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Ecco dunque che cosa significa diventare uomini celebri! Bisogna che io faccia il mio opuscolo. Altri, gli uomini del giorno, si fanno fare la biografia dall'amico del cuore, che rende loro un servizio e ne ricava qualche poco di quattrini; io, che non sono un uomo del giorno, che devo solo la mia celebrità alla matta rabbia dei nemici del mio partito, che non ho servigi da chiedere e quattrini da dare, debbo provvedere da me stesso alle faccende mie.
Me ne dispiace per la modestia che mi è stata fin qui compagna, ma i lettori, in queste poche pagine, scritte serenamente, troveranno qualche cenno autobiografico non privo d'interesse socialista. Trattasi d'un «caratteraccio», che, da socialista, ha saputo fare con modestia il proprio dovere, in quarantotto anni di vita, vissuta con allegria anche tra molti stenti e non pochi dolori.
Ho amato, ed amo, al disopra di tutto, tenacemente, settariamente, il Socialismo ed il Partito che ne è l'espressione nella vita politica. Al mio Partito, ogni volta che è stato necessario, ho sacrificato, di proposito, e gaiamente, ogni libertà ed ogni affetto. Tutte le mie passioni le ho chiuse entro la sfera della politica socialista, cui ho dato, per intero, ogni ora della mia esistenza.
Questo amore, questa passione – che in altri s'affievolisce cogli anni – in me con gli anni si sono accentuati, sicchè parmi quasi che il socialismo mi abbia dato come un vigore di lunga giovinezza, ed è per esso che non sento nè le fatiche fisiche, nè le delusioni e le amarezze della lotta. È per il socialismo che – mentre scatto pronto ed improvviso contro ogni offesa che mi sembra fatta alla purezza del l'Idea od alla dirittura della nostra azione – so per contro tollerare sanamente le offese che vengono fatte alla mia persona. E compatisco con allegria alla meschinità dei miei detrattori ed assisto tranquillo allo spuntarsi delle loro armi.
Nel socialismo e nel partito ho cercato di fondere completamente il mio io, tanto che, da cinque anni ch'io dirigo l'Avanti!, pochissime volte ho pubblicato il mio nome e solo allora quando si trattò di assumere delle responsabilità dirette. Se oggi il mio io ricorre troppo spesso in questo libercolo, si è perchè a tanto mi hanno indotto quei tali che – dopo aver tentato di pugnalare nella schiena il Partito che li aveva innalzati a posti di grandissima fiducia – oggi sperano di colpire attraverso la mia persona, che è poco, il socialismo che è tutto.
Non dunque io farò una autobiografia, sproporzionata a me, ai fatti, alla situazione; ma dirò solo delle cose mie quel tanto che è necessario per mettere a posto i miei nemici e dare a qualche botoletto la pedatina perchè torni a cuccia.
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È stato detto che io sono un avventuriero. Se avventuriero significa chi ha avuto non poche e diverse avventure in vita sua, penso che il qualificativo s'attaglia perfettamente al caso mio. Ma quanti sono nel mondo coloro che, non avendo avuto beni di fortuna, ed avendo voluto serbare sempre la schiena diritta e mostrarsi con tutti indipendenti non abbiano dovuto andare raminghi di paese in paese? L'avventuriero che va attorno pel mondo colla sua fede, disposto a tutte le sofferenze piuttosto che piegare alle dure necessità dell'esistenza; il refrattario che non ha mai fatto fortuna, ma che può guardare in faccia a tutti i privilegiati ed a tutti gli arricchiti, non ha dunque il diritto di cittadinanza in seno al Partito del proletariato socialista? Solo a coloro, che ebbero la vita intessuta di gioie e di piaceri, sarà dunque permesso l'agone politico e la politica sarà dunque privilegio dei fortunati e dei gaudenti?
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Entrai nel Partito socialista a venti anni, nel 1892, quando si fondò a Genova. Nel 1893 presi parte al Congresso internazionale di Zurigo (Agosto) e nazionale di Reggio Emilia (Settembre). Nello stesso settembre fui arrestato per la prima volta a Milano in occasione delle dimostrazioni scioviniste contro la Francia per i fatti di Aigues Mortes. Ero imputato di aver gridato «Viva la Francia!» per reazione contro la canea nazionalista e di avere «battuto le mani ironicamente» ad un delegato di P. S. Fui assolto.
