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Si vive affrettatamente. Non c'è tempo di ambientare gli uomini che fanno storia. L'uomo che biografo è divenuto un personaggio nazionale. Nessuno ignora ormai, anche nelle provincie più beote, chi sia il direttore dell'Avanti! Giacinto Menotti Serrati è ormai sinonimo di leninismo. Impersona il protagonista della rivoluzione russa. Egli si è fatto nella opposizione. È sulla piattaforma socialista da molti anni. Ne ha oggi 48. Aria da venditore di verbi all'estero. Occhiali scintillanti del miope. Barba biondastra, fluente, che gli scende oltre il mento a punta. Sovente gli si vede un sorriso dolce tra le labbra. Più spesso è rigido. Sovente è diffidente. Qualche volta ha un attimo di risata strepitosa. Fuma il virginia. Ne fuma parecchi. Ha una vita randagia. Può essere paragonata a quella di Massimo Gorki. Vagabonda, alternata di stenti, agguantata dalle polizie, consumata nelle fetide sentine, liberata per essere ripresa. Egli è passato per una sequela di processi. Parodie, simulacri di processi. Dappertutto si è rivelato un attivissimo propagandista e un ottimo organizzatore. Negli intervalli ha sgobbato per l'alimentazione quotidiana. Scaricatore di carbone, uomo di fatica nei fondaci, insegnante di participii, accusato politico di tribunali, diffusore di escandescenze proletarie, spesso alle prese con la canea antiproletaria. Non so se prevalga in lui la rassegnazione. So che preferì sempre la difesa delle sue idee che della sua testa. Leggerete le sue note autobiografiche; svelte, senza atteggiamenti letterari, senza toni cattedrattici, senza la voce grossa del legislatore sul Monte Tabor. Scrive – anzi scrive senza voltarsi indietro. Lo si direbbe un manzoniano che non ha indugi, che salta la mondatura, che vive sollecitamente. Lingua parlata, piana, scorrevole, capita da tutto il suo mondo. Lo credo quadrilingue. Scacciato da una parte, per salvarsi dall'altra, ha dovuto impararle leggendo le ditte dei paesi in cui viveva, buttando gli occhi sui giornali, cenando nella propria cameraccia con pane e nozioni grammaticali. Nessun lamento. Egli conosceva i refrattari di Jules Vallès, aveva veduto Benoit Malon, ex membro della Comune, a fare il canestraio in Italia, dopo essere passato sotto una gragnuola di palle versagliesi ed avere scritta la Terza disfatta. Non si va in Socialismo senza essere preparato a vuotare il proprio calice fino alla feccia. Ha patito, ha sofferto. È passato attraverso tutte le angosce, è divenuto il martire del vituperio. L'opinione pubblica gli è stata più di una volta nemica. Gli è andata addosso con l'esasperazione omicidiaria. La colluttazione tra lei e lui fu aspra, lunga, terribile. Atterrato, chiuso per nove mesi nella muda torinese come il massimo dei disfattisti italiani, è ritornato alla piattaforma scritta e orale più vigoroso, più tenace, più fortificato per la continuazione della lotta. Non era ancora disceso dal treno che già la sua voce squillava al dorso dell'edificio dell'Umanitaria su migliaia e migliaia di lavoratori accorsi ad ascoltarlo. Crispi, il feroce bandito ministeriale, non ha insegnato nulla alle autorità salariate. Cioè che le persecuzioni giudiziarie o poliziesche sono fabbriche di celebrità nazionali. De Felice e Barbato e Badaloni sono esempi. Andrea Costa è passato dall'ammonizione alla vice-presidenza della Camera elettiva. Non mi meraviglierei di vedere Filippo Turati presidente del Consiglio, dopo essere stato galeottizzato per dodici anni e condannato alla sorveglianza speciale come i peggiori malviventi. È una malattia legislativa di tutti i paesi. L'opposizione è considerata della delinquenza. In Francia Blanqui ha subìto gli stessi oltraggi. Di più. Il comunista d'allora, che aveva messo in circolazione il suo ni Dieu ni maître, ha scontato quarant'anni di sole a scacchi. L'impero lo ha fatto marcire nelle prigioni. Non parliamo della Russia imperiale. Essa era una officina di demolizione umana. I più grandi ingegni sono periti nelle congiure, nella Siberia penale, in esilio. Il superstite maggiore di tutte le tragedie personali è Pietro Kropotkine, uno dei più grandi cervelli scientifici della età nostra.
Giacinto Menotti Serrati non ha voluto ascendere la scala parlamentare. I collegi erano a sua disposizione. Alla Camera avrebbe potuto essere il leader di una maggiorana che non ebbe neppure Parnell alla Camera dei Comuni. Il direttore del quotidiano bolscevico di S. Damiano fu più potente dell'Irlandese. Durante la preparazione elettorale non ci fu candidato senza il suo voto di preferenza. Fu un'elezione senza numi. Se Filippo Turati è passato, la colpa non fu sua. Nelle elezioni serratiane non trovate nè ricordi nè amicizie nè gratitudine di partito. Non ha imperato nella scelta che la concezione bolscevica. Il più umile, ha avuto la sua simpatia. Ha dato calci al cabrinismo. Egli non ha accettato che l'uomo integro, il candidato disciplinato fino alla corda del boia. L'uomo di fede preparato domani a rovesciare la borghesia avida di privilegi e di capitali. Non più discussioni. Non più opinioni personali. Concetto unico. Azione rapida, volontà collettiva, partito che agisce come un solo uomo.
