Giulio Piccini (alias Jarro)
La principessa

PARTE SECONDA.

I.

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PARTE SECONDA.

 

 

 

I.

 

In uno de' più bei palazzi della via di Toledo abitava la principessa Enrica Gorreso di Caprenne.

La figlia del duca di Mondrone avea sposato da circa undici anni il principe, che le facea la corte nel periodo di tempo in cui ella accusava Roberto e compariva dinanzi a' giudici per deporre contro di lui.

Il duca era morto da alcuni mesi, e la principessa non avea ancora dismesso il più stretto lutto.

Nominata fra le elegantissime e bellissime dame di Napoli, essa era desiderata indarno ne' ricevimenti più signorili, agli spettacoli, cui era assidua per lo innanzi, e ne' quali la sua bellezza riceveva tante e sì ardenti ammirazioni, che a lei piacevano.

Quella mattina, benchè appena fosser suonate le sette, la principessa era nel suo salotto e il principe con lei.

Sedevano a un tavolino, coperto da uno sfarzoso tappeto della Cina, e sul quale erano, un po' in disordine, i varii pezzi di un servizio da , in argento.

Le fiammelle azzurre si alzavano sotto il gran vaso, nel quale il bolliva, gorgogliando.

- Siete molto gentile, - disse la principessa al marito. - Non posso dirvi quanto vi sono riconoscente d'esser venuto così di buon'ora, a farmi una visita nel mio appartamento.... Mi sono levata stamani, prestissimo: e mi annoiavo.... Avevo leggiucchiato qualche libro (sulla tavola erano sparsi varii volumi): ma sapete che la lettura mi stanca presto....

- Mi sembra che tutto vi stanchi, cara Enrica: tutto ciò che è veramente bello, che inalza l'animo e consola, o rallegra agli altri la vita.... Siete una donna molto originale.... Noi stiamo insieme da undici anni, o per dir meglio da undici anni siamo marito e moglie, perchè siamo stati ben poco insieme.... Ma ci fu in voi molto, che io non son riuscito mai ancora ad intendere: c'è una parte del vostro carattere, che per me rimane misteriosa.... In un punto voi siete infaticabile, nel soddisfar a' vostri capricci....

Il principe diceva ciò in tuono leggero, sorridente, e anche la principessa, guardandolo, sorrideva e gli mostrava i suoi denti nitidissimi.

Il principe era un uomo gaio, simpatico, dissipatissimo, ma che avea, tra le dissipazioni, serbato fortissimo il coraggio, il sentimento dell'onore, la dirittura de' criteri.

Era egli stesso il primo a condannare in il genere di vita nel quale s'ingolfava: ma, pur troppo, ogni giorno, vi si sentiva più attirato.

Nel suo matrimonio non avea trovato la felicità che egli cercava. Studioso, appassionato della letteratura, coltissimo nelle arti, non avea trovato nella moglie alcuna rispondenza a questi sentimenti. Enrica capiva ben poco di tutto: appena quanto si richiedeva a non parer grossolana: la tediava ogni conversazione, in cui si toccasse d'argomento artistico o letterario. Per quella donna bella e robusta non avea attrattive se non la vita prettamente sensuale.

La bellezza di Enrica era ormai nel suo massimo vigore, senza ch'ella avesse perduto della sua freschezza. I giovani di Napoli, e anche i vecchi, accorrevano a uno spettacolo, a una festa sol per vedere le sue spalle, le sue braccia, il suo seno meraviglioso. Ella non era punto avara di mostrarsi: avea inventato, di concerto con il suo sarto parigino, una scollatura, che facea inorridire, tutte le donne: in ispecie le brutte. Alcune di quelle che più la biasimavano, aveano cercato imitarla, ma scopriva troppo i difetti: a usarla, senza eccitar il riso o la compassione, ci volevano le perfezioni scultorie della principessa.

Il principe, al contrario, era snello, delicato.

La principessa, come sa il lettore, era collerica, impetuosa, poichè in nulla tralignava dalla sua prima giovinezza; il principe, fine, ponderato anche ne' suoi risentimenti.

Come si fossero amati, poichè offrivano fra loro sì spiccato contrasto, non si sapeva: o troppo si sapeva dall'alta società napoletana, nella quale si buccinava che Enrica avesse sposato il Caprenne per vanità: e il principe, Enrica per rimpinguare il suo patrimonio, nel quale aveva fatto grandi breccie.

Ma il principe, nell'ammogliarsi, era, ripetiamo, di buona fede. Le gioie della famiglia aveano per lui una vera attrattiva: vagheggiava, dopo tante dissolutezze, dopo tante rischiose avventure, tutte cause d'inquietudini, una vita tranquilla, volta a nobile scopo: per esempio all'affetto, all'educazione dei figli. Ma la principessa non gli avea dato figli: era stata sempre fredda con lui, salvo i suoi impeti di sensualità selvaggia: non gli avea reso possibile la vita intima: aveva empito la sua casa di rumore, di distrazioni, di frivolezze, sino allo stordimento. Intorno a Enrica, o nel palazzo in città, o nella villa nel parco di Mondrone, ove si recavano qualche volta, v'era sempre un che di vertiginoso. Il principe viveva assai più quieto, e lo pensava, allorchè era scapolo.

Bisognava ch'egli trattasse Enrica com'una sovrana; il carattere impetuoso di lei non piegava: essa non concedeva nulla di , benevolenza, favori, se non domandati a ginocchio, con umiltà, quasi con umiliazione di schiavo.

Il principe non comportava molto di buon animo il vivere in tal soggezione: ma avea una cortesia raffinata: amava Enrica: e ad irritarlo sarebbe occorso qualche serio oltraggio, la convinzione profonda che Enrica non rispettasse il nome di lui.

Allora egli, sì elegante, indolente, affabilissimo, motteggiatore, sarebbe stato capace di tutto.

Suo padre gli avea fatto fare studii per la diplomazia: e il principe era stato, per due anni, nella Ambasciata di Parigi, come segretario. Poi era tornato a Napoli: e l'Europa avea avuto un diplomatico di meno.

A questo proposito, dobbiamo raccontar al lettore.... Ci si stia bene a udire.

Enrica e il principe erano stati una notte ad una festa da ballo, alla Corte; sul far del mattino si trovavano insieme nel loro palazzo. Il principe avea accompagnato Enrica fin nella sua camera. Dalle finestre, le cui imposte eran socchiuse, entravano i primi albori: le candele ardevano sui candelabri d'argento. Un bel fuoco crepitava nel caminetto.

La principessa, dinanzi al principe, si tolse il diadema di brillanti, la collana di perle, tutti i gioielli: poi l'abito da ballo, aiutata da due cameriere. Rimasta in semplice guarnelletto di trine, il petto, le braccia a dirittura scoperti, si gettò addosso una pelliccia, e quindi prese a braccetto il marito, dicendogli con tuono indescrivibile:

- Stamani vi concedo ospitalità nelle mie stanze.... Passiamo nel salotto!...

pure scoppiettava un buon fuoco.

Le cameriere erano state licenziate.

- Avete cenato al ballo?...

- No, cara, - rispose il principe. - Chi può mai accostarsi a una di quelle tavole? Si direbbe che la Corte inviti un'orda di affamati.... o di parassiti!