Poco più tardi, ad Oneglia, fui arrestato per canto dell'inno dei lavoratori e condannato per eccitamento all'odio fra le classi sociali. Scoppiati i moti di Sicilia e di Carrara, fui arrestato nuovamente e condannato ancora per ribellione alla forza pubblica durante una dimostrazione.
Intanto Francesco Crispi forgiava le sue leggi eccezionali; un articolo delle quali stabiliva che potesse essere inviato a domicilio coatto chiunque fosse stato condannato in precedenza per eccitamento all'odio fra le classi sociali. Francesco Crispi aveva dichiarato che la legge non riguardava i socialisti; il segretario Galli aveva soggiunto che i coatti politici erano... coatti comuni, pregiudicati ecc. Ma le Commissioni Provinciali del domicilio coatto usarono la legge come la più perfida arma di reazione contro tutti gli idealisti e quella di Porto Maurizio chiamò a comparire dinanzi a sè ben ventidue socialisti, tra i quali Giuseppe Canepa, Francesco Rossi, Orazio Raimondo, Angiolo Cabrini, Ennio Gandolfo, Augusto Mombello, Agostino Glorio, Francesco Ughes e... Pagnacca.
Io e Cabrini prendemmo il largo: egli riparò nella Svizzera; io in Francia, a Marsiglia. Degli altri, tutti i pezzi grossi, quali per un verso, quale per l'altro, furono assolti: il Gandolfo fece cento giorni di carcere. I due modesti gregari Ughes ed Agostino Glorio furono mandati alle isole.
Vissi a Marsiglia poveramente, facendo il guardiano dei docks, il garzone di farmacia, lavorando a bordo di bastimenti, scaricando il carbone dai piroscafi. E lavorai sempre pel Partito, diedi vita attiva alla sezione di Marsiglia, altre ne fondai nei dintorni. Mandai frequenti corrispondenze alla Lotta di classe.
Poi la miseria e la nostalgia mi indussero a tornare in Italia. Venni a Genova e alla vigilia del maggio '95 fui arrestato e chiuso in quel carcere. Di lì fui tradotto ad Oneglia per essere interrogato da quella Commissione Provinciale che, in contumacia mi aveva condannato a diciotto mesi di domicilio coatto. Le mie dichiarazioni furono tali e tanto recise che i commissari confermarono il primo giudizio.
Dopo due mesi fui tradotto per Genova e Pisa e Orbetello, al forte di Monte Filippo ed a quello della Rocca. Vi stetti solo pochi giorni in cella chè, avendo il ministro Crispi, in seguito alla campagna della democrazia, segnatamente di Cavallotti, deciso di abolire quelle Colonie, i coatti politici colà relegati, dovevano essere trasportati alle isole.
Taccio delle privazioni e dei tormenti della vita dei transiti carcerari. Ricordo solo che fui a Roma – a S. Francesco – a Caserta, a Benevento, a Foggia, a Bari e, finalmente, a Tremiti, dove feci vita fraterna con Donatelli di Aquila, Braga di Prato, Pellaco di Genova, Damiani di Roma, Selvi di Firenze ed altri anarchici e socialisti, cacciati su quello scoglio dalla furia reazionaria.
Pochi mesi dopo – per due altri processi – ero ricondotto ad Oneglia per Ancona, Bologna, Piacenza, Genova. Altre sofferenze ed altre umiliazioni!
Assolto in entrambi i processi – l'uno per eccitamento all'odio coaccusato con Lazzari, Ricci e Gandolfo; l'altro per contravvenzione alla legge eccezionale – mi si fece riprendere, dopo breve tempo, la via dei transiti – lungo, sconcio, tormentoso viaggio attraverso le più luride carceri del regno, nelle più infette tradotte cellulari. Fui a Genova, Livorno, Roma, Cassino, Napoli – al Carmine – e di là venni tratto, dopo oltre un mese di viaggio, all'isola di Ponza. Vi passai una vita modesta, nella compagnia di Cafassi di Milano, di Briotti di Zagarolo, di Valducci di Cesena, di Venturini di Chiusi, e d'altri amici e compagni, scrivendo qualche articolo per alcuni settimanali e facendo scuola ai bimbi degli isolani nelle sparse cascine di quella terra, bella ed abbandonata. Al Partito non chiesi mai alcun aiuto.