Giacinto Menotti Serrati aveva tracannata molt'aria repubblicana in America, in Francia e in Svizzera. Gonfio di libertà non ha saputo adagiarsi nei metodi dei compromessi parlamentari e delle aspettative ministeriali. Egli ha veduto il male. Bisognava svincolarsi, arrischiare la carta, spingere le folle alla loro risurrezione sociale. L'esperienza era già stata fatta. Lenin aveva sollevato un popolo di centottanta milioni. Lo aveva tramutato. Aveva fatto passare i ricchi ai posti dei poveri e i poveri ai posti dei ricchi, riducendo il pas de droits sans devoir a una formula semplice: chi non lavora non mangia. In altri tempi un manifesto così laconico avrebbe attirato la risata universale. Ai nostri giorni è divenuto un'ingiunzione mondiale. Ha capovolto i cervelli. Ha sostituito un la di azione sociale a un la di vita contrattuale che ingiungeva la giustizia borghese. Chi non lavora non mangia. Serrati non è stato tranquillo. Ha reso il terreno fertile. Lo ha concimato con il materiale orale e scritto. Lo ha seminato e riseminato. La borghesia si è accorta che il partito ch'essa scherniva e non vedeva di esso che il ventre, aveva la testa. L'urna ha scatenata una rivoluzione. La censura non ha potuto frenarla. A giorni si riunirà la Camera. Centocinquanta deputati rossi diranno al monarca ch'essi vogliono un'Italia sborghesata e rivoluzionaria. Tutto questo bouleversement, sconvolgimento, è dovuto alla scheda. L'astensionista ha forse finito di vivere. Forse vedremo Errico Malatesta all'urna. La scheda è divenuta una siluratrice che affonda i regni. Che più?
È difficile paragonare i direttori dei quotidiani socialisti ai direttori dei quotidiani borghesi. Sono due ambienti, due uomini. Nessuna rassomiglianza fra di loro. In borghesia il direttore che lavora di penna è considerato un'imbecille. Non ne ha il tempo. Egli deve consumarsi a leggere la corrispondenza, a scrivere ai personaggi, a scegliere gli uomini per gli articoli speciali, a studiare l'orizzonte politico, a mantenersi in relazione con gli aderenti al partito del giornale, a conquistare deputati, a pranzare e a fare colazione con gli eminenti della vita pubblica. L'eccezione l'abbiamo avuta anche noi: Jean Jaures. Egli era uscito dalla couche borghese. Giornalista principe, storico eminente, primo oratore del mondo. Nessuna comparazione con lui. Parlo dei self-made-men, degli uomini alla Rochefort. Giacinto Menotti Serrati si è fatto da sè. È uno dei direttori di quotidiani improvvisati dagli avvenimenti. Il giornalismo non ha università. Non ha professori. Ci si mette a tavolino e si scrive con furia, senza badare se la prosa esce ravvivata o sbiadita, pettinata o spettinata. Taluni finiscono in un cestino massacrati dagli sbadigli, altri raggiungono i pinnacoli dell'intelligenza giornalistica. Serrati si è messo al quotidiano a New York. Prima di abituarsi al twang del yankee faceva tutto il giornale con le sue mani. Scriveva per la risurrezione proletaria. Cronaca, traduzioni, articoli di fondo, trafiletti, corrispondenze. Egli era una specie di Fregoli di redazione. Guadagnava meno di un lavoratore di fatica. Lascio la rivelazione della sua vitaccia alle note autobiografiche. Orava. La sua gola era sempre pronta alle emozioni di piattaforma. Si è trovato in una burrasca a sua insaputa. È Oddino Morgari che la racconta. Ne pubblico le note. Dopo tante torture morali Serrati è stato preso dal disgusto. È corso al piroscafo e ha rifatto l'Atlantico.