- Neppur io ho cenato.... - disse la principessa, - ed ho fame.... V'invito a far con me una piccola colazione qui, accanto al fuoco.... La servirò io stessa.

E la principessa andò a un armadio d'ebano, con borchiette d'argento, e ne cavò alcuni piccoli piatti dorati in porcellana della Cina....

Il principe fu subito accanto a lei e l'aiutò.

Le loro mani spesso si toccavano; urtavano insieme gli oggetti che portavano: allora sorridevano; la principessa, mezzo nuda, sotto la pelliccia, ch'ogni tanto si apriva, era seducentissima.

Il principe di Caprenne avea pensato più volte, in certi momenti, ch'ella avesse della cortigiana, e non s'ingannava.

Sedettero dinanzi al fuoco: la colazione era preparata sopra un piccolo tavolino di lacca, che appena li separava.

La principessa mangiava sempre con un vero appetito da marinaro.

Il principe soleva appena toccare le vivande.

- Ma qui non si beve? - esclamò a un tratto la principessa, ilare come una giovinetta che un giorno di vacanze va a fare un picnic con le sue piccole compagne.

E anche il principe era dell'umore più giocondo, e, diremo quasi, più infantile.

La principessa si alzò: egli la seguiva: scambiarono un bacio, poichè le loro teste s'incontrarono, mentre la principessa si chinava per trarre da un piccolo stipo giapponese, tutto rabeschi d'oro, con un grande ibis bianco, dal becco roseo, dipinto nel mezzo, una bottiglia di rarissimo Château-Yquem.

Il bel liquido dorato, bevanda degna dei numi e degl'innamorati, fu versato dal principe nei bicchieretti verdi di Baccarat; ma il principe vi accostò appena una o due volte le labbra: la principessa bevve, a poco a poco, tutta la bottiglia.

Gli sguardi più vivaci del solito, le guancie rosee, le labbra d'un vivo corallo, le belle braccia nude, che accostavano ogni tanto alla bocca la posata o il bicchiere, la principessa spirava la forza, il rigoglio della vita, il pieno sviluppo e il pieno godimento di tutte le facoltà sensuali.

Il tavolino fu presto rimosso: la principessa colmò il principe di carezze: sembrava frenetica, una baccante.

Egli l'adorava, senza limiti, e la stringeva fra le sue braccia come una divinità.

Poeta, metteva in quell'amplesso tutta la poesia di cui era capace.

L'altra, di tratto in tratto, con la voce un po' rauca, che avea acquistato per gli eccessi della tavola, e forse per gli altri eccessi, frammezzava a quel delirio parole, che smorzavano ogni poesia.

Erano andati a sedere, o eran caduti su un sofà: la principessa tenea in mano la bionda e delicata testa del principe, la cui fisonomia era un po' sparuta per la notte passata al ballo e la veglia prolungata...

- Io voglio da te.... - disse la principessa col suo solito tono imperioso.

- Di' pure, - mormorò il principe, che le ricingeva i fianchi robusti.

Ella avea fatto cadere artificiosamente a' suoi piedi i guarnelletti di trine: tutto ciò che le era d'impedimento al piacere.

- Voglio, - gli sospirò in un alito caldissimo di passione, che lo facea fremere, - voglio tu non viva più ozioso.... Io sono ambiziosa per te.... per me.... Non siamo abbastanza in alto: non abbiamo ancora abbastanza gli occhi di tutti su di noi.

Così parlava la donna più ammirata che avesse Napoli.

- Mi sembra, - rispose il principe drizzandosi, - che la nostra condizione sia tutt'altro che umile: sia piuttosto invidiabile.... Forse noi non conosciamo ancora dov'è propriamente la felicità, non sappiamo gustarla.... Se potessimo far un po' di solitudine intorno a noi, vivere l'uno per l'altro.... Tu mi parli d'ambizione? - io ne avrei una sola, - continuò il principe, - quella di avere dei figli, di educarli con te: di vivere insomma per la famiglia e nella famiglia....

Enrica alzò le spalle in atto di disdegno, anzi di sprezzo.

La luce del giorno entrava ormai nel salotto assai piena e si confondeva con quella che mandavano i lucignoli delle candele. Fra quelle due luci la fisonomia del principe appariva più disfatta; la sua gracilità, per la stanchezza, sembrava maggiore.

Invece la principessa, col suo roseo incarnato, con la forza delle sue linee, resisteva agli sbattimenti di quelle luci; la sua fisonomia, anzi che scomposta, era serena, riposata, come quella di un animale potente che ha soddisfatto una parte de' suoi appetiti.

- Non era questo l'uomo che ci voleva per me! - essa agitava in quel punto nella mente, guardando il principe.

E pensava ad un uomo, press'a poco come il guardacaccia, con cui avea un giorno sorpreso Cristina, senza vesti, nella stanza del castello sfarzosissima, ove i due si erano riparati.

Quella scena le tornava spesso alla mente.

- Ma parla pure.... ti ripeto, - bisbigliava il principe, baciandole la spalla, bianchissima, rimasta nuda, e appoggiandovi la testa.... - parla delle tue ambizioni....

- Il mio desiderio, - replicò la principessa, pronunziando spiccatamente ogni parola, - sarebbe che tu ripigliassi la tua carriera: tornassi nella diplomazia...

- Sei stanca di Napoli? - domandò il principe, sorridendo. - Vuoi viaggiare, lasciar la tua bella casa?

- Oh, no, - aggiunse freddamente la moglie. - Io rimarrò a Napoli: tu partirai solo....

Il principe fu scosso da tale proposta.

Ella, dunque, benchè fossero sì giovani, e da sì poco tempo uniti in matrimonio, voleva già una separazione!

La libertà ch'egli le lasciava, non le sembrava sufficiente: voleva sciogliere anche quel leggerissimo freno, che per una donna civetta e sensuale può esser la presenza di un marito buono, confidente, molto cortese, ma non stupido.

Le parole della moglie dettero al principe nel cuore: non si poteva esprimere, con maggior indifferenza, la più assoluta disaffezione, la bramosia di sbarazzarsi di lui.

Tutta quella scena di amore, di frenetica passione, ella l'aveva simulata per indurlo a' suoi intenti.

E tale era stato il disegno di lei: nella ebbrezza, nello snervamento dei piaceri, strappargli una promessa.

Il principe era, come abbiamo detto, raffinatamente dissoluto. Guardò la moglie, e gli parve più bella, o più desiderabile, nella sua perfidia. Ella, con occhiate di fuoco, lo dardeggiava, accostava le labbra a quelle di lui, come se volesse dargli il premio della sua sottomissione, che già si aspettava. Nel protender le braccia, scoprì viepiù il suo seno eretto, marmoreo, e pur tutto palpitante, roseo, vivo nei suoi floridissimi turgori. Benchè sopraffatto da una certa languidezza, stanco, e benchè il consiglio impreveduto e crudele della moglie lo avesse moralmente abbattuto, ebbe un'idea da uomo dissipatissimo.

Enrica aspettava egli rispondesse alla sua proposta, e si aspettava una vittoria: a lui balenò un'idea di piacere, di vendetta. Ella voleva burlarsi di lui: egli si sarebbe burlato di lei, l'avrebbe spinta a un'altra delle sue scene di cortigiana, di finta, folle passione: l'avrebbe assaporata, goduta a tratti a tratti, poi le avrebbe riso in faccia: l'avrebbe forse schiaffeggiata, costretta a domandargli perdono in ginocchio, trascinata pe' capelli sul tappeto della stanza, se gliene fosse venuto talento.

