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Si dovrebbe ora parlare della regina Cristina: ma perché ella è così ben conosciuta in Italia quanto si sia in Svezia, e perché il mio viaggio è succeduto tanto dopo alla sua abdicazione e partenza dal Regno, tralasciando ogni altra cosa mi ristrignerò solamente ad alcune poche notizie intorno alla medesima abdicazione e motivi di essa.
Il gran cancelliere Oxenstiern fece il possibile per bene allevare la regina, e mentre che da lui fu governata ebbe sentimenti di giustizia e di prudenza. In una cosa sgarrò, che si credette di comandar sempre e che la regina sempre dovesse depender da lui: la buona maniera del conte della Gardie, che in progresso di tempo fu anch'egli gran cancelliere, è verisimile che la vincesse sopra la venerazione tenutagli. Quando il conte fu mandato in Francia, dicono per cosa certa che nelle lettere credenziali ci fussero queste parole: che ella mandava al re il più bell'uomo che fosse nel suo Regno. Questo, ritornando da' suoi viaggi con sentimenti pieni di prodigalità, ricresciuti ancora dalle fresche idee della corte che aveva trattato, fu il primo ad inspirargliene. Da tali princìpi ne nacque che ella cominciò a far poco caso de' consigli del gran cancelliere, e disprezzandolo lo trattava da pedante: anzi, quando si fece la pace d'Alemagna, scrivendo al figliuolo gl'ordinò che a dispetto di suo padre sottoscrivesse la pace, altrimenti che il diavolo gliela farebbe segnare.
Contribuì molto alle profusioni della medesima l'avidità di tre signori, i quali allora erano chiamati i più grandi ladri di Svezia: Tunguel, Guldenclou e un altro, segretario di Livonia. Le profusioni dunque della regina e l'avidità di coloro che gl'erano attorno, praticati per tutto il tempo della sua reggenza, arrivarono a tal segno che vi sono delle province, e delle migliori, dove non resta un contadino al re; sì che si può dire che le principali cagioni de' disordini succeduti sieno stati la debolezza della regina e l'avarizia di chi la governava, piuttosto che alcun determinato consiglio o cabala, quantunque gli Spagnoli non vi abbian aùto piccola parte, essendo certo che don Antonio Pimentelli gli fece spender molto del danaro d'Alemagna, e proccurò di rovinarla per quei fini de' quali appresso si parlerà. E si crede che una delle ragioni della sua abdicazione fosse quella di vedersi esausta, e di non aver più modo di saziare l'ingordigia d'ognuno: di ciò i burgesi e contadini fecero molte volte pubblica querela nelle diete, quando, essendo indotta ad estrema necessità per mancamento dell'entrate della corona, ell'era obbligata a domandar de' sussidi, con aggravio dei medesimi burgesi e contadini che dovevano somministrarglieli. E sebbene le loro querele nel tempo della sua reggenza non furono udite, fin d'allora si motivò che per liberare il pubblico dagl'aggravi e stabilire l'assegnamento per la sussistenza del principe si dovessero ritirare gli beni da quelli a' quali erano stati donati.
Il re Carlo Gustavo, venendo alla corona, trovò che lo stato regio non poteva sussistere senza gli beni della medesima corona; e si crede che Herman Fleming, senatore del Regno e consigliere della camera de' conti, insieme con Coiet, segretario di stato, fussero quelli i quali gl'insinuassero questa massima. Almeno promossero quest'affare nella dieta, d'onde ne uscì un decreto, che quelli i quali possedevano i beni regii, o per mercedi o per compre o con altro titolo oneroso, gli potessero ritenere, ma che di quello che fosse stato acquistato o per donazione o con altro titolo lucrativo, ritornasse alla camera regia tutto ciò che fosse dentro una lega intorno alle case del re, oppure fusse de' beni che sono necessari alle fabbriche delle miniere, e la quarta parte del resto. Per l'esecuzione di questo decreto fu deputato un consiglio che si chiamò il consiglio della riduzione, il quale doveva riunire i detti beni alla corona; ma si è portato così male (sì come ancora il senato), che per tutta l'età minore di questo re avendo de' sopraddetti beni o lasciato il possesso a chi l'aveva o dato facultà di ritenergli fino all'età maggiore del re, o toltigli ad uno per dargli ad un altro, in sostanza non si è riunito nulla alla corona. Solamente Fleming e Coiet si hanno profittato, che per ricognizione godevano la buona grazia del re, ed il primo fu nel suo testamento lasciato gran tesoriere; al che però la nobiltà s'oppose, per l'odio grande che gli portava a causa della stessa riduzione.