All'Avanti! egli è andato quando meno se l'aspettava. Benito Mussolini, fiero e violento, applaudito dovunque appariva; rinvigoritore di folle, uscito dai bassifondi come tanti altri socialisti, sparpagliatore di fraseologia incandescente, aveva spinto il quotidiano di partito fuori dagli antri della miseria. I suoi precedenti erano del rivoluzionario internazionale. L'ho trovato a Trento, redattore capo del quotidiano di Cesare Battisti. A Forlì aveva subito la condanna di sei o otto mesi per la sua opposizione alla conquista di Tripoli. Egli era un tizzone ambulante. Rivoltoso nato. Cospiratore della forza di Blanqui. Ansioso di morire sur una barricata come i «briganti» della Comune. Un giorno, a braccetto di un compagno, alla testa di una dimostrazione, è stato lì lì per avere la testa divisa in due dallo sciabolone di un cavalleggero. Non ne parlò neanche. Sulla sua inflessibilità socialista avrei dato il mio sangue. Non si sfanga, non si passa per il rovaio, non si lavora febbrilmente a spargere idee insurrezionali per poi scendere fra i signori dalla prosa ravviata. Jules Vallés non tornava indietro. Delescluze, il delegato della guerra rivoluzionaria, moriva con le braccia in aria come un bersaglio ai nemici, olocausto del suo ideale comunardo. Basta. Io non scrivo le convulsioni cerebrali di Benito Mussolini. Non ne ho mai capita la tramutazione. Poco tempo prima egli aveva condensato il suo compiacimento con queste parole: «Ho avuto il giornale nel dicembre del 1912: me lo consegnò Giovanni Bacci, al quale deve andare un pensiero grato da parte di tutti i socialisti italiani, perchè in quei quattro mesi che seguirono il Congresso di Reggio Emilia l'opera del Bacci politicamente e amministrativamente fu provvidenziale. Il partito usciva da Reggio Emilia lacerato, quindi un po' indebolito e non bisognava dargli scosse troppo brusche, perchè c'era il pericolo di guai maggiori, tanto più che l'esodo dei destri, esaltato da tutta la stampa borghese, lieta sempre, e fa bene! se può manifestare il suo animo antisocialista, indeboliva il partito. L'opera del Bacci rimarginò rapidamente le ferite, e quando il primo dicembre io assunsi la direzione dell'Avanti! il partito presentava già una sua unità abbastanza organica ed omogenea. Vi confesso che accettai la direzione del giornale con una grande trepidazione: un giornale di partito è un giornale di idee, un giornale di battaglia, quindi un giornale difficile che non può essere comparato con nessun altro giornale». Erano passati 13 mesi. È intervenuta la guerra. Mussolini era divenuto più intransigente. La neutralità di partito era il suo cerchio di ferro. Non lasciava passare nè avanti nè indietro. Ohimè! Tout passe, tout casse, tout lasse! La catastrofe non è circondata nè da litigi nè da tempeste orali. Mussolini è uscito dimissionario da una seduta direzionale tenuta a Bologna, contento, lieto, padrone di sè. Che cos'era avvenuto? Alla mattina susseguente i lettori si palpavano gli occhi. Che cos'era avvenuto? Nessuno ne sapeva niente. Giovanni Bacci gli era corso dietro fino alla sua abitazione convinto di riuscire ad ammansarlo, ad abbonirlo. Non fu questione di aumento di stipendio. In bolletta c'era e c'era stato. La discordia era fra la sua e la loro anima. Tutto era finito. Non c'era più stagno per rinsaldarle. Non c'era più modo di rappattumarle.
Poco dopo egli era padrone di un quotidiano che esalava da tutti i pori i furori cerebrali del suo direttore. Da gregarista era divenuto un mangiatore orribile di se stesso. A mano a mano che Mussolini rinculava dal socialismo per avventarsi nel cul-de-sac della polemica, le invettive infittivano. Pareva una guerra civile in quattro. Il proletariato, dopo l'espulsione fragorosa, si era tirato in disparte. Lasciava che l'uomo scendesse i suoi gradini, scaduto dalla fama di agitatore turbolento. Di uomini andati a male era piena la storia del partito. Tomaso Monicelli, Olindo Malagodi... Nessuna meraviglia. C'era solo la violenza mussoliniana che tratteneva i lettori. In giornalismo non c'era esempio di tanto acciuffamento furioso se non fra la Petite République e le Petit sou, quando i due direttori si scuoiavano con caldaie d'acqua bollente. Erano omicidi quotidiani.
L'Avanti! venne affidato simultaneamente a Serrati, a Bacci e a Lazzari. Una combinazione giornalistica intollerabile. Il pensiero unitario in tre cervelli era considerato del mattoidismo. In pochi giorni i nuovi direttori sarebbero venuti ai calamai. Nell'ottobre del 1914 non c'era più che Giacinto Menotti Serrati. Tempi indimenticabili! Eravamo avviati alla guerra. Cadorna organizzava. La sua stella saliva. Guai a chi la sgretolava. Si vedeva in lui un Napoleone. La stampa borghese digrignava i denti verso coloro che parevano pamphlets contro la guerra. Serrati era in odore di antipatriotta e terrorista. Si incominciava a esecrarlo. Lo si vedeva come un intruso che coltivava il ventre delle masse. Si sarebbe preferito Treves. Più avvicinabile, più pieghevole, più arguto. Serrati era un orso. Allontanava, pareva non stesse bene che in mezzo alle moltitudini. Tra lui e la borghesia non c'erano contatti. Non accettava inviti, non partecipava neppure a discussioni professionali. Alla associazione dei giornalisti non ha mai messo piede. Più di una volta egli ha pensato ad una associazione di penne sovversive. Era già in lui il leninismo. Non voleva nulla di comune col mondo per il