Malgrado la sua delicatezza, la sua cortesia di gentiluomo, egli, eccitato dalla voluttà, dallo sdegno, avea compiuto con donne, di una specie differente, per tenore di vita, dalla principessa, simili atti brutali.

Ella ne dovea esser sorpresa.

Infatti, all'invito di lui, ella ricominciò il suo folleggiare: ricominciò il delirare, il fremere del suo bel corpo. Egli la premeva a : ebbe la forza di darle un ultimo bacio, e con esso le lanciò una parola di amaro vilipendio.

Essa lo guardò sorridente, come se quella bruttura non l'avesse offesa: al contrario, fosse per lei un acuimento di gaudio, uno stimolo nuovo.

Egli non sapeva comprendere. La perversità, la corruzione morale della moglie, da lui qualche volta appena subodorata, non gli s'era mai svelata come agli incerti albori di quel mattino.

La principessa, quando si furono ricomposti, tornò a dirgli, col suo tuono di voce più carezzevole:

- Dunque, mi esaudirai.... Tornerai a riprendere il tuo posto nella diplomazia.... E otterrai certo, subito, un'ambasciata.... Il Re è sempre così ben disposto verso di noi....

- Sicchè, io dovrei partire... separarmi da te....

- Io non potrei allontanarmi da Napoli... almeno per ora... forse in seguito.... Ma del mio sagrifizio nulla m'importa, - aggiungeva ipocritamente. - Il dolore del distacco mi sarà mitigato dal pensiero di veder appagato il mio sentimento più caro: l'ambizione ch'io nutro per te: il desiderio mio più forte, che è quello di vederti seguire la carriera a cui tuo padre ti avea sì amorevolmente avviato.

Il principe l'ascoltava, le scrutava in volto la sua doppiezza.

Ella, poco avveduta, volle tentare, vedendo che non rispondeva, un altro colpo.

- E poi, - soggiunse, - tu ti piegherai al mio consiglio, perchè nessuno più di me cerca il tuo bene e voglio almeno, - tornava al suo fare imperioso, - tu esperimenti di uscire dalla vita d'ozio che meni.... Tu mi dirai che vivi per me; ma ti par degno d'un uomo intelligente, che ha l'attitudine ad essere operoso nello cose più serie, più utili, il viver soltanto per l'amore?... Io sono felice, ma la mia felicità sarà certo più durevole, se non più grande, quando saprò d'esser la moglie di un uomo, il cui nome sia pronunziato da tutti con stima, benemerito del suo paese, e ogni cui atto sia osservato, discusso.... L'ozio può esser tollerabile in noi donne... che abbiamo tanto spinto di frivolezza per sostenerlo, e pur ci è causa spesso di tanto abbattimento, di prostrazione nell'animo, di confusione nell'intelletto; ma - proseguì un po' rudemente, e come se facesse la lezione a un fanciullo, a lei subordinato - non è tollerabile in un uomo d'onore.

E si ravviluppava nella pelliccia, e si appoggiava al dorso del canapè, stando quasi riversa, e guardando di sottecchi il principe, da cui attendeva ansiosa una risposta.

- Onore?... avete detto, - esclamò il principe, senza scomporsi. - Voi parlate d'onore?... Mi consigliate di partire: separarmi da voi, lasciarvi libera a' vostri capricci; e non vi basta quelli che ho sopportato fin ora? Io mi devo sottoporre come un fanciullo... lasciare la mia casa, esiliarmi da Napoli, perchè a voi piace così: perchè avete bisogno di sfogare, più che forse non fate, i vostri appetiti?... Tu hai un amante!... - aggiunse il principe furibondo, - per questo vuoi allontanarmi.

E la percosse nel volto molto forte.

Con la proposta di separazione l'avea irritato, ferito nel suo amor proprio, lasciato in balìa di tutte le più tristi, angoscianti supposizioni.

Enrica non era avvezza a vedersi così dominata da uomo di tal qualità.

Cominciò, secondo l'indole di certe donne, ad ammirare colui che mostrava di saperla soggiogare; che la superava nella forza del carattere e della volontà. Pure, siccome l'indole di certe donne è pur sempre la provocazione, mormorò, mentre si portava una mano al volto e facendo un gesto di sprezzo verso il marito:

- Facchino!

Quasi nel medesimo istante gli gettava in una guancia due grossi anelli, che si era in fretta cavati di dito: due forti proiettili.

Egli che era già vergognoso, quasi pentito dell'atto violento, e sentiva, come gli era avvenuto in altri simili casi, senza però correggersi, che poco si addiceva ad un gentiluomo, fu di nuovo punto, irritato.

Si slanciò sulla principessa; non volea darle più pace: ella resistette: fino a che egli, gettatala a terra, la trascinò pei capelli quasi per tutta la stanza.

L'energia, la fierezza da lui dimostrata gli cattivarono l'animo della moglie. Bellissima, supremamente elegante in ogni ragguaglio de' pochi abiti che avea ritenuto, si trascinava a' piedi di lui, implorava perdono, gli confessava perversamente di aver un amante, e che le era stato carissimo: che avea vagheggiato una separazione, cercato mezzo per avere la sua libertà: ma d'ora innanzi non avrebbe adorato che lui: lui, suo signore, suo sovrano, suo dominatore....

- Io non voglio sapere, - disse il principe, rialzandola e spingendola lontano da , - se abbiate o no un amante... siete così sciagurata che me ne direste anche il nome... perchè io lo cercassi, lo sfidassi... perchè un duello, forse, potrebbe rassicurarvi meglio che una separazione.... Ma io non voglio oggi scandali.... È un momento in cui Napoli non è occupata di alcun fatto serio, o frivolo, che dia buon alimento alle ciarle... Uno scandalo nella famiglia del principe di Caprenne sarebbe un boccone troppo ghiotto.... Io prenderò la vita del vostro amante e... la vostra... quando crederò opportuno.... Voi siete di quelle donne, le peggiori di tutte, che nulla può correggere.... Ricordate quanto io vi aveva saputo perdonare nel punto del nostro matrimonio.... Vi ho amato: forse, meglio, vi ho desiderato con furore. E voi, che ve n'eravate accorta, dopo avermi stillato fiamme, a poco a poco, nel cervello, nei sensi, n'avete approfittato per farmi una confessione, già sicura che io, invasato dalla mia passione, e ingannato dalle vostre lacrime, dal vostro pentimento, che pareva sincero, vi avrei assoluta....

Ella si era appoggiata col gomito a una delle estremità della mensola, in malachita, del caminetto, e agitava una gamba, il cui movimento, quasi febbrile, si vedeva sotto l'ampia pelliccia di martora, in cui si stringeva.

- D'ora innanzi, - riprese il principe, - noi vivremo assolutamente separati.... Cesserà fra noi ogni intimo rapporto.... Lascio a voi tutto il primo piano del palazzo: io abiterò al pian terreno.... Pranzeremo insieme: riceveremo insieme, qui al primo piano, le sere in cui diamo i nostri balli: vi accompagnerò io alle feste, a' teatri, alle passeggiate.... Vi lascerò qui tutta la massima libertà: e guai a voi, se ne abusate.... Così avrete la separazione invocata.... E questi miei ordini sono irrevocabili! - disse il principe con la più cupa risolutezza.

