui principi delle guerre civili e mescolatosi negl'affari, in tutti i maneggi che egli ebbe, prima contro e poi in favore del re, acquistò titolo di prudente. Servì da principio nella carica di segretario della marina, e fu sua creatura diletta. Ora però è in disgrazia, per esser anch'egli entrato nella cabala con milord Arlington, il duca di Buckingam ed altri nemici del cancelliere per rovinarlo. È stimato uomo di abilità ma di poco cuore e di spiriti bassi, benché, a dire il vero, non abbia mai fatto azione d'acquistarsi tal fama. La sua mira è d'arrivare un giorno a esser segretario di stato. La sua taccia è d'ingrato e di simulatore.

 

 

<Lord Hollis.>

 

Denzil milord Hollis è fratello d'un conte e per conseguenza (come chiamano in Inghilterra) nobile d'estrazione. Dalla sua gioventù è stato sempre impiegato negli amori e nei negozi. Ha viaggiato il mondo, è intendentissimo dei paesi, dei costumi e degli affari stranieri. Introdotto dall'anno quaranta nella Camera de' comuni, fu dei capi più principali delle sedizioni ed uno dei più fieri nemici di quel povero principe, il quale avanti la sua ruina volendo perderlo, si vedde sollevar contro tutta la plebe di Londra per coprirlo dalla sua vendetta. Riconoscendo egli poi che la fortuna non gli manteneva a un gran pezzo le sue promesse nel governo popolare, dopo aver vissuto un tempo ripentito delle sue macchine, ridotto a vivere con sospetto di Cromuell e del governo, gli venne fatto di rimettersi nel servizio del re, ed inviato in Francia con titolo d'ambasciatore, ha dimostrato, tanto in quell'ambasciata quanto in quella di Breda, d'essere uno spirito sottile, ferace di partiti e di temperamenti, e atto al maneggio de' grandi affari. Il suo tratto è disinvolto, ed anzi troppo rispettoso che poco cortese. La sua generosità è splendidezza, e piuttosto da prencipe che da privato cavaliere. Comincia ad essere attempato, ma né i negozi né gli anni gli hanno potuto mai levar del capo la galanteria.

 

 

<Il conte di S. Albano.>

 

Arrigo Germain, conte di S. Albano, cadetto della sua casa, che non è grandissima, fu paggio della camera di presenza della regina madre d'Inghilterra: bellissimo giovane, che per merito di bellezza fu sempre grato alle donne. Ottenne per primo frutto di qualche nascente favore, d'esser fatto cavaliere, di cavaliere amante; d'amante, seguitando con gran costanza le avverse fortune della sua dama, arrivò, finite quelle, al titolo di barone e finalmente alla carica di primo maiordomo della regina, che tuttavia ritiene. Uomo splendido, fortunato, liberale, giocatore: uomo, insomma, che ha l'aura de' cortegiani ma non la stima de' soldati né quella de' ministri; la prima pregiudicatasi in qualche occasione, la seconda nel maneggio di questi ultimi negoziati, corsi avanti l'ultima guerra tra l'Inghilterra e la Francia, che tutti passarono per le sue mani. Presentemente non fa gran figura alla corte, avendo contribuito unitamente a screditarlo il baron de Lisola e l'ambasciator d'Ispagna, facendoglielo apprendere, com'egli è in effetto, per un uomo che ha giurato nelle massime del consiglio di Francia e che non opera con altra mira che di promuovere a qualsivoglia costo dell'Inghilterra i vasti progetti di quella corona. Egli però, senza l'ambizione della corte, trova di che vivere, abbondantemente contento nelle sue delizie e ne' suoi piaceri, all'uno e all'altro de' quali è dato straordinariamente; e la borsa della regina madre, che sta sempre aperta a tutte le sue voglie, gli somministra ampiamente il modo di sodisfarsi. Comincia ad esser attempato, è assai corpolento, ma con tutto ciò se gli riconoscono nel volto i tratti d'una maravigliosa bellezza.

