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I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio
I lavoratori, con la testa affollata dalle apostrofi orali, discesero dai gradini erbosi e andarono via a gruppi, fumando e chiaccherando, senza voglia di acciuffarsi nè coi nazionalisti nè con gli interventisti. In piazza Mercanti parevano aspettati. Ci fu in tutta quella moltitudine un atteggiamento ostile. Gli uomini dell'ordine avevano come barricata la strada. I comizianti furono obbligati a una sosta. Ne nacque il subbuglio. Pigiamenti, grida, gesti furiosi, parole sconce e villane. Vi fu come un piegamento generale. Si udirono degli spari. Cadaveri. I feriti si avviarono alla medicazione. Chi aveva provocato, aggredito, sparato? Nessuno. In piazza del Duomo vi furono altri aizzamenti, altre scelleraggini. Si credeva che tutto stesse per finire. Un fiotto di nazionalisti-interventisti si staccò dalla folla, si avviò per il corso, piegò per via Monforte e filò rapidamente per il Naviglio, in direzione dell'Avanti!, sempre preceduto da un gruppo di arditi con bandiera tricolore. Non si sa come esso abbia potuto arrivare all'entrata del quotidiano. Nei pressi dell'Avanti! stazionavano più di cento fra soldati e carabinieri, disposti in due cordoni, l'uno di fronte all'altro. In un attimo gli aggressori furono nell'anticamera a pianterreno. Svoltarono a destra, salirono una ventina di gradini e irruppero per le stanze della redazione, dell'amministrazione, dei magazzini, della stamperia al primo piano. Si capisce come le poche persone addette al giornale abbiano presa la via del tetto. Non si capisce come soldati e carabinieri siano rimasti fuori, indifferenti, quasi spettatori del delitto che si svolgeva di sopra tumultariamente.
Gli autori della pirateria rimasero sconosciuti. Si sussurrarono nomi. Si è parlato di interventisti ritornati al lastrico, spostati come o peggio di prima. Si è alluso a caporioni temerari di una fazione capace di tutte le bassezze. La verità è in agguato. Non può stare molto a rivelarsi. Alla prima contesa i complici si accapiglieranno. Il delitto non lega. Slega. A domani! a domani! Le scene che gli impotenti credono seppellite nelle fiamme con la loro vigliaccheria sono sulla via della documentazione.
Giacinto Menotti Serrati nella triste giornata era assente. I briganti della aggressione dovevano avere pensato a lui. Il suo luogo di lavoro è stato il teatro dei loro eccessi. Vi hanno lasciato il marchio dei loro intendimenti e del loro vandalismo. Forse nessuno doveva scampare dallo scempio passato alla storia. Demolito il giornale, dovevano forse perire coloro che lo scrivevano. Troppo tardi. L'indulgenza della forza pubblica e l'ansia di coloro che aspettavano il trionfo dell'avvenimento sanguinoso non giovarono che alla sollevazione di tutto il proletariato accorso con le mani piene di rame per la ricostruzione del giornale che avrà le sue ore punitrici per gli incendiari.