Enrica singhiozzava: questa volta sinceramente.

Volle accostarsi al principe: egli la respinse, e le disse: - Siete una donna molto triste e molto pericolosa.... Farete o avrete fatto molto male: ma ricordatevi che nel mondo vi sono compensazioni inevitabili: troverete chi saprà darvi il vostro castigo: non sempre s'incontrano vittime rassegnate.

Parve a Enrica, in quell'istante, veder affacciarsi dalla porta la pallida fisonomia di Roberto: e dette un grido.

Ma la porta era stata aperta e rinchiusa dal principe, ch'era uscito per andar a conferire col suo maggiordomo circa la nuova disposizione degli appartamenti, a cui cercava un pretesto.

Enrica, rimasta sola, si gettò sul sofà, la testa sprofondata in uno dei morbidi cuscini, e pianse. Non aveva mai pianto lacrimevere e sì abbondanti. Il cuore le diceva che quel distacco dal principe le sarebbe fatale: che lasciata padrona di avrebbe scivolato chi sa in quali abissi: e poi, ora che il principe l'abbandonava, essa, volubile, bizzarrissima, s'accendeva d'una folle passione per lui.

Morto il padre, abbandonata dal principe, si sentiva sola nel mondo: sola, se non co' suoi rimorsi, co' pensieri non lieti delle cose malvagie da lei poste in atto.

Col tempo, il ricordo di Roberto ch'ella credeva aver cancellato per sempre dal cuore, vi si ravvivava.

Provava spesso una inquietudine, una smania inesplicabili: non pigliava sonno, non trovava in nulla diletto: avea da opporre a tutto, da censurar tutto, profanava ciò ch'è più sacro, bruttava ciò ch'è più bello: la vita amarissima di chi ha trasgredito le grandi leggi morali, inviolabili della coscienza.

S'era fitta in capo un'idea sin da quella memorabil mattina: riconquistar la grazia del principe.

E, nel corso di anni, vi era riuscita. Il principe ormai la trattava con benevolenza paterna: con una affabilità indulgente e un po' motteggiatrice.

S'era formata fra loro come una certa tregua: vivevano abbastanza in pace: la principessa, tutta intesa al riconquistare; il principe sempre attento, perchè temeva d'insidie, e per provvedere, senza por tempo in mezzo, nel caso di pericoli.

In tale condizione noi li abbiamo trovati, insieme col nostro lettore, una mattina seduti a un tavolino, prendendo il , nel salotto della principessa.

Qual differenza tra questa mattina e l'altra da noi dianzi descritta! Allora il principe amava, stimava a bastanza la moglie: or non avea più per lei affetto, fiducia.

Anche il salotto non era lo stesso: quello ove si era svolta la disgustosissima scena era un salotto verde, con grandi fiori rossastri, nelle pareti, tappezzate di seta: questo era un salotto, in cui le pareti, i mobili, erano coperti di seta azzurra, splendente, con fiorellini bianchi, di mughetto, a rari intervalli.

La principessa, il principe si può dire vivessero ormai in ottimi rapporti, e quasi cordiali, siccome abbiamo avuto modo di rilevare dal dialogo riferito nel principio di questo capitolo.

Il principe scherzava volentieri nelle domande che faceva alla principessa sulle sue speciali occupazioni, sull'impiego della sua giornata, sulle persone, uomini e donne, che vedea più di frequente.

Anche la principessa scherzava nelle sue risposte, e talvolta nelle sue domande.

Ma, l'uno e l'altra, sempre in tuono assai dolce.

Dopo lo screzio con la moglie, il principe si era mostrato molto assiduo in casa della duchessa Rignatelli, giovane vedova, e dama della Regina.

Nell'alta società napoletana si raccontava che il principe avea un tempo fatto molto la corte a una zia della duchessa, bellissima donna, sebbene un po' matura, e che ora avea rivolto alla nipote i suoi omaggi.

Il carattere della giovane vedova era molto confacente a quello del principe.

Anch'essa era delicata, poetica, studiosa, musicista, innamorata d'ogni arte: e, malgrado la sua delicatezza, coraggiosa, anzi intrepida.

La relazione fra il principe e la gentildonna non era più un mistero per tutta Napoli; e naturalmente anche la principessa ne avea udito parlare, e sovente, e magari con esagerazioni, da' suoi corteggiatori.

Ella avea ben capito fin dalle prime che fra quei due, sì affini nella bontà della indole, nella elevatezza degli ideali, vi dovea essere una corrispondenza di animi, profonda, esaltata.

Siccome era fierissima, non avea mai voluto mostrarsene gelosa.

Ricevea la duchessa, le rendea puntualmente le sue visite, l'abbracciava, la baciava al cospetto delle amiche; con ciò intendeva gratuirsi il principe.

Egli non avrebbe tollerato, con la singolar buona fede la quale è in ogni uomo, che la moglie facesse ciò che egli pur faceva senza molto ritegno: ed era pronto a punire ogni scandalo, anche col più grave rischio della sua vita.

La principessa lo sapeva: e adoperava molta prudenza.

In casa della duchessa il principe passava la miglior parte delle sue giornate, o delle sue serate. Leggevano insieme: insieme parlavano, discutevano, si eccitavano, a proposito d'un quadro, di una statua, dello spettacolo del San Carlo, della commedia nuova, udita la sera innanzi: insieme entravano nei comitati di carità: e tutti dicevano ch'era un peccato non si fossero conosciuti prima, e non si fossero sposati: perchè avrebbero formato una coppia davvero felice. Erano fatti l'uno per l'altro: questo pensavano tutti.

- Come sta Luisa? - domandò placidamente quella mattina la principessa al marito: e alludeva alla duchessa. - È un pezzo che non la vedete? - aggiunse con sguardi molto maliziosi.

- L'ho veduta iersera, - disse con molta franchezza il principe, - e la rivedrò oggi, per un affare assai importante.... Essa sta benissimo.... E anche ieri mi ha domandato di voi....

- È una cara creatura!... - interruppe Enrica con piglio distratto.

- Vi ricordate, Enrica, - osservò il principe, - di una brutta scena, avvenuta fra noi, anni or sono, in quel salotto... .... - E il principe si rannuvolò un poco.

- Mi ricordo benissimo della vostra ferocia!... - Ed Enrica si era alzata per accostarsi al principe, che le fece cenno tornasse al suo posto.

- E bene... voi volevate allora ch'io tornassi nella diplomazia.... Io vidi in questa proposta un sentimento di slealtà... scusate.... Oggi sono risoluto di far ciò che voi mi consigliavate allora... dopo tanti anni, ho ricevuto di nuovo questo consiglio....

- Chi ve l'ha dato?... la duchessa, eh?...

- Appunto, - ribattè freddamente il principe, - la vostra amica Luisa.... Ho accettato dopo tanti anni il consiglio, poichè oggi le condizioni del mondo sono assolutamente mutate.... E che cambiamenti ancora avverranno!

Enrica gongolava: era essa, che aveva sobillato con abilità la duchessa per mezzo di un'altra sua amica a indurre il principe a partire.

- Poveri uomini! - pensava, guardando il principe di Caprenne: - come siete fanciulli, e che docili strumenti siete nelle nostre mani!