 

 

<Samuel Morland.>

 

Il cavalier Samuel Morland è un uomo che per ragione di qualche straordinaria abilità nell'aritmetica, nelle meccaniche e nell'intelligenza delle cifre è in qualche considerazione col re. Egli era studiante nell'università di Cambridg quando Cromuell, assaporati casualmente i suoi talenti, lo tirò appresso di sé per fare un allievo; e crescendo ogni giorno verso di lui la confidenza e l'amore, lo messe a parte degli affari. Maturato con questa pratica e rischiarito con questi lumi l'intendimento del giovane, fu inviato a Turino in qualità di residente, di dove passò a Ginevra col titolo di ambasciatore appresso quella repubblica, per accreditare con queste speciose apparenze il falso zelo del suo signore. Ritornando in Inghilterra per la strada di Francia, si legò di parola col padre d'una giovane normanda, ugonotta di religione, -- della quale era venuto con animo d'innamorarsi sulle relazioni avutene in Ginevra da una sua cugina, -- di tornarla a sposare; e benché allora gli convenisse passare il mare per la fretta che gli faceva il Cromuell, nondimeno non passò un anno che le nozze seguirono. Aveva egli in quel tempo uno stipendio di sopra tremila lire sterline, con promessa d'esser avanzato alla carica di segretario di stato alla morte di quello che allora ne godeva il titolo e l'apparenza. Niuna cosa giunse mai a sua notizia di cui egli, con suo rischio infinito, non facesse consapevole il re, fino a salvar la vita a lui e al duca suo fratello, che doveva essergli tolta in vicinanza di Londra in casa di un traditore. Era costui stato guadagnato dai partigiani del re, per riceverlo nascosamente in una sua villa in compagnia del duca; ma considerando egli <il> caro prezzo che poteva cavare di questi due prencipi, fu a trovare il cavaliere e, pattuito un prezzo di quarantamila lire sterline, gli scoperse la pratica. Il cavaliere ne spedì subito avviso al re, che non aveva per anche passato il mare, e poi si portò a significare al Cromuell il suo negoziato con quella buona persona, che fu benissimo ricevuto; ma la cautela dei prencipi, anticipatamente avvertiti, fece riuscir vana l'espettazione del protettore. Morto il Cromuell e rimasti divisi i corpi dell'armate, cominciò ad accorgersi il cavaliere che i fini del Monk erano favorevoli al re; ma conoscendo lo svantaggio delle sue truppe, e che venendo a giornata col Lambert e col <Fairfax> sarebbe stato battuto senza fallo, seminò opportunamente tali differenze e intimò tali gelosie reciprocamente tra questi due capitani, per l'addietro unitissimi, che non solo gli venne fatto d'indebolire le loro forze, ma di sfiorire eziandio e quasi affatto sbandare le loro truppe in avvantaggio di quelle del Monk, sulle di cui forze affidati i popoli cominciarono a gridare «Viva il re!» da per tutto il Regno.

Pochi giorni avanti la chiamata del re il cancelliere volle pigliare una riprova infallibile de' suoi sentimenti verso di lui, in questa maniera. Gli scrisse una lettera colla cifra ordinaria del re ed in persona dell'istesso re, nella quale gli domandava, per compimento di tanti e sì rilevanti servizi resigli, volesse dirli schiettamente come s'era portato il suo cancelliere, e quanto poteva promettersi della sua fede nell'avvenire. Il cavaliere, che amò meglio l'esser fedele al re che al ministro, gli rispose che, quanto alla fede, l'aveva riconosciuta sempre integrissima, che del resto non aveva il cancelliere per il maggior politico del mondo, e che averebbe desiderato in lui maggior circospezione nel parlare: non perché avesse mai mancato, ma sulla sola considerazione che il silenzio era l'anima de' grandi affari. Ciò diceva egli perché il cancelliere, vanissimo millantatore d'ogni suo pensiero, appena concepiva una cosa vantaggiosa per il re, che la gola d'esserne applaudito l'induceva a farne tante confidenze a questo o quello, che o prima o poi inciampava nella spia del Cromuell, e il bel disegno svaniva. Ora chiaritosi il cancelliere per questo verso del Morland, ed assicurato con qualche artificio ch'ei non tornerebbe a parlare al re sopra questo particolare, non gliela perdonò mai. Proccurò il cavaliere con un viglietto di scusarsi seco: confessando il fatto e giustificandosi il cavaliere fece sempre a <lui> credere che l'ingannasse. Basta, che le sue remunerazioni finirono in un titolo di cavaliere baronetto ed una pensione di 500 lire. Il suo temperamento è maninconico e un poco eteroclito, e le sue applicazioni hanno dato campo a' suoi emoli di screditarlo col re, facendolo passare per filosofo: onde, toltone il divertimento della curiosità, non ha di lui grandissimo conto; e per verità i talenti nel politico non son maravigliosi.