Io ho veduto la devastazione poche ore dopo. Mi è parso il lavoro di una geldra di forsennati che si sia data alla devastazione del luogo con gli zapponi, con il fuoco, con i martelli, con le leve, con i picconi per sfondare, abbattere, distruggere. Lo studio del direttore era una rovina. Il pavimento intavolato era tutto sottosopra. Vi si affondava nel terriccio. Le pareti avevano segni larghi, affumicati, scrostati, demoliti. C'erano le tracce nere dell'incendio cinguettato in tutti i sensi. Si erano serviti indubbiamente delle scale. Il soffitto era stato segnato a colpi di clava o di ferro pesante. I cornicioni sembravano carbonizzati. I locali della libreria pareva fossero stati percorsi dai demoni con le faci che dovevano spandere il loro delirio. Petrolio! Vi hanno fatto dei falò, alimentati dai volumi intonsi di Carlo Marx, di Engels, di Lenin, di Trotski, di Antonio Labriola, di Jean Jaurès e di molte altre personalità del pensiero socialista. I caratteri della stamperia erano divenuti una babele. Una confusione di lettere pestate le une sulle altre. Cassette di composizione rovesciate in terra. Le tastiere delle lynotypes percosse brutalmente da tutti gli arnesi della distruzione. Che canaglie! Gli articoli che aspettavano di andare in macchina erano stati sbattuti dai delinquenti a parecchi metri di distanza. Le fiamme devastatrici hanno avvolto mastri, registri, sedie, colonne di giornali arretrati o, in aspettazione d'essere impaccati per la ferrovia. Mobili sconquassati a ogni passo. I casellari che racchiudevano la storia dell'Avanti! avevano subito il livore e lo sterminio della turba che pareva avesse in tasca la bottiglia dell'alcool per ingigantire l'incendio e inaffiare le proprie gole. Quello che rimaneva del fuoco veniva defenestrato e buttato nel Navilio. Tavoli, sedie, calamai, macchine da scrivere, schienali di noce che servivano da porta abiti o da porta ombrelli e tutto il lusso mobiliare di una redazione moderna. Di fuori c'è stato un morto: un mitragliere. Coloro che faranno la storia di questi tempi perversi troveranno tanti cadaveri da superare quelli di una guerra prima del '70. Non c'è movimento, non c'è tumulto, non c'è sciopero, non c'è radunata, non c'è discorso pubblico, non c'è elezione, non c'è passaggio di poliziotti senza quattro, dieci, trenta cadaveri. Sembra che la guerra abbia insegnato a uccidere. Perfino i ladri che ripugnavano dal sangue non compiono più imprese ladresche senza accoppare qualche inquilino o qualche proprietario o qualche ricco resistente. Le elezioni generali non si sono compiute che con cinque cadaveri in galleria, compreso il carabiniere.
Non v'è stata descrizione esatta sull'assalto dell'Avanti! E si capisce. Nessun cronista era presente. A noi non occorre. Ci bastano le impronte delle lingue di fuoco dell'arsione, i valutamenti dei danni, le scene macabre uscite dal materiale della devastazione per correre alla descrizione delle nefandezze compiute. Il proletariato si è subito immortalato. Il naufragio non lo ha impensierito. Non è più quello di una volta. Il nostro è un proletariato sensibile. Il male fatto a uno di loro è un male fatto a tutti. L'oltraggio fatto al loro quotidiano è un oltraggio fatto a tutti loro. Le macerie erano ancora fumanti e il denaro proletario affluiva nella cassa dell'azienda del giornale. In poche settimane si sono accumulate per la continuazione dell'Avanti! un milione e duecentoventuna mila lire. È una cifra che non fu mai raggiunta. È in essa l'elevazione di tutti i salariati italiani. La profezia marxistica si è avverata un'altra volta. Nell'ambascia collettiva si affratellano, si raccolgono intorno alla nuova Internazionale e aspettano la loro più grande giornata.
Il partito socialista ha avuto i suoi infortuni in tutto il mondo. Non c'è paese in cui non si sia veduto uno dei migliori tesserati passare il ponte che divide il proletariato dalla borghesia. Cito Giovanni Burns. Il suo passaggio ha commosso e indignato. Egli fu il Chatham della strada. Sublime. La sua voce si faceva sentire in Hyde Park a 600 mila persone. Nessuna erudizione era in lui che non fosse operaia, che non congiungesse una via cenciosa con un'altra. Ho fatto con lui i bassifondi di Liverpool. Stupendo reporter. Senza smargiassate siamo andati per le pozzanghere sociali a condensare sul notes i documenti della degenerazione borghese. La vita sotterranea di Liverpool è nella New Review. Le riviste non lo lasciavano tranquillo. Egli rimaneva parsimonioso. In un paese senza processi politici, egli aveva avuto l'onore, col deputato Cunningham Grahame, di essere processato per riot in Trafalgar Square, in una domenica passata alla storia come sanguinosa, dove i due leaders avevano voluto provare, davanti ai cordoni dei policemen, se la piazza appartenesse al governo o al popolo. I due accusati sono stati assolti. L'orazione di Giovanni Burns è andata a ruba. Lo Star aperse una sottoscrizione limitata a 6 pence. In una settimana gli si diede una pensione per salvarlo dai bisogni personali. Immaginatevi il giorno in cui si seppe che egli, l'oratore di tutti gli angoli londinesi, avrebbe indossata la zimarra ministeriale per andare a Corte a giurare fedeltà al Sovrano! C'è stata un'ilarità chiassosa. Non si voleva credere. – You are a liar, diceva l'incredulo al credulone. Era una cosa inaudita. Le masse volevano impazzire. Non pareva loro vero che si buttasse via il patrimonio socialista, fatto su con tanta fatica, senza rimorso, senza rimpianti.