- Partirete presto? - chiese Enrica, la quale facea ogni sforzo per rattenere un accento d'ironia.

- Assai presto....

- Anche questa duchessa, - diceva fra Enrica, - m'ha servito a qualche cosa.... Uomini, donne, sono tutti, almeno furono sin ad ora, strumenti della mia volontà!

Enrica andava ben lungi dal vero, attribuendo alla sua scaltrezza la nuova determinazione presa dal marito. La sua influenza su di esso era stata ben debole. Ma ne spiegheremo la cagione. In casa della duchessa si raccogliea il fiore de' liberali napoletani. I più arditi erano nell'esilio o nelle prigioni: restavano uomini temperati, prudenti, se non eroici, a tener vive certe idee.

La duchessa avea avuto nella sua famiglia due parenti malvisi al governo dispotico per la generosità dei loro sentimenti di patrioti: e, benchè dama della Regina, non sdegnava che si discutessero al suo cospetto certe idee: anzi, del suo grado si era valsa più volte a mitigare le persecuzioni contro alcuni.

L'idea che si discuteva spesso tra' più fidi, nelle conversazioni della duchessa, era quella di un'Italia unita, o sotto un re, o a repubblica: e c'era perfino fra quei gentiluomini, e fra' non meno sapienti, chi vagheggiava una gran repubblica federale.

Il principe partecipava sempre a que' colloqui.

Una sera il gruppo degli amici della duchessa, formato da una ventina degli uomini più geniali di Napoli, era quasi tutto riunito nel salotto di lei.

Il discorso era caduto sui soliti argomenti.

- Noi abbiamo un torto, - disse uno fra loro, uno tra' più gran signori napoletani, - quello di tenerci troppo in disparte.... Perchè non cerchiamo d'aver mano negli affari del nostro paese?... Noi tutti ci sentiamo italiani e vogliamo che il concetto della nazione unita, forte, agguerrita contro tutti i suoi nemici, trionfi.... Credete che non si possa servire alla nostra causa, negli uffici della Corte, nelle alte cariche del Governo, nella diplomazia, quanto negli esilii e nelle prigioni?... I nostri cari martiri debbono esserci veneratissimi: dobbiamo ripensar sempre a coloro che soffrono per ciò che noi vogliamo: questo servirà sempre a temprarci il carattere.... ma, se noi non abbiamo la virtù d'incontrar il martirio, abbiamo almeno l'avvedutezza di operare secondo le nostre forze.... Non gioveremo meno....

Concordarono dunque di operare.

La duchessa li incoraggiava col suo dolcissimo sorriso.

Si spartirono gli uffici che aveano a cercar d'occupare.

Il principe affermò che sarebbe tornato di buon animo alla diplomazia.

Ripugnante dal tornarvi per sodisfar un capriccio della moglie, si esiliava, quasi lieto, da Napoli per compier un dovere.

La poetica affezione, ch'egli nutriva per la duchessa, lo avvalorava ne' suoi proponimenti. Sapeva quanto il sagrifizio lo avrebbe nobilitato agli occhi di lei.

Ed Enrica? Essa, dopo un'affannosa ammirazione per il marito, era tornata alla sua vita indolente, bizzarra, irrequieta.

Di lei già si mormorava molto alla Corte: si buccinava tentasse la conquista del Re. Tutta Napoli ripetea questa voce, giustificata da qualche favore regale.

Superfluo dire che nessuno ne avea mai parlato al principe di Caprenne. Egli, alcuni mesi dopo la deliberazione presa in casa della duchessa, fu inviato ambasciatore presso una grande potenza.

Il posto era atto ai meriti del principe, ma importantissimo, desiderato quindi da molti: e si levò gran clamore, per questa nomina, che suscitò tutte le insidie. Subito fu ripetuto nei circoli dei salotti di Napoli: ne' crocchi de' maligni:

- Il Re si è voluto sbarazzar del marito.... L'ambasciata è un discreto compenso all'esilio da Napoli.

Invece il principe partiva col più alto concetto.

- Fra quaranta, cinquant'anni, - egli avea detto a' suoi amici, - il concetto che c'ispira sarà attuato: per quello che io intendo nella storia, nella ragione di Stato, e che posso inferirne, fra quaranta, cinquant'anni, l'Italia sarà unita dalle alpi al mare.... Dedichiamo la vita a uno scopo tanto sublime.... Noi non lo vedremo effettuato.... forse: ma l'incessante pensiero di esso ci avrà sostenuto, ci avrà nobilitato la vita, consolato di molte afflizioni, sollevato su molte frivolezze....

Con tali concetti egli partiva, ma non veniva a svelarli alla moglie, che sapea non avrebbe potuto intenderli, forse li avrebbe tenuti segreti.

Egli si accingeva a un'opera molto ardua: compiere una missione liberale, nella qualità di rappresentante di un despota, e d'uno di que' despoti che, nel nostro secolo, un uomo illustre per ingegno e scienza di Stato chiamò: negazione di Dio!

Il principe era venuto a dar alla moglie l'annunzio della sua vicina partenza, a darle le sue istruzioni, contenute in poche e fredde parole.

La principessa non riuscì del tutto a nasconder la sua gioia.

Essa veramente aspirava a avere alla Corte un posto più ragguardevole, una maggior considerazione; glielo assicurava ora il suo grado d'ambasciatrice. Le piaceva mostrarsi vicina al Re: tendeva a impadronirsi del cuore di lui, e si vedrà quanto ciò dovea costarle. Nel parlare col principe, già s'inebriava della sua appagata ambizione. al principe sfuggiva l'esaltamento di lei. Egli le avea ripetuto le istruzioni datele qualche anno innanzi, allorchè, appunto a causa del suo ritorno nella diplomazia, era sorto fra loro sì vivo dissapore.

Ma il colloquio tra marito e moglie, che procedeva affabile, in forma molto cortese, tutti e due ritenendo ciascuno in la parte più viva de' loro sentimenti, fu interrotto.

Un servo bussava alla porta.

- Entrate! - disse la principessa.

Il servo annunzio che una donna domandava di S. E. la principessa.

Enrica subito impallidì.

- Fatela passare nella sala dove ricevo, - rispose la principessa molto turbata.

Poi, come pentendosi, aggiunse:

- No: no: che aspetti nell'anticamera.

Il principe capì che c'era qualche cosa di tenebroso: qualche cosa, per lo meno, che a lui si voleva tener celato.

Si alzò, un po' rigido, dicendo alla moglie:

- Se me lo permettete, tornerò a farvi una visita stasera - e si accomiatò molto cerimonioso.

Nell'anticamera si abbattè in una donna alta, magrissima, che portava un fitto velo sul volto, e che era vestita molto dimessa e di panni molto scuri: a guardarla, potea sembrare una di quelle squallide beghine, che frequentano sempre le chiese per domandarvi elemosine: e potea pur sembrare qualche cosa di peggio.

- Che può aver che fare mia moglie con donne di tal genere, - pensò il principe, - e a quest'ora?

Non volle però spinger oltre le sue investigazioni.

Enrica, uscito il principe, avea preso un albo, e mostrava di gettarvi gli occhi, di sfogliarlo, tanto perchè il servitore, che dovea accompagnare la donna, la trovasse, in apparenza, indifferente.