Oggi il re, dichiarato maggiore, insiste nelle massime del padre, e di già ha ricuperato tanti beni che bastano per il mantenimento di tre compagnie di cavalli d'Upland, e le sei di Aschemberg nella Vestrogozia ne saranno anche formate: nell'Ostrogozia e in Finlandia ne hanno ricuperato una parte, il che fa molto stridere e fa de' mal contenti. Il re ci è portato dal gran tesoriere, <dai> due Guldenstiern, <da> Rolamb, Gripenhielm, Lindenschiuld, i quali non avevano aùto niente e non hanno gran bisogno. Il consiglio sussiste sempre, e s'è fatto più in un anno che non s'era fatto in quindici.
Ma tornando alla regina, il primo e principal motivo dell'abdicazione della medesima fu il seducimento maneggiato da Pimentelli e da Montecuccoli. Questo fu spedito dalla corte di Vienna con due commissioni: la prima, di far rinunziare la regina e far eleggere il re Carlo Gustavo, la seconda, d'istigare sotto mano gli Svezzesi a pigliar Brema; l'un'e l'altra mirava a dar degl'imbarazzi alla Svezia. La regina, dipinta in Spagna da Pimentelli quale gliela mostrava la sua passione e assistita dalla prudenza del cancelliere, faceva apprender per sommo vantaggio della casa d'Austria se un giorno escisse del Regno lasciandolo al cugino, dalla di cui apparente debolezza si promettevano in primo luogo di vedere la caduta del gran cancelliere, e che governando da se medesimo darebbe materia di interni disturbi alla Svezia. La caduta di Brema tendeva a fare allarmare, col sacrifizio della sola Brema, tutta l'Alemagna, e ad unirgliela contro in lega, e specialmente gli principi vicini e della religione luterana. L'uno e l'altro seguì, ma niuna delle macchine sortì l'effetto suo, poiché l'assedio di Brema si fece e poco dopo anche la pace con vantaggio degli Svezzesi, e senza odio, ed il re Carlo Gustavo fu re ma li fece tremare.
È da sapersi la vita del re Carlo Gustavo essere stata sommamente dissimulata. Nelle sue stanze non si vedevano libri, non piante di piazze, ma bensì bicchieri e pipe, e ogn'altra cosa che li potesse servire per un'estrema affettazione d'ignoranza, disapplicazione e scapigliatura infinita. Apprendeva egli il cervello del gran cancelliere, e l'indole e doti naturali de' due suoi figliuoli, uno de' quali s'era una volta lusingato poter dar per isposo alla regina: credette che il modo di ripigliar tutti, e lui in particolare, fusse il farsi considerare per un uomo da abbandonarsi a' piaceri e da lasciarsi tutto in braccio al senato. Dichiarato che fu successore alla corona per la nomina della regina e per l'approvazione degli stati, si ritirò subito a Borchemborg nell'isola d'Oeland, dove aveva i suoi beni, in compagnia d'alcuni pochi domestici, co' quali a ore strane pigliava informazione delle leggi e dello stato del Regno col chiamar quivi gli uffiziali e soldati, e col tener corte bandita mostrava apparentemente applicare ad ogn'altra cosa. Onde la prima volta che entrò in senato potè, fuor dell'aspettazione d'ognuno, parlare con grandissimo fondamento degl'interessi del Regno, ed in specie esagerò la rovina di esso dipendere dalle profusioni della regina Cristina, sebbene per altro conservò sempre gratitudine verso il gran cancelliere: lo chiamò sempre padre, andando da lui gl'usciva incontro e dopo la sua morte fece cancelliere il figliuolo.