Lo stesso è avvenuto in Francia. Cito un fatto internazionale. Non c'è, uomo vivente che ricordi la lunga prigionia di Blanqui come Gustavo Hervé di data comunarda. La presenza di Hervé irritava. I tribunali lo avevano massacrato. Gli avvocati di Parigi se l'erano messo sotto i piedi come immondizia. Lo hanno stogato con vociferazioni indemoniate. Egli è rimasto imperturbabile. La sua agitazione non ha cessato di essere antipatriottica. Qualunque guerra di lor signori non avrebbe mai avuto che il suo disprezzo. È venuta la conflagrazione mondiale. Il suo cervello si è tramutato. Il giornalista che aveva conficcata la bandiera nazionale nel letame dei cavalli di lor signori, non fu più quello. La prigionia non lo aveva reso invulnerabile. Pareva un arnese di borghesia invecchiato nei vizi. Si è impadronito della Guerra sociale, le ha dato vita quotidiana, e poi, per evitare seccature, ha fondato la Victoire, un quotidiano che vive ancora, battendo le mani alla guerra e ai reduci della guerra.
Il caso di Benito Mussolini è stato più clamoroso di ogni inversione estera. L'ho riveduto sulla piattaforma del Congresso di Reggio Emilia. Egli era già conosciuto per la sua prosa infiammata e cesellata. La sua intransigenza era più nota di lui. Non voleva transigenze. Con lui la deviazione di partito non doveva più esistere. I socialisti regi erano il suo rutto. Li vedeva come scandali ambulanti o contaminazioni di folle. Apostati, via! Li propose subito per l'esecuzione capitale come tanti lacchè di reggia. Fece lui da Sanson Sotto! Leonida Bissolati, Ivanoe Bonomi, Angelo Cabrini e Guido Podrecca, gente che dava la prosa a tutti i giornali borghesi che la pagava bene. Quattro ghigliottinature in un attimo. È stata una purificazione marxistica. Si sarebbe detto che egli fosse uscito da una famiglia puritana. Nè untuosità nè religiosità. Rigidezza. Secondo lui il parlamentarismo era in grande ribasso. Elevava il settarismo. Pareva che volesse equilibrare tutti i cervelli. Non voleva più corruzione. Alla direzione dell'Avanti! doveva andare un ortodosso, un uomo che non ammettesse pertugi. Il suffragio era per lui il sacco d'ossigeno che prolungava la vita all'agonizzante borghesia. L'autonomia politica era con lui un sogno pazzesco. La sua concezione era strettamente marxista. O con la borghesia o col proletariato. Per lui non c'erano dimezzature o soste. Il Graziadei, favorevole al giuramento regio del deputato, diveniva un anacronismo umano. Non lo si capiva che con la testa nel paniere degli altri. Il Podrecca., che sbuffava e voleva sapere la ragione della sua mozzatura di capo, è stato subito servito.
– Per i vostri atteggiamenti nazionalisti e guerrafondai!