Quando il servitore ebbe richiuso l'uscio, la donna, sopravvenuta, senza mettersi a sedere, e senza che la principessa ve l'invitasse, alzò il velo, e apparve la sua faccia scialba, giallastra, ossuta com'era tutta la sua persona.

La principessa, senza neppur guardarla, poichè, al solo annunzio e alla fisonomia del servitore, avea indovinato chi era, gettando l'albo lontano da , in modo che infranse una graziosa statuetta di Sassonia, cominciò ad inveire in tuono di voce sommesso, ma terribile:

- Da quando sei arrivata a Napoli?... Ti avevo detto di non metter mai più qui il piede.... Non sono venuta io in tutti i tuguri, in tutte le straducole ove t'è piaciuto darmi appuntamenti?

- Mi era impossibile d'aspettare, però son venuta a vedervi.... Un tempo non eravate così sdegnosa verso di me.... Ora mi scaccereste volentieri.... se poteste: un tempo non sapevate stare senza di me. A chi avete confidato tutti i vostri segreti? E chi ve li ha custoditi con più gelosia?... Riflettete bene: quanto siete ingrata!

E la donna sedette con molta familiarità su una poltrona di raso, color crema. E la stoffa nitida, splendidissima, facea singolar contrasto con quella sì misera e frusta dell'abito di lei.

In questa donna, che parlava con tal burbanza alla principessa, il lettore avrà facilmente riconosciuto Cristina Braco.

Enrica avea creduto operar con avvedutezza, licenziandola dal suo servizio non sì tosto furon fissate le nozze fra il principe Gorreso di Caprenne e lei. Le dette una ragguardevolissima somma, e le raccomandò di nuovo la bambina, ch'ella credeva avesse sempre in custodia.

Per un pezzo, Enrica non vide più Cristina: un giorno la incontrò di nuovo nel parco di Mondrone.

- Che fai tu qui? - le domandò altezzosa la principessa.

- Sono al servizio dell'abate Perricone, - rispose l'altra con protervia.

L'abate Perricone era il prete che officiava nella cappella del parco, e che reggea la parrocchia di Mondrone con virtù esemplare.

Cristina avea facilmente acquistato molto dominio sull'animo del vecchio, quasi decrepito sacerdote, staccato da ogni interesse mondano: lieto che altri, di volontà risoluta, assumesse per lui tutte le cure materiali della sua casa.

Un altro motivo avea spinto Cristina a tornare in que' dintorni: il desiderio di star vicino al bel guardacaccia ch'ella amava sempre, con tarda, ma pur ostinata e infuocata passione.

Cristina sfaccendava, comandava, disponeva tutto a suo talento nel presbitero. Un giorno d'estate, nel pomeriggio, per distrarsi dal gran caldo che l'opprimeva, era salita nell'archivio della parrocchia, una stanzetta che dava in una corticella quasi scura, e sempre riparata dal sole.

S'era messa a spolverar le filze di carte, poi a leggiucchiare qua e certi documenti: battesimi, matrimoni, atti di morte di persone da lei conosciute.

A un tratto il suo volto s'illuminò di un sorriso sinistro; torse la sua larga bocca, dalle labbra pendenti, ad un ghigno: avea letto i nomi di Enrica e di Roberto.... la ragguagliata dichiarazione del loro matrimonio.

Ah, essi gliene aveano fatto un mistero!

E Cristina rimise al posto la filza, sicura che avrebbe sempre potuto prendere quel documento, allorchè le fosse occorso.

Pensò poi aggiungerne un altro che sarebbe stato prezioso: l'atto di nascita della bambina, appartenente a Enrica e a Roberto.

Una sera, dopo che il vecchio prete ebbe finito la sua parca cena, gettò un'occhiata su Cristina, cosa che facea ben di vado.

Gli parve un po' turbata, e si accorse che cercava ogni pretesto, raccogliendo or un oggetto, or un altro, sulla tavola per non allontanarsi da lui.

- Che avete stasera? - le domandò il brav'uomo.

Ella rispose con uno scoppio di pianto.

Avea imparato da Enrica il segreto del piangere a suo grado.

Si buttò in ginocchio a' piedi del prete: gli disse, singhiozzando, che ella avea sull'animo un gran peso.

Il buon prete si lasciava commuovere.

- Sei tu dunque caduta in un fallo molto grave? - la richiese quasi paternamente.

- Oh, io credo aver partecipato a un delitto!...

Il vecchio rimase esterrefatto. Avea nella sua casa, una delinquente! Si alzò come se volesse evitarne il contatto.

Ella si trascinava carponi dietro a lui, supplicandolo ad ascoltarla: il rimorso la divorava, - così diceva, - le urgeva da lui un consiglio.

E gli raccontò il fatto della bambina. Ella vi sosteneva un'ottima parte; non già di suggeritrice, di complice, ma di vittima: i signori comandano, bisogna obbedire, - essa diceva, - o altrimenti restar senza pane. Avea pagato con sì lungo pentimento e con sì forti rimorsi questa sua cieca obbedienza! E la persona, per la quale avea rischiato la salute dell'anima, come l'avea compensata? Cacciandola dal suo servizio!

Tacque della fine che avea fatto la bambina: aggiungendo, con arte, che a lei era stato tolto di poter investigare ciò che ne fosse avvenuto.

Il parroco la racconsolò; ella non avea fatto ciò per lucro....

- Questo no, davvero!... - interrompeva Cristina.

Era stata spinta a operar in quel modo dalla volontà de' suoi padroni; essi ne sarebbero dinanzi a Dio mallevadori.... La sincerità del pentimento che vedea in lei essergli garanzia che il cielo già le avea perdonato....

Poi Cristina si accorse che il prete, com'ella aveva voluto, stendeva dichiarazione della nascita della bambina, notando il giorno e l'ora, e affermandola nata dalla duchessa Enrica, e da Roberto Jannacone.

Il prete avea gran soggezione d'Enrica e ricavava da lei vistoso utile, in proporzione de' suoi desiderii: però ammonì Cristina di tener in ormai questo segreto: di non ne far motto sin che vivesse. Nella divulgazione dello scandalo sarebbe stato il massimo peccato.

E il vecchio sacerdote si assorse in preghiera, nel riflettere a' guai del mondo, a' castighi, che, presto o tardi, trae con la sfrenatezza delle passioni.

Pensava a Roberto, in fondo a un durissimo carcere; a Enrica, tutt'altro che felice, poichè egli le leggeva bene nell'animo, e immaginava i tormenti a cui dovea essere in preda pel timore che qualche cosa del suo passato trapelasse.

Roberto era morto civilmente per la sua condanna a vita, ed egli pensava che la duchessa, giovanissima, avesse avuto bene il diritto di contrarre un regolare matrimonio.

Del resto l'abate si rimetteva a ciò che avean fatto i suoi predecessori.

Si era pur chiesto in cuor suo, che sarà avvenuto della bambina?

Non nutriva risentimento contro Enrica: dovea ammettere ch'avesse confessato tutto al principe e ch'egli le avesse perdonato.

E, infatti, come abbiamo rilevato da un dialogo fra il principe e Enrica, essa gli avea tocco di un certo trascorso della sua prima giovinezza, ed egli, nel bollore del suo farnetico per lei, l'avea assoluta.... Ma la confessione consisteva in una storiella romantica, quasi anodina, ch'ogni uomo di cuore, innamorato, o meglio appassionato, e senza pregiudizi, avrebbe perdonato di leggeri.