Caduto Crispi, dopo Amba Alagi, il grido di «viva Menelich» lanciato da Leonida Bissolati in Parlamento, fu il nostro grido, di noi coatti politici. Menelich infatti aveva sconfitto la reazione italiana. Rudinì, che succedette a Crispi, dovette dare una larga amnistia. Noi vi eravamo compresi.
Tornai a casa nel novembre '96 e nel dicembre, per alcuni discorsi fatti in occasione d'una elezione supplettoria nel collegio di Porto Maurizio – fui nuovamente arrestato. Questa volta a San Remo! E per quanto il mio fosse un reato continuato, dipendente da una sola propaganda fatta in tutto il collegio politico, mi si fecero due distinti processi per eccitamento all'odio.
Avevo detto ai contadini che i signori considerano l'Italia come una vacca che i poveri mantengono e che i ricchi mungono. Ebbi otto mesi di carcere al tribunale di San Remo e sei a quello di Oneglia! Scontai gli otto ed ottenuta la libertà provvisoria per gli altri, mentre già altre burrasche giudiziarie si avventavano contro di me, riparai di bel nuovo in Francia, a Marsiglia.
Tra gli altri processi in corso ve n'era uno intentatomi per diffamazione da una Società Operaia, infeudata ai conservatori, che io avevo invitato ad aderire all'agitazione contro il domicilio coatto che allora si faceva dai partiti avanzati. La società mi aveva risposto che non poteva aderire col solito pretesto dell'apoliticismo, ed io, sul giornale La Lima, avevo violentemente presa a partito la viltà dei capi ed il cretinismo dei soci di questa mutua. Il processo si fece, mentre ero all'estero. La Lima aveva un suo gerente. Avrei potuto tacere. Preferii scrivere al presidente del tribunale dichiarandomi autore dell'articolo. Fui condannato in contumacia a quattordici mesi di carcere e duemila lire di multa.
A Marsiglia ripresi l'opera di propaganda socialista. Ma la nostra propaganda schiettamente rivoluzionaria non poteva essere tollerata dall'autorità, la quale colse il pretesto di un comizio agitato, per tentare di arrestare qualcuno di noi. Arrestò infatti nel suo laboratorio Emilio Marzetto, scultore in legno. Io, avvisato a tempo da un compagno, riuscii a riparare in territorio italiano, vale a dire sopra un bastimento, con bandiera della nostra nazione. Era questo la Nonna Adele, uno schooner di circa 200 tonnellate di stazza, che stava preparandosi per un lungo viaggio nel Sud-Africa. Ne era proprietario e capitano Tolomeo Gandolfo, fratello di quell'avvocato Ennio, che era stato chiamato con me dinanzi alla Commissione del domicilio coatto e che fu poi, durante la direzione integralista ferriana, membro della direzione del Partito, a me legato da tanti anni da fraterno affetto.
Salpammo da Marsiglia il 4 febbraio 1898 e, dopo una navigazione assai tempestosa, sopratutto al Sud di Capo di Buona Speranza, giungemmo a Mananzari di Madagascar il giorno 11 giugno. Era con me mio fratello Manlio. Con lui e con altri di bordo sbarcammo dal veliero. Stetti in quel paese, dove l'amministrazione francese dava esempi non indegni del sistema coloniale di tutti i capitalismi europei, lavorai alla escavazione di una certa collinetta, non quale negriero, ma quale operaio. Adoperai la pala sotto la sferza del sole dei tropici. Tornai poscia a bordo della Nonna Adele facendo il cabotaggio su quelle coste e fra le isole di Riunione e di Maurizio, finchè, alcuni mesi dopo, mi imbarcai, come marinaio, sopra un piroscafo, Irene di Lussin Piccolo, capitano Zar, col quale feci alcuni scali di Oriente e tornai in Europa verso la fine del '99.