La questione dei Savoia era rimasta per un pezzo fuori delle assemblee socialiste. I dirigenti non ne volevano sapere. Parevano anche per loro persone sacre. Per coloro che volevano occuparsene non avevano che spallate. Io tiravo via senza il loro consenso2. Ne ho riempite delle pagine. Ne ho parlato in pubblico. I soliti dirigenti mi disgustavano con i loro risolini melensi. È venuto Benito Mussolini e la casa reale non fu più della sòlita piattaforma dei Vecchini, cortigiani di professione. Con lui e con gli altri delegati in vista il Congresso del luglio 1912 fu antimonarchico. La megalomania dei Bissolati e dei Cabrini era passata al water closet.
Giacinto Menotti Serrati fu tra gli antisavoini. Egli aveva partecipato alla seduta burrascosa con la parola, con l'adesione, con le interruzioni, con gli applausi. Io l'ho veduto applaudire quando Mussolini è stato obbligato a narrare le ragioni dei suoi capilavori umani. Il futuro direttore dell'Avanti! ha continuato a narrare il caso d'Alba – un muratore romano che aveva sparato una revolverata contro Vittorio Savoia. Si sperava – aggiungeva l'oratore – che dopo 12 anni non si ripetesse il veramente indescrivibile spettacolo di Camere del lavoro che esponessero la bandiera abbrunata, di Municipi socialisti che mandassero telegrammi di condoglianza, di tutta un'Italia democratica, e sovversiva che a un dato momento si prosternasse dinanzi il trono. Difficile scindere la questione politica dalla questione dell'umanità. Arduo separare l'uomo dal re. Ad evitare equivoci perniciosi uno solo era il dovere dei socialisti dopo il 14 marzo: tacere. Considerare cioè il fatto come un infortunio del mestiere del re. Pei socialisti un attentato è un fatto di cronaca o di storia. I socialisti non possono associarsi al lutto o alla deprecazione o alla festività monarchica. Alla Camera, quando Giolitti ha dato l'annunzio dello scampato pericolo, tutti scoppiarono in un applauso giubilante. Si propose un corteo dimostrativo al Quirinale e alcuni deputati socialisti s'imbrancarono senza altro nel gregge elenco-nazionalista-monarchico. E si è andati al Quirinale. Non so se sia vero il dialogo che le cronache hanno riferito. Non c'ero, ma non è stato neppure smentito. Si disse che quella frase oltre modo banale non sia stata pronunciata. Non importa. So che vi è un telegramma: «Pregovi di presentare a Sua Maestà il mio commosso e riverente saluto». E questo è di quello stesso Bissolati che 13 anni fa ha gridato morte al re.
Bissolati ed altri: No, no, abbasso il re!
Mussolini. Non c'è una grande differenza tra morte e destituzione. La destituzione è comunque la morte civile.
Alla reggia Bissolati elogia il coraggio del re che aveva la carrozza chiusa e Cabrini si sdilinquisce davanti!
Mussolini ha veduto in questo pronto atto cortigianesco una specie di conciliazione fra monarchia e riformismo.
Dopo, addio. Anche lui è sceso dal suo piedestallo ed ha voltato il dorso al passato. Egli è stato, come ho detto, il più clamoroso. Ma come lui che hanno passato il ponte ve ne sono molti. Potrei dire che non c'è redazione borghese che non sia nutrita da qalche ex socialista. Tra gli altri cito Guglielmo Ferrero, del Secolo; Olindo Malagodi del Punto nero e ora direttore della Tribuna; Paolo Orano, ora deputato e prima redattore dell'Avanti!, Tomaso Monicelli, redattore-capo dell'Avanti!, ora patriota, incitatore di guerre, pesce grosso dell'Idea Nazionale; Arturo Labriola, incendiatore di giornali socialisti, storico antidinastico che ha viaggiato in Russia per lo Stato e collaboratore del Messaggero; Angelo Crespi, del Tempo socialista, passato alla giornaleria di tutti i colori e di tutti i padroni. Non parlo poi dei lazzaroni che non hanno fatto storia. Che si sono limitati a fare il mangiapane. Per costoro ci vorrebbe una guida Savallo.
Preferisco riprendere Giacinto Menotti Serrati.