quale stava preparando il suo cannone elettorale a grande portata. Vi fu un momento che parve di sonnolenza. Si giunse al saccheggio delle botteghe, degli appartamenti e delle fabbriche dei tedeschi. Turpe aggressione! Svaligiamenti infami! La polizia si era camuffata. Patriotteggiava. Aveva lasciato fare tutto il pomeriggio e tutta la nottata. Io trepidavo. Io mi tenevo la testa. Il fatto che l'imperatore del mio paese aveva dichiarato la guerra al paese che mi ospitava era divenuto il mio delitto. Mi si derubava, mi si portava via il patrimonio che mi costava venti, trenta, quaranta anni di lavoro e mi si obbligava a fare le gambe se non volevo essere vittima dei turbolenti e dei predoni della strada e degli angiporti. L'Avanti! era imbavagliato. Non aveva potuto nè prorompere nè chiamar gente intorno al fattaccio patriottico, tanto biasimato in Francia all'esordio della guerra del '70. Mucchi di rovine. Si rompeva tutto. Si schiantavano i mobili, si rovesciavano le merci dei magazzini di mode sui corsi davanti ai tram, fermi e affollati di spettatori. La forza dei saccheggiatori era enorme. Bastavano otto braccia per un lavoro di venti uomini, in tempi normali. I banconi di sartorie, le vetrine lunghe parecchi metri, gli ampi tavoli più malagevoli venivano spinti ai balconi e scaraventati nel vuoto. Montagne di guanti, colonne di stoffe, vetrine di pizzi, si accavallavano sulle alture della distruzione. La strage delle proprietà dei tedeschi invecchiati in Milano continuava al cospetto di folle di tutte le condizioni, senza che alcuno osasse dire una parola. Alcuni che non sapevano resistere davanti a tanto sciupio di roba utile, portavano via e svoltavano. Si sono veduti incendi spettacolosi. Le sedie del palazzo Thonet sono state divorate dalle fiamme. La chincaglieria di lusso dello Schubert, in galleria Vittorio Emanuele II, era stata devastata, calpestata, bruciata come se fosse stata della peste cittadina. In via Durini si sono veduti dei negozi vuotati, spaccati, fatti a pezzi. Nella stessa via un hôtel tedesco, non ancora avviato, ha subito la furia di tutte le mani e di tutti i piedi. Con le leve sfondavano. Giù letti, giù toilettes, giù armadi. Tutte le finestre erano spalancate per i rovesci. Giù divani, giù dormeuses. Strappavano i panneggiamenti, facevano in quattro le poltrone, in mille pezzi i servizi di maiolica, i catini, le bottiglie di cristallo, i calici del biondo vino dei signori. Per molti la furia popolare era una battaglia contro il maledetto tedesco. L'austriaco non ha avuto quartiere. Tutti i signori del ya sono stati messi in fuga. La città era come stata abbandonata. Nessuna autorità in giro. I pochi carabinieri sbandati a due a due filavano come persone educate che non avevano nulla di comune con la disorganizzazione sociale. Pare che Salandra avesse telegrafato il rispetto ai tumultuanti. Era lo stesso uomo che aveva permesso a D'Annunzio di suonare campana a martello in Campidoglio. L'hôtel Metropole, sull'angolo di via Cappellari, aveva subito la stessa distruzione della pensione Berget, in via Durini, sull'angolo di via Cavallotti. Era stato ridotto una carcassa circondata di rovine. A pochi passi, in via Santa Margherita, avevano svaligiata la ditta d'argenterie Krupp, quella che portava il nome dei fabbricatori di cannoni. Si parlava di milioni. In pochi minuti non ci fu più nulla. Le «case di seterie» hanno subito la stessa sorte sul corso Vittorio Emanuele e in via Manzoni. Stracciamenti inenarrabili. Se continuassi diventerei un elenco. Alle dieci di sera il cielo della zona centrale milanese rosseggiava della viva luce dell'incendiarismo. I magazzini d'ottica sulla terrazza dei portici meridionali della galleria Vittorio Emanuele, erano un braciere. Le lingue di fuoco uscivano da tutte le aperture dell'edificio municipale e si rincorrevano intrecciate per l'aria. Si udivano i tonfi della roba che veniva gettata fuori in blocco e che si schiantava sull'acciottolato. Più di dieci mila persone assistevano alla rappresentazione neroniana senza biasimi e senza approvazioni. Il terrore, se c'era, non era in piazza. Lascio allo storico delle famose giornate di completare la narrazione della barbarie moderna. Io filo. L'Avanti! non ha potuto scrivere che per la censura. Il suo documento è stato cestinato dalle mani infami dei manigoldi elevati, a pagamento, a protettori della opinione pubblica!
La rubrica più geniale del Serrati è quella degli «scampoli», quando c'era, s'intende. Adesso Serrati è tutto nel parlamentarismo. I suoi «scampoli» hanno fatto chiasso. Se vi sono delle sciatterie non sono sue. Sono degli intrusi. A leggerli, pare ch'egli sia stato un allievo degli umoristi inglesi ed americani. Brioso, pungente, salace, giocoso, buffonesco. Ha spirito e comparazioni per tutti i soggetti. Non si precipita sugli uomini. Non provoca processi. Demolisce con le facezie. Comicizza la notizia o la storiella. Ferisce con l'epigramma. Il Serrati farebbe la ricchezza di un giornale. Mentre correggo egli ha ripreso la satira. Ve ne do un sample. «La frase è l'uomo. Anzi, una frase può far celebre un uomo, può immortalarlo. Un uomo però, di regola, non deve fare più di una frase. Se ne fa due, bene, può ancora passare. Tre, sono già troppe. È molto se si regge ritto. Quattro, è finito. S'ammoscia e cade come quei porcellini di gomma, ripieni di vento, che i camelots espongono alle risate del pubblico nei crocevia.