Cristina Braco era ormai l'arbitra del segreto: la sola persona che pensasse a sfruttarlo, e arditamente. I due documenti, che si serbavano nel presbitero, caduti in sua mano, erano armi terribili.

Enrica non respirava più. Le esigenze di questa donna abietta andavano sempre aumentando.

Essa era nata d'una famiglia di contadini, molto numerosa e povera, sebbene un tempo avessero avuto terre del loro e menato vita prospera.

Volea, prima di tutto, che la sua famiglia rifiorisse nell'antico stato: poi ella stessa, serbando apparenze di umiltà, volea vivere in lusso; non basta: essa provvedeva al bel guardacaccia, alla famiglia di lui, che profittava, senza rammarico, di quelle lautezze offertele solo perchè un de' suoi sapea tener vivo, inattutito un amor di donna assai attempata.

Nel vedersi comparir dinanzi Cristina un'altra volta, e con quella improntitudine, dopo che l'avea largamente sovvenuta due giorni innanzi, Enrica perdette la pazienza.

- Sta bene - disse - ch'io ho ordinato a' miei servitori di non scacciarti, quando ti presenti; ma tu abusi.... Vieni qui in ore insolite; non ti dai neppur la pena di vestir un abito che possa illudere sulla tua condizione: non hai neppure il pensiero di fingerti una sarta, una pettinatrice, una maestra di ballo, o di musica, che venga a darmi lezioni.... No: entri qui: vieni, vai, come se tu fossi in casa tua: come se tu studiassi ogni mezzo per compromettermi....

- La bambina è malata.... - interruppe Cristina con la sua solita menzogna, poichè non avea ancor scoperto il vero ad Enrica, ma si preparava a svelarglielo, - e di una malattia che sembra mortale.... Ci vogliono molte spese: la gente che l'ha in custodia, sono gente poverissima, come vi ho detto altre volte, sono tutti occupati ad assisterla, trascurano le proprie faccende, non hanno pane.... E io? io ho bisogno da voi del massimo favore.... Mi è capitato di ricomprare alcuni campicelli, già appartenuti al mio povero babbo, morto pazzo pel dolore, dacchè glieli tolsero.... Mi occorrono quindicimila lire....

- E ne hai avute già, entro due settimane, ottomila.

- Sono le ultime, che vi domando.... salvo urgenti bisogni.

- È impossibile! - esclamò Enrica. - Non ho tutto questo danaro a mia disposizione: ti ho dato in undici anni vesti, denari, oggetti d'ogni specie per un immenso valore.... E tu abusi, abusi sempre di me.... sei sempre più povera.... a ascoltarti! Che hai fatto per gettar via tutto questo denaro?

- Non ho bisogno di rendervene conto! - rispose asciutta Cristina.

Così la principessa si vedeva trattata dalla sua antica cameriera.

Volea darle uno schiaffo, gettarle in viso il bicchier d'argento, ch'avea vicino, ma si ritenne. Cristina, la sua antica compagna e consigliera di dissolutezze, la sua maestra e complice di piaceri, serbava sempre un grande imperio su di essa.

Costei e il marito, dopo la scena di collera avvenuta tra loro ne' primordii del matrimonio, eran le sole persone a cui non osasse apertamente ribellarsi.

- Non ti darò un picciolo! - le disse, digrignando i denti e battendo i pugni sul tavolino.

Non osò fare, o proferire di più.

- Non tollero d'essere insultata! - riprese Cristina; e si alzò dignitosa, stecchita, avviandosi verso la porta.

La principessa volea richiamarla, ma il suo orgoglio la vinse: erano due caparbietà, due cupidigie, l'una di piaceri, l'altra di denaro e di dissolutezza, che si urtavano insieme.

Enrica sapeva ch'ella doveva soccombere anche in quel frangente: dovea cedere come v'era stata costretta altre volte.

Cristina era scomparsa: e, per varie ore, la principessa stette ad aspettare qual nuovo, crudele espediente avrebbe posto in opera per astringerla a sottomettersi al suo nuovo ricatto.

Verso le quattro del pomeriggio, mentre la principessa scendeva le scale del suo palazzo, tutta sfarzosamente abbigliata, per andare alla riviera di Chiaia s'accorse che un groom le presentava una lettera su un vassoio d'argento.

Essa prese la lettera, senza guardarla, entrò in carrozza e, allorchè i cavalli si furono mossi, ruppe la busta.

Subito fu colta da una grande indignazione, da un indicibile terrore.

Era una lettera scritta da Cristina, ma essa avea del tutto contrafatto la sua calligrafia in modo che non fosse da alcuno riconoscibile.

Ed ecco la lettera:

 

"La persona, che ha avuto l'onore d'invitare stamani V. S. a incominciar la giornata con un'opera buona, e che n'ebbe una ripulsadura, vuol tentare ancora la generosità d'animo, che altre volte ha sperimentato in V. S. C'è in Napoli una gran dama, la quale si trova in un bruttissimo caso: un caso di bigamia. Essa avrebbe due mariti: uno nell'ergastolo, condannato per assassinio: l'altro.... ambasciatore. V'è una creatura, bisognosa di denaro, ridotta alla disperazione, che vorrebbe sfruttare questo segreto. Ci sarebbe da far un bel chiasso nella stampa europea, se la gran dama fosse citata in giudizio: e se il fatto soltanto si propalasse. Compiendo l'opera buona, consigliata stamani a V. S. dalla persona che accogliesteduramente, lo scandalo sarebbe evitato, e la gran dama, vostra intima amica, sarebbe salva.

"La infelice creatura, per la quale supplico V. E. è in possesso di due documenti: uno de' quali prova il matrimonio della gran dama con l'assassino: e l'altro che la gran dama avea avuto da esso, prima di sposare l'ambasciatore, una bambina, che ha sempre nascosto a tutti, anche al povero padre, facendola trafugare...."

 

E mentre nel suo coupé, foderato di velluto nero, circondato di limpidi cristalli, tutti chiusi in quel punto, da' tre lati, la principessa leggeva quell'immondo pezzo di carta, passavano in altri coupés le sue amiche, tutte elegantissime, raggianti, e avveniva un vivace scambio di saluti con le dita inguantate, e di sorrisi.

Che distanza dal mondo in cui viveva a quello in cui avrebbe potuto precipitare!

Da un lato, essa era legata con le più nobili famiglie, con la più pura aristocrazia napoletana: avea aderenze e splendeva alla Corte: dall'altro lato erano i suoi vincoli con un uomo condannato per assassinio, eran le sue calunnie, le sue false delazioni, le sue perfidie, le sue intime relazioni con una donna di basso affare, la quale poteva a sua posta disporre dell'avvenire di lei. In tale stato pieno di angustie l'avea gettata la assoluta mancanza di coscienza.

Il contrasto, che era fra le due parti della sua vita, la turbava, mentre, tenendo in mano quella lettera, passava per le più belle strade di Napoli, e ogni tanto alzava il capo, sorrideva, per rispondere ai sorrisi che le inviavano le gentildonne sue amiche da' loro equipaggi, a saluti ossequiosi fattile da' molti signori, ch'ella man mano veniva incontrando.