Giacinto Menotti Serrati è rimasto nella mischia. Non l'ha abbandonata che per correre in Svizzera, a Zimmerwald e a Kienthal, a rifare l'Internazionale che la malvagità supponeva perita nella indifferenza proletaria. No, l'Abolitrice delle classi non è rimasta nella conflagrazione. Essa è di nuovo in piedi. Non si confonde con quella che si è lasciata trascinare nelle fogne dagli intellettuali camaleontizzati. No, l'Abolitrice dello stato borghese fa da sè. Serrati l'ha lasciata in giro come una Rivoluzione. In Russia è già al lavoro. Lenin e Trotski hanno interpretato esattamente il manifesto del 1864. Tutto d'un fiato capovolsero la concezione sociale. Costruirono la nuova società russa sul comunismo, nel quale il libero sviluppo di ciascuno deve essere la condizione per il libero sviluppo di tutti. L'organizzazione fu difficile. L'applicazione non fu facile. La terra del dispotismo era già stata abituata al mir – una concezione che aveva rasentato il completo comunismo. Con una maggioranza di contadini, gli adulti emancipati dalla tutela paterna, si erano abituati a coltivare e ad amministrare il villaggio rurale senza bisogno di intermediari e di sfruttatori. Giacinto Menotti Serrati ha seguito idealmente i due grandi uomini. Concezione semplice e grandiosa, giunta a un alto sviluppo dal quale non si torna più indietro.
Le nazioni borghesi divorate dal burocratismo, dall'affarismo, dall'arrivismo non avranno più cannoni contro i Soviets. I Soviets sono la maggioranza del paese, i consigli dei deputati operai e paesani e soldati (rossi). Sono tutta una rivoluzione. Il deputato del Soviet esce dalla cellula organica del lavoro. Il suo compito è limitato al suo mandato imperativo. Eletto per pochi mesi, resta in contatto permanente con i suoi elettori, coi quali vive. Ha tutto il comfort dell'associato nazionale. Guadagna il salario dell'officina o dei campi e può essere destituito ogni ora. I Soviets rappresentano così tutti i lavoratori. I Soviets sono organi deliberanti ed esecutivi. I loro deputati non si disinteressano dell'applicazione delle leggi che hanno votato. Al contrario. Ne sono responsabili. Vegliano alla loro esecuzione.
Il potere dei Soviets è costituito prima dai Soviets locali, godenti di una grande autonomia e di una larga indipendenza nelle loro relazioni con gli organismi centrali. Tutto questo inchiude una severa subordinazione dei Soviets comunali ai Soviets di cantone, a quelli dei distretti; da quelli dei distretti a quelli del governo; da quelli del governo al Congresso panrusso dei Soviets della Repubblica Federativa Socialista.
Il Congresso panrusso dei Soviets si raduna due volte l'anno. Radunato, nomina un Comitato centrale esecutivo di 200 membri, ai quali esso delega i suoi poteri.
Ho voluto abbozzare a grandi linee l'edificio bolscevico per dimostrare come noi, con l'agitazione serratiana, siamo vicini al compimento della nostra rivoluzione. All'inaugurazione della Camera c'era indubbiamente un'aspettazione che la penna non può tradurre. Le moltitudini non sognavano neanche la garofolata e la scena di assentarsi dalla Camera per paura di udire il discorso reale. Tutte cose dei tempi andati. Ma non si può fare tutto in una giornata. Più tardi è venuta una irruzione che deve aver dato molto da pensare alla monarchia e ai monarchici. Neanche ai tempi dei Falleroni e degli Imbriani i deputati hanno avuto il coraggio dei nostri di prorompere negli evviva la repubblica sociale come è avvenuto in questi giorni. Dove siamo? Molti se lo sono domandato. Dove siamo? Fu una scena che in piazza o in un ambiente proletario avrebbe attirato tutte le guardie regie in Roma. Per essere salvi dalle mani mercenarie bisogna essere "onorevoli".