«Cambronne ha detto «m...» e poi non ha più parlato. Per questo vive e parla nell'eternità.
«Ma Prurito Muraglini che, a quando a quando, salta fuori con quegli occhiacci da spaventapasseri, e vi dice, ieri, «Socialista rivoluzionario», poi «Chi vi spinge alla guerra vi tradisce», poi «la bella guerra fascinatrice», poi «socialismo nazionale», poi... «torniamo all'individuo» e via di seguito, Prurito Muraglini, di frasi ne fa troppe, ne fa tante, che non attaccano più. Meriterebbe che, per pochi momenti, tornasse Cambronne e gli ripetesse, da uomo di carattere, la sua sola, unica frase, la più decisiva, la conclusiva: «m...». Caro Prurito Muraglini...». Non so se Carlo Marx abbia insegnato, giornalisticamente, qualche cosa a Serrati. Certo il personalismo, biasimato dai vecchiardi della redazione. Se gli capita un filibustiere, non lo circonda di eufemismi. Lo taglia, lo affetta. Lo lascia senza vita morale.
Tempi di tribolazione. Durante la guerra l'edificio dell'Avanti! era pieno di musoneria. Peggio! Le spie accantonate che notavano gli andirivieni, sfollavano. Si aveva paura della lista poliziesca. Chi vi saliva, o era un disfattista o un briccone che aveva rinnegata la patria, buono l'uno e l'altro per il piombo cadorniano. Da un porto di mare era divenuto l'entrata di un settimanale fognoso. Era una politica di aggressioni. Agli invertiti si permetteva il pitale delle insolenze. Agli altri era d'obbligo la bocca chiusa. La poverezza dell'Avanti! è nei nostri occhi. Era un giornale masturbato, scalpellinato, imbiancato dalle soppressioni. Che canaglie! Era più la roba che andava a finire al macero che le frattaglie che ottenevano il visto prefettizio. Cadorna non dimenticava mai il quotidiano di via S. Damiano. Di tanto in tanto lo eliminava da qualche provincia. Serrati, in certi momenti, deve avere preferita l'America che gli aveva dato tanti fastidi. Era vituperato. Lo avevano fatto diventare kaiserista. I tedeschi, secondo i calunniatori, lo fornivano di marchi fin che voleva. La via del giornale era divenuta la «strasse». Sovente, gli scalmanati, passavano sotto le finestre sgolando ingiurie sopra ingiurie. Con una polizia che non aveva tolleranza e benevolenza che per l'arditismo scarcerato, ci voleva della pazienza. Confesso, io non avrei avuto tanta tolleranza. Sarei scoppiato. Non avrei saputo sottomettermi al vituperio, sia pure mormorato. Giacinto Menotti Serrati aveva un compito. Tener vivo il giornale, precipitarsi sulle proprie esplosioni e aspettare l'avvenire che doveva essere del partito. Così ha fatto.
Sfioro. Momenti tristi. Individui che passavano rasente le vie come pezzi di orgoglio nazionale. Indiavolamenti e nefandezze comiziali. Spergiuri che chiamavano gli ex compagni traditori. Bastonate, brutalità, vigliaccherie, piazzate, dopo concioni asmatiche che avevano distrutto in ogni luogo la gioia di vivere. La respirazione è venuta con l'abolizione della censura. Ah, dio, si è respirato! Si era stufi di amputazioni cerebrali. I carnefici del pensiero sono stati rimandati ai loro domicilii con le saccocce piene. Boia! Il vostro vacchismo intellettuale vi ha arricchiti. I miei trabocchi di collera per cotesti anticristi che hanno industrializzata la penna passata al servizio della violenta tirannia. Nel 1830 i cospiratori della professione, hanno rivoluzionato la Francia per mantenerla illibata. Voi, per del denaro, o vacconi del mestiere, l'avete insudiciata. Scaracchi a voi!
L'Avanti! a mano a mano che gli avvenimenti lo scatenavano dalle zone proibite allargava le ali, aumentava la tiratura, si vedeva venduto a ruba. Impotente a servire la fiumana. Un flusso e riflusso quotidiano. I locali venivano letteralmente invasi. La gente battuta, maltrattata, punita, voleva scaricarsi, scrivere, raccontare, vendicare vivi e morti. Si udivano scene inaudite. Il quotidiano circolava carico di dolori. Un informatore incoraggiava l'altro. I gros bonnets che avevano, con la loro insensibilità, messo assieme Caporetto, ne avevano fatte di quelle superiori all'immaginazione. (Vedi il nostro Cadorna). Avevano affamato, bastonato, punito, torturato, fucilato. La rivelazione sul delitto personale di Andrea Graziani – il generale che aveva messo le mani nel sangue proletario – aveva portato in piazza il primo atto autentico delle tragedie militari. Si è dovuto triplicare la tiratura, senza riuscire a saziare l'ansia dei cittadini della penisola. Molti leggevano e dubitavano. C'è sempre qualcuno che crede impossibile le mostruosità della bestia umana. È venuta la lettera dello stesso Graziani che ribadiva la narrazione con un concetto di disciplina militare feroce. L'Avanti! andava avanti. Il dispotismo militare si frantumava da tutte le parti. Le rotative non erano più sufficienti. Giacinto Menotti Serrati non faceva chiasso. Ingolfato nelle rivelazioni non aveva tempo di dormire. Si alzava pallido, con gli occhi gonfi, accendeva il virginia e si rimetteva alla lettura, noterellando, postillando, commentando, preparando articoli di tutte le dimensioni. Egli si era professionalmente americanizzato. L'articolo serpe non era più suo. Non amava le lungaggini. Condensava. Prosa svelta. Scrittore rapido, senza cancellature. Polemista che fiuta l'avversario e lo colpisce nel debole. Cacciava. Inseguiva i capi della reazione e dava loro addosso con la fraseologia irata dell'insorto giornalista.