 

 

<Ambasciatori alla corte.>

 

Don Antonio Messia de Tovar y Paz, conte di Molina, ambasciator cattolico alla corte d'Inghilterra, è un garbatissimo cavaliere per quel che risguarda l'affabilità, la gentilezza, la generosità e la cortesia; ma il suo mestiere non è quello di ministro, perché sebbene cerca di supplire con l'applicazione e con la diligenza a quel ch'ei non può arrivare con gl'avvantaggi d'un grande spirito e con una certa superiorità a' negozi, in ogni modo si richiederebbe qualche cosa di più, particolarmente in una corte dove, per lo scompartimento dell'autorità tra il prencipe e i sudditi, ci vorrebbe uno spirito operativo e rigiratore. Il suo mestiere è stato sempre in cose dell'azienda reale, e quando passò in Inghilterra partì da Brusselles dove esercitava la carica di veidore, la quale aveva tenuta già molti anni: anzi, l'unico motivo di mandarlo a Londra fu per avervi una persona accettata al re e grandemente benemerita di esso, atteso i rilevanti servizi che mediante l'imprestito di grosse somme di danaro aveva reso quando visse in Fiandra, non altrimente che in qualità di privato e di povero cavaliere.

È il conte piccolo di statura, pieno di vita e assai bianco in volto. La sua età, secondo l'apparenza, passa di poco i quaranta anni. Ha moglie brutta. Si tratta nobilissimamente: fa tavola, usa con rispetto e cortesia infinita verso di tutti, il che alla corte gli ha acquistato benevolenza universale. Ha un mendo, ossia infirmità, attribuita ordinariamente dai medici a sublimazione di vapori ipocondriaci, che obbligandolo spessissimo a chiuder fortissimamente l'occhio destro e a torcer la bocca verso quella parte, gli contraffà stranamente il viso facendolo parere apopletico.

Del conte di Dona, imbasciatore di Svezia, ne diedi ragguaglio quest'inverno mentr'ero all'Aia, dove egli si trovava con l'istesso carattere d'imbasciatore agli Stati Generali: per lo che, tralasciando il discorrerne, trapasserò al baron de Lisola, inviato straordinario dell'imperatore. Questo degnissimo soggetto non ha bisogno né d'esser dato a conoscere né d'essere lodato da me, essendosi egli reso abbastanza riguardevole co' scritti e co' suoi negoziati in tutte le corti d'Europa, benché si potesse forse dire che la sua missione sia stata di mal augurio a tutti quei prencipi appresso i quali è andato a risiedere in qualità di ministro, non mancando chi attribuisca a' suoi negoziati l'estremo pericolo di Danimarca nell'assedio di Coppenaghen e l'invasion della Pollonia. Egli è uomo che, a giudicarlo dall'esteriore, non è molto lontano dai sessant'anni, di statura giusta, macilente di vita e di volto, e d'aria piuttosto tetra e funesta. Il negozio è la sua applicazione, il negozio il suo sollievo, il negozio il suo nutrimento. Parla come nativo le quattro lingue: spagnola, francese, italiana e todesca, benché sia della Franca Contea. Scrive a meraviglia e parla sempre come egli scrive, infervorandosi così presto nel ragionamento che, lasciando la forma di discorso familiare e passando agli argomenti, deduce le sue ragioni con sì belle prove e le illustra con sì belli esempi, che par piuttosto di sentir leggere un libro che parlare un uomo. Conosce però quel ch'ei vale, ed è grande svantaggio di chi si ritrova seco ed ha le mani negli stessi affari, potendo esser certo che la figura la vuol far egli; e spesso si scorda troppo interamente del compagno per salvar l'apparenza, com'è intravvenuto ora in questi negoziati di lega tra l'Inghilterra e l'Olanda, nei quali il conte di Molina, con tutto il carattere d'ambasciatore, ha ricevuto gli oracoli dall'inviato cesareo, benché si agisse principalmente dell'interesse del suo padrone.