Pimentelli, che era nell'inganno degl'altri, secondava le pratiche di Montecuccoli, e per la renunzia si servì di ragioni adattate alla vanità de' pensieri della regina, imprimendole tanto orrore della Svezia e de' Svezzesi che ella, comparandolo con la figurata delizia ed opulenza de' paesi di Spagna e d'Italia, apprendeva per miglior condizione il viver per esempio prigione a Napoli che regina in Svezia. Leggendo una volta Ovidio, De Ponto, disse: «Ecco una bella descrizione del mio Regno».
Mentre ell'era nel fervore di questi suoi pensieri eroici, disse un giorno all'inviato di Danimarca: «A me è lo stesso uscir dal Regno che da quella porta». Egli rispose: «Da quella porta si può ritornare, e nel Regno no». Un'altra volta dimandandole: «Che dirà il mondo di questa mia azione?», rispose: «Ognuno nell'avvenire si servirà del nome di V. M. per autorizzare il disprezzo delle grandezze umane; ma il prezzo di tutto questo è ut pueris placeas, et declamatio fias».33
È opinione che Pimentelli pigliasse il tempo quando il conte della Gardie fu ammalato d'una febbre quartana che lo distrasse; e seppe così ben maneggiarsi, ed arrivò a tal segno, che ne' viaggi d'Upsalia e d'altri luoghi è certo che Pimentelli stava alloggiato ne' palazzi della regina. L'ordine dell'Amaranta fu instituito in congiuntura d'una festa nella quale si rappresentava la regina sotto nome d'Amaranta, dove gli dei discendevano a fargli un convito. L'impresa dell'ordine sono due A intrecciate insieme, che suppongo che sia Amaranta e Antonio, che è il nome di Pimentelli, col motto: «Dolce nella memoria».
Il conte della Gardie, vedutosi escluso da Pimentelli, parlò più del dovere: e di qui cominciò la sua disgrazia, accalorata anche dal cancelliere Oxenstiern, onde fu allontanato dalla corte e privato d'una parte de' beni che la regina gl'aveva donato. In ogni modo gliene lasciò tanti, che potrebbe dispensarsi dal professare così apertamente una inimicizia irreconciliabile. La prima volta che ella tornò in Svezia gli fece fare quella reversale; la seconda la fece tornare indietro da Norkoping, processandola, per così dire, sopra un prete che menava seco. È da sapersi che da questo incontro lo spirito altiero della regina ne ritrasse motivo di lusingarsi, o almeno di darlo ad intendere, avendo scritto allora in Danimarca che si rallegrava di riconoscersi ancora amata e temuta in Svezia.
Non vi è pericolo che le levino le sue intrate, non essendo mai possibile che tutti gli stati insieme arrivino a tanta indignità di permettere che si riduca alla mendicità una principessa che ha fatto del bene a tanti, benché per altro esca loro il danaro degl'occhi che ella spende in Roma. Di ciò ognuno ne va d'accordo, e parlandosi delle di lei generosità dicono che sono state profusioni.
Ad ogni modo, ciaschedun crede che con essa seco si sia proceduto a proporzione del merito, e con tutti gl'altri si sia profusa: di qui è che all'occasioni la regina non trova mai la dovuta gratitudine; gl'usano però quella di far pubbliche orazioni per lei nelle chiese, acciò il Signor Dio la riconduca nella via della salute.