Scrive più a casa che in redazione. Al giornale c'è sempre ressa. Non ha quiete. Serrati è uomo di scatti. Non col pubblico. Col pubblico è paziente. Ascolta cose inascoltabili. Se chi parla non lo interessa, si chiude in sè stesso e aspetta la fine, pur sapendo che le sue ore sono preziose. Non modifica quasi mai il suo giudizio sugli uomini. Senza cessare di essere cortese non si lascia zuppificare più di due volte. Il suo viso assume la maschera che non invoglia il zuppificatore a prolungare la visita. Gli si invernicia la bocca di sarcasmo. È lui che in stamperia dispone degli articoli e ne sceglie i titoli. La sua caratteristica è la rapidità. Non perde tempo. Rapidità d'impaginazione, buon gusto nei titoli, senza pentimenti. Dà la preferenza a una magra notizia a un'ampia pappolata della Stefani. Affettuoso coi tipografi. Non ordina. Non esige. Va e viene come un cospiratore di Offembach. Non informa nessuno dei suoi viaggi. Parte a insaputa di tutti. È domani, è dopo domani che si legge sui giornali ch'egli è altrove a fare discorsi o a nutrirsi di arretrati di giornali che ha dovuto lasciar passare per mancanza di tempo. Un giorno snervato, spossato, affranto dall'immane lavoro di quei giorni, si è involato. Dove era? Lo si è saputo più tardi. Sulla piattaforma francese. Serrati si rifocillava in Francia!
Ho sfumato le qualità direttoriali del Serrati e basta. Ora non aggiungo che le minuzie che completano l'uomo. Per essere preciso, egli è nato il 25 novembre 1872 a Spotorno. Suo padre non è stato fortunato. Armatore di bastimenti e amico di Mazzini e di Garibaldi, non poteva che perdere terreno. Si arrabattò più tardi facendo il negoziante, il costruttore di case e di strade in Oneglia, e finì, a poco a poco, a soffiarsi sulle dita. Pare sia risalito con la sua discreta figliolanza. Ne ebbe, credo, dieci. Menotti fu il primo di sei. Si capisce il genitore dai nomi dei figli. Annita, Ricciotti, Manlio, Carlo, eletto ora deputato, Clelia – tutti vivi, con la mamma, a Oneglia. I maschi sono dal primo all'ultimo socialisti tesserati. L'affezione di Menotti per la mamma gli fa dare sovente dei salti in famiglia. Ho già sciorinata la sua concezione giornalistica. Egli è rimasto l'ex congressista di Reggio Emilia, senza transigenze. Settimanali e quindicinali, sparsi nelle provincie, sono tutti della opinione direttiva. Una volta rappresentavano la bufera. Erano invasi da tutti i cervelli. Adesso sono dominati dal cervello unico. Nessuno può uscire dal binario senz'essere squalificato. È lui il capo dell'orchestra giornalistica. Gli Avanti! sotto la sua dominazione, sono tre: uno a Roma, uno a Milano e uno a Torino. Le tre sedi non sono il suo ideale. Egli ne vorrebbe una sola con un quotidiano di sei pagine, di dieci pagine, di quante ne abbisogni il partito per le sue manifestazioni. Egli anela allo spazio del Times. Può darsi che il suo progetto venga modificato dallo sviluppo del bolscevismo fra noi. Ormai siamo tutti bolscevichi. Nessuno prevedeva i 150 onorevoli in poche ore. La tiratura ascende, continua ad ascendere. L'arretratismo meridionale è dovuto all'assenza della stampa eminentemente socialista. I centri eminentemente latifondisti hanno bisogno di essere messi sottosopra dalle penne marxistiche. Per coloro che non capiscono che l'atmosfera di una organizzazione politica, come quella socialista, è indispensabile, non capiranno mai che il massimo direttore del massimo giornale deve essere una specie di despota o un autocrate, o un tiranno a insaputa di tutti. In redazione socialista si può trascurare la letteratura. Non si sale invece che con un temperamento, una disciplina, una dittatura. Nessuna intimità cogli estranei. Quello che avviene nell'edificio deve rimanervi. Sulla sua bontà direzionale ho interrogato uno dei suoi fedeli. In redazione, mi ha risposto, non ha nulla del padrone. Coi redattori è un amico. Non comanda, prega. Non si sente il superiore. Se chiede delle prestazioni, pare chieda dei favori. È in lui lo spirito di corpo.