È il barone uomo di somma religione verso Dio e di zelo ardentissimo verso il suo prencipe; del resto è uomo onnipotente, e che non ha misura nella forza delle sue parole e nella efficacia dei maneggi ch'egli inventa per operare. Insomma il maggior ministro che abbia forse la casa d'Austria e forse l'Europa tra le corti dei prencipi. È ammogliato e la moglie, che comincia a esser d'età, benché raffinata seco in tutti i viaggi, in tutte le corti e fino per l'armate di Pollonia e negli assedii, dove si trovò la regina o il marito, con tutto ciò non ha quel tratto né quella nobiltà di maniera che da una tal donna s'aspetterebbe. Ha una figliola unica di grandissimo spirito, la quale ha maritata ultimamente al baron Spran fiammingo, nativo di Lovanio, giovanetto di diciasett'anni ed assai bel cavaliere.

Monsieur de Ruvigny, inviato straordinario di Francia, è avanzato nell'età ed ugonotto di religione. È uomo attentissimo ed indefesso nell'applicazione del ministero, si trova sempre per tutto e pensa a tutto, ed è difficile occultare a' suoi occhi cosa che sia. Mentr'ero in Inghilterra la qualità di ministro francese non gli arrecava grand'aura nella corte: onde si riduceva più volentieri nel gabinetto della duchessa, che tuttavia si considera come francese, che in quello della regina, e la sua quotidiana conversazione era in casa del conte di S. Albano, chiamato universalmente l'inglese ambasciatore di Francia in Inghilterra. È Ruvigny cortese, savio e posato, e in niuna cosa, fuori che nella vivezza dello spirito operativo, se gli riconosce alcun carattere di francese.

Trapasso gli ambasciatori d'Olanda perché, non vedendosi mai in alcun luogo, confesso il vero che non m'è troppo sovvenuto domandare quel che si sieno: è ben vero che, per quanto ne ho sentito casualmente discorrere, non ho trovato chi abbia gran concetto della loro sufficienza, e certa cosa è che non fanno figura corrispondente al lor posto.

<Forastieri alla corte.>

Dirò adesso di qualche forastiero che ho trovato alla corte. Mi sovviene in primo luogo, come persona di già stabilita in Inghilterra da parecchi anni, un certo personaggio italiano che si fa chiamare degli Ubaldini. Come egli si sia nato, non lo so: so ben quel ch'ei s'è fatto di poi. Presentemente professa la religione protestante, e a quattrocchi si confessa ateista; c'è chi dice ch'egli sia stato frate e, dato nell'apostasia, andasse in Constantinopoli e quivi, fattosi circoncidere, tentasse la sua fortuna, ma che trovandola poco favorevole, dopo aver fatto vari mestieri in diverse parti d'Europa e in varie corti de' prencipi eretici, se ne venisse a Londra: dove, spacciando la nascita a <prezzo di> qualche superficiale erudizione, ottenne qualche sussidio dal re e qualche pensione dai vescovi, con le quali anche presentemente si sostiene. È giovane forse di 32 anni, ma straordinariamente grasso e che col tempo si ridurrà affatto inabile al moto. Non ho ammirato in lui gran rarità di talenti, e particolarmente v'ho osservato un discorso, affluente bensì, ma disordinato, confuso e che non tiene il fermo, passando sempre d'una cosa in un'altra senza terminarne nessuna. La sua lingua fende senza misericordia, e in tutti i suoi ragionamenti affetta l'impietà e fa gala dell'ateismo. Si picca di uomo morale, ed ho qualche riscontro che abbia qualche sorte di legge con gli amici. È dedito, per quanto ei dice, fuor di modo ai piaceri di tutti i generi.