Ebbe ella pretensione di non aver rinunziato che a favore del cugino e suoi discendenti, ed in mancanza d'essi di ritornare alle sue ragioni; gli convenne però cedere e fare la seconda renunzia, minacciata d'esser ritenuta prigione in qualche parte del Regno. Di qui è che ella, intimorita, quando gli fu fatta la proposizione di restare in Svezia e spender quivi il suo appannaggio, subitamente se ne partì.
La regina averebbe sposato il conte della Gardie, ma il cancelliere Oxenstiern gli s'attraversò per obbligarla a sposare il suo figliuolo, su 'l capitale che faceva dell'autorità che aveva negli stati, senza l'approvazione de' quali è indubitato che ella non poteva maritarsi; e per la medesima ragione non volle mai acconsentire che sposasse Federico, figliuolo di Cristiano IV, re di Danimarca. La cabala poi del la Gardie fu quella che gli roppe le sue misure, ond'egli, vedute le difficoltà, non vi s'impegnò di vantaggio. Anche il re Carlo Gustavo dopo la sua elezione, per voglia che effettivamente ei n'aveva, commesse a van der Linde di trattare con essa mentre ella stava per partire.
E' bisogna sapere che la regina, pochi giorni avanti la sua renunzia, aveva mandato van der Linde all'inviato di Portogallo con un viglietto sigillato, in cui dichiarava di non riconoscer più il duca di Braganza che per un usurpatore, e che averebbe lasciato sufficientemente instrutto il suo successore delle ragioni di lasciare ogni pratica ed ogni commercio con esso, ordinandoli che non l'aprisse se non alla presenza <...>. La regina dunque rispose: «Vediamo se il re ci vuol bene, e quel che sa far per noi. Ditegli che scacci via il portughese e rompa ogni commercio del sale». Il re sentendo questa risposta: «Costei, disse, ci minchiona: lasciamola andare dove vuole, e noi seguitiamo il commercio co' Portughesi».
La diminuzione della potenza di Svezia cominciò in tempo della medesima regina Cristina. Ella, nudrita fra l'adulazioni franzesi, credendosi capace di governare il Regno e promettendosi di quell'abilità che si ricercava, volle aver maggior parte che non sarebbe convenuto nel governo. Cominciò a strapazzare gli uomini grandi e che erano stati ammaestrati degl'interessi del Regno dall'esperienza, e dette credito più del convenevole all'insinuazioni de' giovani, i quali, avendo avanti agl'occhi la Francia, stimavano che sarebbe stato una bellissima impresa il mettere la Svezia in posto di fare le medesime cose, col supposto che per farlo bastasse solamente il provarsi, o piuttosto il volerlo. Così fu introdotto il lusso, ed il conte della Gardie tornando di Francia fu il primo a portarvelo: fece un'entrata solennissima, colla quale occupava tutto il tratto che è fra Jacobsdal e Stockholm. Allora furono introdotte mode, tavole, mobili, carrozze, ed allora pure presero piede le prodigalità della regina: balli, feste e simili cose erano quelle che accreditavano allora alla corte.
Il re Carlo Gustavo proccurò di rimetter la Svezia al suo mestiere e ristabilire la sua gloria, ma non seppe usare in tempo della fortuna: poteva rimanere con tutta la Prussia, e 'l desiderio della Pollonia gliela fece perdere. Alla pace di Roskild poteva rimanere colla provincia di Trondhem in Norvegia, e con Bornholm, che tutte due importano 120 mila talleri d'entrata: la gola di tutta la Danimarca gli fece perdere l'un'e l'altra. Insomma era un giocatore che nella disdetta era capace d'azzardare e di perder tutto, e nella detta non si contentando aspettava sempre che la fortuna mutasse, a risico di lasciare il gioco con perdita. Morto che fu, succedette la reggenza, piena di divisioni, di fazioni e d'interessi privati. Di qui è che s'è distrutto il pubblico, mentre ognuno ha tirato ad aver danari in qualunque modo, né altro è restato che queste poche fabbriche che ora si vedono.