L'uscio del suo sanctum è aperto a tutti, anche nei giorni processionali. Non c'è stato uragano che glielo abbia fatto chiudere. Aneddoti? Non c'è giorno senza di loro. Ne ricordo uno dei tempi duri dell'ostracismo militare, della censura mascalzonesca, della banda che cavillava o castigava il vocabolo o mutilava l'informazione o espelleva la colonna, o prorompeva sulla pagina documentata con il coltello dell'assassino.
Era giunto il manifesto che aveva convulsionato i governi dell'Intesa. In esso erano fotografati gli orrori della guerra, i ladroni di territori, gli oppressori di popoli, la politica dei pescicani, l'avvenire del proletario. Bisognava farlo circolare. Come? Le vie clandestine avevano fatto il loro tempo, come le barricate. In censura esso era stato violentemente condannato a morte. Mentre le canaglie del giornalismo borghese si sbrattavano le mani del delitto di soffocazione, Serrati faceva passare il manifesto dalla pagina censurata nella seconda vistata e prima dell'aurora l'Avanti! filava per le provincie a portare il documento della terza internazionale. Serrati e i redattori si aspettavano l'invasione dei questurini incaricati di compiere gli altri delitti contro la indipendenza intellettuale. Nulla. Non si è fatto vivo nessuno. Salandra non ha voluto irritare la corteccia cerebrale dei leninisti italiani.
L'idea del capovolgimento sociale russo aveva spaventato tutte le penne del giornalismo europeo. Il leninismo era una rosa confusa. Distruggeva, nichilizzava, finiva nelle pozze di sangue. A chi pareva una ripetizione della rivoluzione francese dei Danton e dei Desmoulins e a chi una Comune dei Delescluze, dei Vermorele, dei Raol Rigault. Serrati aveva consumato parecchi anni in Svizzera. Aveva conosciuto molti profughi. I Lenin e i Trotski erano fra i suoi amici. Intuì la catastrofe borghese. Vide la fine del regime parlamentare che lasciava il proletariato in condizioni peggiori a ogni svolto di legislatura. La scheda era una turlupinatura. Afforzava e non demoliva la monarchia. La monarchia che torreggiava, o signoreggiava senza il consenso nazionale, che imbavagliava e imponeva senza consultare che se stessa, era sparita dall'agitazione. I più feroci vedevano in essa una famiglia parassitaria. Il bolscevismo era andato alla radice in un balzo. Aveva messo gli imperiali all'albero delle esecuzioni, distribuite le terre a chi le aveva lavorate, aperte le officine al proletariato e dato i poteri ai Soviets, con un Soviet centrale a Mosca. Giacinto Menotti Serrati non si è voltato indietro. Andava sulla piattaforma orale e ritornava allo scrittoio. La rivoluzione russa fu sua, tutta sua. Le masse erano mature. Disgustate dai parlamentari, furono subito con lui. Opuscoli sopra opuscoli. «Dalla rivoluzione d'ottobre al trattato di pace di Brest-Litowsk di Leo Trotzki» – «L'opera di ricostruzione dei Soviets di N. Lenin» – «L'opera economica, politica e sociale dei Soviets di Russia» – «Spartacus»... Tutta una serie di documenti delle Rivoluzioni che non finisce mai. Egli ne ha la cava. Dopo dieci, venti. Su ciascuno è lo stemma della repubblica socialista federale dei Soviets di Russia, con al centro il martello e la falce, disotto ai quali è tutta la frase marxistica: «Lavoratori di tutti i paesi, unitevi!». Più tardi ha iniziato la rivista, che è come l'università del bolcevismo in Italia. Nel Comunismo sono i più grandi movimenti e avvenimenti dei leninisti attraverso la rivoluzione. All'Avanti! si è come a Mosca. Si odia quello che là si odia. Kautsky, Guesde: rinnegati! Alberto Thomas e tutti i peggiori insultatori della Rivoluzione russa. Si adorano i Liebnecht, le Rose Lussemburg, assassinati dai Noske.
Beviamo l'aria bolscevica. Serrati l'ha bevuta prima di noi. Egli si è gettato nel bolscevismo a capofitto, proprio quando la stampa mondiale urlava il terrore borghese e i pedantoni del marxismo strillavano per gli oltraggi che il leninismo commetteva contro i principii del maestro. Niente paura. Non si va alla rivoluzione con i rinculamenti. Giacinto Menotti Serrati si disfece del socialismo assecchito su tutti gli alberi europei. Il parlamentarismo che aveva cullato le speranze di parecchie generazioni rivoluzionarie, per lui aveva cessato di vivere con tutte le democrazie europee dalla comparsa di Lenin e di Trotski. Io non so se Serrati sogni. Se anche in lui sia nata l'ambizione di condurre una nazione dalla borghesia al sovietismo in una notte, mentre un popolo dorme, come è avvenuto in Russia. Ma sogni o non sogni, egli fra noi ha compiuto una trasformazione che nessuno poteva supporre. Ha infuso la sua fede negli altri. Ha spoltrito un proletariato divenuto apata davanti a tante disfatte elettorali e parlamentari. È finita. Non più opposizioni di sua maestà, ma alla maestà. Non più opposizioni del capitalismo, ma al capitalismo. Nuova vita, nuovi orizzonti. La rivoluzione è la locomotiva della storia. La sentenza è di Carlo Marx. Serrati ha affrettato, ha incalzato. Un altro direttore con tanto leninismo nel ventre del quotidiano avrebbe avuto paura di ammazzarlo. Serrati ne ha moltiplicato le dosi. Ha fatto penetrare negli strati più bassi la Repubblica dei Soviets. I Soviets, per i nostri proletari, erano roba greca. Egli li ha spiegati, illustrati, marginati, diffusi. Chi lavora in Italia non parla d'altro. Ne parla, come di istituzioni proprie. Serrati ha fracassato tutto ciò che intorno al marxismo incominciava a infracidire. Ha sbrattato la piattaforma politica di tutti gli affinismi. Ha sbloccato la strada che deve percorrere il proletariato. Ha conglobato le passioni, i pensieri, le tendenze in una sola urna per il candidato unico.