Nella lettera v'era anche un poscritto e il poscritto diceva:

 

"Si vuoi risparmiare a S. E. la fatica d'una lunga risposta. Oggi stesso V. E. giungendo a Mergellina vedrà una mendicante avvicinarsi alla sua carrozza. V. E. potrà scambiar due parole con questa mendicante: e dirle come la persona, la quale ora scrive, potrà ottenere quanto domanda, a evitare scandali, che sarebbero per tutti spiacevolissimi."

 

In questa lettera c'erano intere la crudele ipocrisia, la maligna ironia di Cristina: le qualità in cui essa era stata maestra ad Enrica.

La principessa fremeva di sdegno: le sue belle labbra eran tremanti.

Riflettè un poco: quindi dette un ordine al cocchiere e si raccolse, tutta pensosa, in un canto del coupé, tenendo sempre in mano la lettera.

Il coupé si fermava a Mergellina. La principessa si scosse: fin allora era rimasta talmente assorta nei suoi pensieri da non veder nulla intorno a : da non aver più neppure la sensazione del movimento che facea la carrozza.

Una mendicante si accostò subito alla portiera sinistra: la principessa si tolse dalla cintura un borsello di seta rossa, con ghiande d'oro, ne cavò alcune piccole monete e ponendole nella mano della mendicante, le bisbigliò:

- Tra quattro giorni, la mattina, alle sette, in questo punto: io sarò a piedi: la carrozza mi seguiterà a una certa distanza: tu mostrerai offrirmi de' fiori.

La principessa avea pronunziato tali parole, con gesti, con sguardi, con un'intonazione come se la donna che le era dinanzi avesse dovuto, da un istante all'altro, esser annichilita dalla sua collera.

La mendicante si allontanò, con la rapidità d'un trar di sasso: forse anch'ella era aspettata da una carrozza ove entrava in gran fretta.

Superfluo dire al lettore che colei, la quale avea preso abiti e fisonomia di mendicante, non era altri che Cristina.

Mentre risaliva nella carrozza, un riso diabolico scontorceva la sua larga bocca.

Ma ora ad un altro personaggio.

Si era, da poco, stabilito in Napoli un banchiere americano. Egli vi faceva grandissimi affari: si occupava del commercio marittimo: imprendeva esportazioni, a quel tempo, da nessun altro tentate. L'oro riempiva i suoi forzieri: gli si attribuivano ricchezze favolose. L'aristocrazia napoletana lo avea accolto benissimo: e, a poco a poco, egli n'era divenuto quasi il beniamino. Avea saputo render abilmente grandi servizi a tre o quattro persone, che l'aveano pagato col fargli strada nel bel mondo.

L'avventuriere americano si chiamava Gustavo Weill-Myot. Era di grande ingegno, di molta versatilità, d'una eleganza irreprensibile, era piacevole e bell'uomo.

La principessa lo conobbe subito: lo invitò, lo attirò a : egli se ne invaghì: fece a causa di essa qualche follia; ma per un capriccio inesplicabile in lei, trattandosi d'uomoappariscente, e che tanto piaceva alle altre femmine, ella non volle mai corrispondergli. Espansiva, festosa, gaissima con lui, nella conversazione ordinaria, egli la trovava di ghiaccio, impenetrabile, allorchè volea entrare in più intimo argomento.

L'americano meravigliava Napoli con la bellezza de' suoi cavalli, de' suoi equipaggi, con la prodigalità delle sue munificenze. Avea pensato dar una festa a tutta l'aristocrazia napoletana nello splendido palazzo, che abitava in Bisignano.

Avea avuto promessa che tutti vi sarebbero accorsi: era certo di accogliere nelle sue sale il fiore della bella società di Napoli.

Molti gentiluomini, molte signore l'aveano anzi pregato di scegliere una tale occasione per far vedere lo sfarzo, la ricchezza, squisitamente artistica, de' suoi appartamenti.

Ma egli era scapolo: come invitare tante signore?

Gli aveano suggerito: desse un ballo di beneficenza: un comitato di signore avrebbe fatto gl'inviti. Ciò non appagava la sua vanità.

Gli ripugnava che la gente potesse entrare nelle sue stanze, pagando quindici, venti, trenta lire: che la sua casa doventasse come una locanda, un café-chantant: o quasi uno di que' locali, che si prestano, o si affittano ad ogni occorrenza di feste, di ricreazioni.

Ciò era buono per gli arricchiti di seconda mano, per gli avari fastosi, che, ad ogni costo, voglion vedere un gran signore, una gran signora varcar la soglia delle loro porte.

Le sue ambizioni eran più alte: egli non era uomo da contentarsi di piccoli espedienti.

Se il ballo di beneficenza, dato nelle sue sale, avesse potuto fruttare, poniamo, diecimila lire, egli era pronto a darne anche trentamila per quello scopo che gli fosse designato. Ma non voleva che altri venissero a far l'elemosina in casa sua.

Fu trovato un altro mezzo. Enrica avrebbe diramato gl'inviti.

E, pochi giorni appresso, tutti i conoscenti di Enrica e del Weill-Myot ricevettero un cartoncino litografato. La principessa Gorreso di Caprenne e il signor Weill-Myot invitavano, ecc., ecc., a far loro l'onore di passar la serata.... (e qui la data) nel palazzo Weill-Myot.

Ci fu un po' di rumore, vi furono ciarle, pettegolezzi per questa specie d'invito: ma la sera del ballo può dirsi non mancasse uno de' cinquecento invitati.

Enrica, in abito bianco semplicissimo, senza un gioiello, facea gli onori della festa.

Le magnificenze della festa furono indescrivibili. Una ventina di sale, tutte aperte agl'invitati: da una sala turca essi passavano a una sala pompeiana, da una sala egiziana a una sala nel più puro stile del XV secolo, fiorentino: e per tutto quadri, statue, oro; forse troppo oro. Tutto un appartamento era alla foggia russa, con i suoi iconi, la abbondanza di fiori da serra: un altro rappresentava una casa romana, sotto l'Impero; statuette, idoli, gioielli, utensili domestici, tutto era autentico: un tesoro.

La sala da ballo, alle pareti e nel soffitto, era tutta ricoperta di camelie, tramezzate dalle loro foglie: un'idea vaghissima e dell'effetto più delicato.

Le lautezze del buffet nulla lasciarono da desiderare a' più esigenti.

Nella vastissima sala, si vedevano grandi piante, come banani, ananassi, palme, cariche dei loro bei frutti: portate e accomodate col più grande dispendio.

A un gruppo di signore, riparate sotto una specie di chiosco, tutto formato di rarissimi fiori scarlatti, nel fondo d'una splendida galleria, in mezzo al qual gruppo sedea la principessa, fu servito un fagiano su un piatto d'oro, cesellato, di cui due servitori appena poteano sostenere il peso.

Il bel mondo napoletano avea un po' mormorato della stranezza di Enrica nel farsi patrona di questa festa; nell'entrare ella sì giovane, sì bella, e in assenza del marito, qual signora assoluta in casa d'uno scapolo; ma Enrica sapea farsi tutto perdonare con la sua sottile ipocrisia.

E, allorchè, due giorni dopo il ballo, si seppe che il signor Weill-Myot avea elargito trentamila lire: e il modo ingegnoso ond'erano state largite, venendo in aiuto a vere, profonde sventure, cessarono tutte le mormorazioni: ed anzi Enrica fa lodata.

 

 

 


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