Prima di uscire degli Italiani dirò del marchese Gioseppe Malaspina d'Olivola, fratello della marchesa Malaspina, stata figlia d'onore di madama di Toscana ed ora monaca nelle carmelitane scalze di Genova. Questo cavaliere, desideroso di uscire dalle solitudini di Lunigiana, passò al servizio della regina di Svezia in qualità di suo gentiluomo della camera, poco tempo avanti che ella partisse di Roma. Andato con essa in Hamburg l'anno passato, ottenne licenza d'andar a medicarsi all'acque di Spa, di dove con nuova licenza passò in Inghilterra e venne a Londra. Quivi introdottosi in una casa inglese, egli piacque ad una fanciulla protestante e a lui piacque una dote figuratagli di 8000 lire, la quale considerando di gran lunga superiore a quella ch'ei poteva sperare nel suo paese attese le sue mediocri facoltà, cominciò a trattare il matrimonio. Da principio la donna si mostrava renitente ad abbandonar la sua religione, ma non a passare in Italia: onde per mantenimento d'un ministro e altre sue particolari occorrenze intendeva ritenersi qualche parte della sua dote; al che il marchese era quasi disposto di consentire. Ma sentito il parere di qualche amico suo, che gli messe in considerazione l'impegno, dove egli entrava, d'aver a tener moglie eretica in Italia, era quasi disposto a non ci far altro. Ho poi inteso che la dama concorse risoluta a farsi cattolica, e solo le rimaneva lo scrupolo della comunione sotto tutt'a due le spezie, onde tengo per fermo che il marchese ci cascherà. La nascita di lei è buona e buoni sono i costumi, per quanto si può promettere d'una donna inglese: è bruttissima e d'uno spirito piuttosto feroce che vivo. Il marchese è un buonissimo cavaliere, ma, toltane la nascita, non ho riconosciuta in lui alcuna cosa che passi la mediocrità.

Trovasi in Londra un gentiluomo lucchese di casa Pagnini, giovane di 22 anni incirca, che aveva già fatto un gran giro per la Pollonia e per l'Alemagna, ma con poco profitto, conservando tuttavia una compassionevole povertà di spirito.

Il marchese di Flammarens, cavaliere francese di Normandia, son già intorno a quattr'anni che sta a quella corte, dopo aver perduti tutti i suoi beni in pena del duello in cui egli si battè per secondo contro i due fratelli marchesi della Frette. Il primo suo refugio fu all'Aia, di dove partì per imbarcarsi sulla flotta olandese quando uscì per la prima battaglia: e, gionto a vista dell'armata inglese, passò sur una piccola barca sull'ammiraglia d'Inghilterra dove era il duca di York. Dopo la battaglia passò a Londra, e introdottosi con milord Arlington, questo gli ottenne dal re un aiuto di costa di 300 lire. Di poi è stato sempre alla corte, dove è benissimo visto dal re, che l'ammette spessissimo alle sue cene in casa la duchessa di Monmouth e, talora, alle sue scapigliature in materia di bere. Dicevano ultimamente che fosse cominciato a venirgli a noia e che gli desse soggezione, ma che facendo il marchese le finte di non se n'accorgere, il re al suo solito non avesse animo di liberarsene in qualche modo. Ha ben fatto il possibile per il suo ristabilimento in Francia, ma il re se n'è sempre scusato, allegando lo scrupolo della coscienza in contravvenire al giuramento fatto di non perdonare i duelli. La duchessa di <Chaulnes>, sorella di quelli della Frette, pensava ultimamente di interessarci il papa per levar al re questo specioso pretesto. È il marchese bellissimo cavaliere, piace alle donne e le donne piacciono a lui: si discorreva d'un parentado molto ricco con una dama cattolica. È bravo, giudizioso, aggiustato e cortese, insomma non merita per nessuna cosa i pregiudizi della sua presente fortuna.

Del marchese di Sainctot, francese, scrissi al suo arrivo le cagioni della sua venuta in Inghilterra: cioè per esser incorso nella indignazione del re e per aver perduta la carica di luogotenente delle guardie, per non esser andato all'impresa della Franca Contea, non so veramente se per violenza delle tenerezze materne o per aver conosciuto nella passata campagna, dove toccò una moschettata in una coscia, il mestier della guerra poco confacevole al suo umore. Certa cosa è che se il re gli dava tempo, egli intendeva di vender la carica; ma presentemente è fuora di questo pensiero. Questo giovane è stato a Roma qualche tempo, ed in ogni luogo il vino ed i piaceri in ogni genere sono stati il fondamento di tutti i suoi pensieri, di tutti i suoi discorsi e di tutte le sue applicazioni.