È la prima volta che il socialismo italiano si è messo in scena con una sola piattaforma come in Irlanda. Nessuna gradazione di colori. Tutti con una faccia. Tutti con un pensiero. Passare dal vecchio al nuovo regime.
Il terrore esiste. La borghesia non ride più. Anzi! ne è terrorizzata. Ormai si sente vicina alla propria decomposizione. L'urna è stata uno sconquasso. Ha dissipato la nebbia che le impediva di vedere il suo disastro. Il trionfo è in marcia. Chi non lavora non mangia. Serrati è al dorso dei 150 deputati proletari senza dilemma, senza alternativa, senza discussione. Egli vi è con un pensiero sovietizzato. Tutto è sovietizzato: negli ambienti operai, negli ambienti degli sfruttati, negli ambienti della gente che non riceve ancora il frutto integrale del suo lavoro. Signori, la commedia degli sfruttatori è all'ultima scena. Avanti! Egli è così penetrato dell'opera sua che ha più fretta di Lenin di compiere la rivoluzione. Nella galleria giornalistica della Camera, egli polemica, tra una nota e l'altra, come in redazione.
– Non bevo! ha gridato al capitano Giulietti che orava in difesa del suo onore parlamentare.
L'accusato continua e riprende il Persia.
Serrati: – Dove hai messo i quattrini che erano sul Persia?
Lo scandalo continua. Io non lo riprendo. Mi basta la punta per ritrattare l'uomo.
Siamo giunti allo svolto della storia, all'arruffamento delle masse e delle classi, agli scompigli cerebrali. Le moltitudini che si erano dimezzate piene di rancori all'esordio della guerra, non si sono ricongiunte alla sua cessazione. C'era fra loro un fiume. Coloro che avevano avuto la capacità di rovesciare il cervello in una notte di delirio patriottico avevano presa la via regia ed avevano seguito il sovrano che prima svillaneggiavano come i mazziniani e i repubblicani. Coloro che erano rimasti marxisti, anticostituzionali, antimilitaristi, antiborghesi si erano contentati di rimanere fedeli all'Avanti! e di andare con lui più tardi al sovietismo raggiunto dalle masse russe. Di fronte al partito socialista non si vedevano dunque che rinnegati e tesserati. Gli uni e gli altri vivevano in un ambiente quasi simile a quello dei versagliesi rientrati in Parigi dopo l'olocausto dei comunardi. La vita era una baraonda di animosità, di odii. Si esecravano. Il versipellismo decorato spingeva l'oltraggio fino alla dittatura della brutalità verbale. L'anticamaleontismo rimaneva tranquillo sul suo stradone. L'imperturbabilità irritava i reduci. Essi pretendevano, s'inalberavano, esigevano. Si figuravano ai tempi di Cromwell. Cromwelliani essi stessi. Erano tutti poilus, arditi, con e senza gesta. Si aspettavano le ricompense della patria. I compagni, rimasti leali alla terza Internazionale e fedeli al partito, si sentivano troppo forti per discendere alla volgarità verbaiola del plebeo di sentina. L'avvenire era con loro. Nella decomposizione sociale gli altri credevano di sovraneggiare, di paltoneggiare, di aggredire, di svaligiare, senza che alcuno osasse aprire bocca. Armati di scudiscio e di nerbi e di coltelli e di revolvers si illudevano di vivere in mezzo a una società di conigli.
È venuto il 13 aprile del 1919. I socialisti erano aumentati enormemente di numero. Chi lavorava andava con loro, con l'Internazionale comunista.
La giornata di domenica era stata splendida. L'Arena invasa dai comizianti era riuscita pigiata fino in fondo. Il pulvinare, gremito come gli spalti presentavano in alto un magnifico gruppo di oratori. Dal rialzo dell'entrata non si vedeva che un mare tumultuoso di teste. L'oratoria con la foga comiziale era udita in tutto il recinto. Si sentivano gli accenti indignati contro le delittuose e barabbesche convulsioni poliziesche e si chiudeva la strepitosa manifestazione con parole frementi di sedizione proletaria.
In tutto l'orbe terraqueo il poliziotto è stato ridotto alla sua funzione naturale di vigile della vita pubblica. Fra gli anglo-sassoni il policeman è un gentiluomo. Non rompe la testa che con un ordine scritto.