Anche il primo tentativo di sopprimere il bavaglio che Nitti ha inflitto e infligge alla stampa perfino nelle giornate di elezioni generali è stato sconfitto dall'assenteismo di partito. Sedici deputati socialisti sono rimasti assenti con sole quattro giustificazioni. Fu crudele. L'on. A. Malatesta ha subito una sconfitta che doveva essere una vittoria. Pazienza. Bisogna distruggere gli andazzi antichi. Con l'indennità di dodici mila lire l'anno l'eletto deve compiere il suo dovere come se andasse all'officina o all'ufficio. Il deputato non è più indipendente. O faccia il legislatore o un altro mestiere. La sorte del proletariato non può dipendere dagli acciacchi o dai capricci o dalle assenze degli onorevoli.
E ho finito. Lascio Giacinto Menotti Serrati spossato, prostrato, sfinito al margine della tramutazione del regime politico in regime sociale. Negli indugi egli si fortifica per l'entrata nel regno del Lavoro. L'avvenimento non è che posposto per dar tempo ai pensieri canuti di spegnersi. In Francia, con una popolazione eminentemente immaginosa, la tramutazione non avrebbe potuto aver sosta. Il regime del '30 è andato giù come un castello di carta. Una soffiata collettiva ed è sparito. Una cantata di Marsigliese ha fatto scappare in carrozza quello di Luigi Filippo. Il francese non è costante in tirannia. Quello del '70 si è disfatto e non si è più tirato su. La Repubblica non ha stesa la mano che per consegnare il bandito imperiale al vincitore tedesco.
Noi siamo più tenaci. Ci prepariamo. Siamo sempre in preparazione. I nostri movimenti si svolgono di preferenza nel romanticismo. Il lirismo nutre i nostri cervelli. Ci trattiene, ci culla, ci sorride. Ma sia come si sia, il 16 novembre è per il proletariato italiano un rivolgimento memorabile. È la pietra miliare della nostra storia. Si va avanti. Si sta per entrare nel grande pensiero del socialismo soviettato – erede di tutte le audacie dei proletariati dei secoli scorsi.
Giacinto Menotti Serrati, rifocillandosi, aspetta il «Comunismo», mediante i Soviets.
«Il Partito Socialista italiano – ha scritto Serrati nel quinto numero del Comunismo – che, durante la guerra, ha saputo compiere il proprio dovere, tanto da averne il plauso, in ogni dove, deve compiere anche questo altro dovere, certamente ben più difficile: quello di muovere risolutamente verso le definitive conquiste, senza facili illusioni, conscio delle sue responsabilità, pesando tutte le difficoltà che la situazione italiana può porgli attraverso il cammino..
«Alle masse che ci seguono dobbiamo tutte le nostre forze e tutte le nostre intelligenze. Esse debbono sapere da noi le difficoltà da incontrarsi, non per trarsi in disparte neghittose e vinte, ma per preparare assennatamente la vittoria».
Registro un avvenimento e chiudo. Perchè come l'anarchia può condurre al comunismo così il comunismo può condurre all'anarchia. Non si sa chi dei due andrà all'altro: se Serrati o Malatesta. L'abbraccio è avvenuto, fra gli applausi delle masse.
Errico Malatesta è faccia da piattaforma mondiale. È un nome. Circola per la piattaforma da mezzo secolo, Fu amico e compagno di Bakunine. Conosce le prigioni e pesa su di lui più di una condanna a morte. Molte pubblicazioni clandestine sono al suo dorso. L'ho trovato una mattina senza giornale. Che cos'era avvenuto? Niente. Gli associati alla pubblicazione lasciavano il denaro nel cassetto di una credenza, greggia. Un copain se l'è preso. Si trattava di una manata di biglietti da mille. Pazienza. Allora non ci si indugiava sulle miserie. I capi avevano molto da fare. Cercato da tutte le polizie egli ha girato il mondo. Andava e veniva dai confini truccato da prete o da frate.
Egli è un superbo medaglione per chi ha vissuto degli stessi avvenimenti. Adesso egli è direttore di un quotidiano.
Ora passiamo ai tormenti di Giacinto Menotti Serrati e vediamo quali furono gli artefici delle sue torture.