Il sig. di Beringhen, francese e ugonotto di religione, di natali molto mediocri ma figlio d'un padre assai ricco, si trovava in Inghilterra da qualche mese. Egli è giovane di 25 anni incirca, tirato innanzi per l'avvocatura mediante gli studi legali, venutone alla corte subito dopo la pace di Breda di compagnia di monsieur de Ruvigny, dove si introdusse alla cognizione di molti segreti andamenti. È stimabile per la sua curiosità e applicazione nel profittar de' viaggi, ma ridicolo per le sue sordidezze, ma intollerabile per la sua prosuntuosa vanità e sfacciataggine, dandosi ad intendere, come egli dice per tutto, di aver con la sua savia condotta e discreta moderazione ristabilito la fama e, se è possibile, superato l'avversione naturale alla nazione francese in Inghilterra.

Fra le camerate del conte di Dona v'è in primo loco il nipote, che porta l'istesso cognome. Questo è un giovane di 24 anni, bello, ma d'una bellezza senza veruna lega di nobiltà d'aria né di fierezza di spiriti. Non lascia però d'esser pieno di vanità e crede esser cagione di gran sospiri a tutte le dame della corte. Il re gli fa cortesia e per conseguenza ne trova in casa del duca e della duchessa. Io l'ho trattato poco, ma in quel poco l'ho riconosciuto impertinentissimo e di natura soprastante. Attacca volentieri discorsi di religione e affetta gran disprezzo de' cattolici.

Il conte di Brodereden, olandese anch'egli, nipote dell'ambasciatore, è un vero olandese, rozzo, mal all'ordine, poco civile e astratto, se non stordito: gli amori con una vedova e il vedersi passare innanzi dal cugino nel favore del re, lo teneva in grande inquietudine e malinconia.

Il baron Spran, giovanetto svedese, di nobilissima famiglia, ma di facoltà assai mediocri, non avanza con alcuna rara prerogativa di spirito l'ordinarie imperfezioni della sua tenera età.

Il conte di Wrangel, figliolo unico del contestabile, sento che sia morto in pochissimi giorni. Non è dubbio che questa perdita sarà inconsolabile al suo povero padre, i di cui magnanimi spiriti traevano un vigoroso alimento dalla vita di questo figliolo per le sue grandi speranze. È ben vero che a considerar questo soggetto senza la passione di padre, si trovano assai facilmente i motivi da consolarsi, mentre il suo spirito, ch'egli aveva non meno stravolto degli occhi, e l'animo non men contraffatto della sua persona, non prometteva né più alte né più nobili inclinazioni di quelle che in tenera età avevano gettate così profonde radici nel suo core: erano queste l'ubriachezza, il bordello, il giuoco e talvolta la bestemmia. Pure sarebbe stato più tollerabile se il cervello gli fosse stato sempre in un istesso grado; ma sento che alle volte pativa delle caligini assai torbide.

Dirò per ultimo come nel conte Gustavo Adolfo della Gardie, figliolo primogenito del gran cancelliere di Svezia, in due mesi di continua conversazione, che ben presto divenne strettissima e confidente amicizia, non ho mai saputo ritrovarne altra imperfezione che una eccedente delicatezza e una troppo fissa applicazione in materia di onore, la quale si potrebbe anche ridurre a virtù se nascesse tutta in lui da elezione della mente, senza che vi avesse alcuna parte l'influenza d'un temperamento serio, maninconico e solitario. Da questo in fuori, la cortesia, la modestia virginale, l'attenzione, la puntualità, la finezza, la disinvoltura è accompagnata a un rispettosissimo riguardo; l'aperta libertà di cuore, la nobile curiosità, l'erudizione, il diletto di tutte le cose belle, lo studio, il giudizio, la maturità de' discorsi e delle riflessioni me l'hanno reso un cavaliere stimato, e a tal segno, che ripongo la sua amicizia tra gl'acquisti maggiori che io creda esser capace di riportare da' miei viaggi. Ho nuove ch'egli si ritrovi al presente in Olanda, per incominciare il suo giro per l'Alemagna e di venir in Italia e trovarsi a Firenze l'estate avvenire.

 

 

 


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