Non ho mai visto la legione straniera neppure col binoccolo. Sbarcai dall'Irene a Marsiglia, da dove mi recai subito nella Svizzera, a Ginevra prima, poi a Losanna, dove ritrovai gli antichi amici e compagni Cafassi e Marzetto. Vissi anche qui poveramente dando qualche lezione, facendo come il segretario operaio della colonia, organizzando strettamente quella sezione socialista – che ebbe allora un periodo di veramente confortante sviluppo – e girando per propaganda la Svizzera. Al Congresso di Zurigo (maggio 1900) fui eletto segretario dell'Unione Socialista Italiana nella Svizzera, e ad essa, al suo incremento, dedicai tutta la mia attività. Ed i miei sforzi non andarono totalmente perduti, chè il Partito, prosperò e fiorì.
Nel 1902 Dino Rondani mi proponeva di andare negli Stati Uniti a prendere il suo posto di direttore del Proletario, ed io, lieto dell'occasione che mi si presentava di vedere altra gente ed altri paesi, accolsi con gioia l'invito. Non ebbi da fare molte valige!
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Cedo ora la penna ad Oddino Morgari, il quale, anni sono, ha raccontato – narratagli da me – la mia vicenda nord-americana. Essa è esatta nei particolari, come nelle linee generali ed è una pittura abbastanza interessante della nostra vita coloniale e del sovversivismo italiano all'estero. Non sono dette in questa narrazione tutte le miserie patite, tutte le sofferenze sopportate con socialistica fierezza e con allegro stoicismo. Ho passato dodici anni all'estero assistendo in ogni modo i nostri emigranti, propagando colla parola e con la penna le nostre idealità e – alla fine dei dodici anni! – il mio impiego mi fruttava centottanta franchi mensili. Perciò secondo i miei detrattori, io sono stato sempre uno sfruttatore della massa operaia!
Altri – dopo simili esperimenti – sarebbero tratti a porre il proprio ingegno e la propria attività a beneficio dei capitalisti. Io ricavo, da tanto odio e da tanta miseria, maggiore incitamento a perseverare per la mia strada. Colui che rimprovera il modesto stipendio all'organizzatore od al propagandista, quando non è un miserabile sparafucile della borghesia, è un piccolo borghese dall'anima chiusa, e dallo spirito grettissimo. In tutti i paesi civili i partiti e le classi si organizzano ed incaricano uomini di speciale fiducia e competenza perchè studino e difendano i loro interessi. Solo in regime individualistico non sono necessari i «rappresentanti». Le masse debbono controllare oculatamente ed instancabilmente chi lavora per loro. Lo debbono scacciare se indegno; lo debbono spronare se tardo; approvarlo se compie il proprio dovere; ma, per quella divisione del lavoro che è una necessità dei nostri tempi, è indubitabile che tutti non possono fare tutto.
I miei denigratori queste cose le sanno, tanto è vero che, quando furono nel Partito, non si sognarono mai di fare neppure la più piccola opposizione a tale necessità del nostro movimento e che – senza avere avuto al loro attivo tante persecuzioni e tanta attività spesa per l'opera comune – essi stessi furono, come me, agli stipendi del Partito per decenni.
Un'altra accusa velata, tra le righe, mi è stata mossa: ho abitato circa otto anni nella Svizzera e non ho subìto persecuzioni di sorta. È verissimo. Ma ciò credo sia dipeso da un mio particolare modo di comportarmi di fronte alla Confederazione che m'ospitava: «Non ho mai chiesto nulla; ho vissuto più appartato che mi è stato possibile, senza brigare per avere parte qualsiasi nella sua politica piccolo borghese». Intendiamoci, ciò non costituisce rimedio assoluto contro le espulsioni; ma può esserne un antidoto di qualche efficacia. D'altra parte, nel periodo in cui io vissi nella Svizzera, le espulsioni politiche sono state assai rare, tanto che vi stettero con me, tranquillamente, altri ottimi compagni nostri, anche se, per ragioni politiche, avevano da scontare, in Italia non pochi anni di galera, così il Dellavalle, il Cafassi, il Barboni, il Cabrini ed altri.
Debbo aggiungere anzi che nella Confederazione, pur avendo detto sempre il mio pensiero intransigente, fui in ogni occasione rispettato quale rappresentante del mio Partito ed ottenni anche giustizia. Così, quando – dopo la mia intensa campagna contro il crumiraggio bonomelliano, fui tratto da monsignor Bonomelli dinanzi ai tribunali per diffamazione – io ebbi la soddisfazione di vedermi assolto dai giurati ticinesi.
Non credo che ciò possa costituire un titolo di demerito per me.