Giulio Piccini (alias Jarro)
La principessa

PARTE SECONDA.

II.

«»

Link alle concordanze:  Normali In evidenza

I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio

II.

 

Non si creda che tutto fosse disinteresse, o vi fosse soltanto stranezza, nella condotta di Enrica verso il banchiere.

Dacchè Enrica avea sposato il principe di Caprenne, egli, dopo la morte del duca di Mondrone, padre di lei, le avea lasciato la libera amministrazione di tutti i suoi beni.

Al principe il duca avea fatto un lascito tutto speciale, e come un ricordo personale gli avea legato la stupenda tenuta di Battifolli, computata a lire seicentomila.

L'avvocato del duca, Francesco Costella, che abbiamo già conosciuto, affermava che il duca avea lasciato al genero circa la quarta parte del suo patrimonio, ch'era quasi tutto in terre, avendo già scorto le tendenze di Enrica al dissipare, e non volendola contristare col toglierle una maggior parte de' beni.

Enrica, non cupida, pianto il padre, che amava sinceramente, fu lieta del lascito ch'egli avea fatto al marito, stimandolo un nuovo legame fra loro: un eccitamento al principe di essere benevolo verso di lei.

Ma il principe indulgente, un po' indolente, gaio, era pur capace di grande severità, serbava intatti i suoi sentimenti d'uomo d'onore.

Da quattro anni, cioè dacchè il principe, diventato ambasciatore, stava lontano da Napoli, Enrica avea più che raddoppiato le spese della sua casa. Essa spendeva oltre le sue rendite: la gente, mal sicura, o non pratica, di cui si serviva per amministrare, era già costretta a mettere in opera ripieghi.

Il principe, sulle prime, avea chiesto qualche congedo: ma, da due anni, non era più tornato a Napoli.

Enrica si faceva vedere spesso alla Corte: il Re le parlava molto familiarmente: un ufficiale delle guardie reali, appartenente all'aristocrazia napoletana, pranzando un giorno in campagna, nella villa di sua sorella, maritata al conte di L...., eccitato un po' dal vino, dal buon pranzo, avea confidato alla contessa d'aver veduto uscire una mattina di buon ora la principessa di Caprenne dagli appartamenti del Re, vestita come una semplice modista, e il Re stesso le avea aperto la porta di una scaletta segreta.

L'ufficiale si pentì presto di ciò ch'avea detto, tanto più che la donna da lui vista fosse la principessa non era ben sicuro: tornò alla sorella, la supplicò non ne parlasse ad alcuno: essa gli giurò di tenere il silenzio, ma disse il fatto soltanto a una sua cognata, che lo riferì soltanto a sua suocera: la duchessa d'I., che non potè stare senz'informarne alcune delle sue vecchie conoscenze.

La notizia corse dai salotti nelle anticamere, dalle anticamere nelle botteghe: in breve, volò sul labbro di tutti.

Si dipingeva il principe per un marito compiacente: un uomo nullo, ma ambizioso, assetato di onori: che abbandonava la propria moglie perchè ella potesse dar prova di devozione al Sovrano: ed egli avvantaggiarsene.

Così, per leggerezza della moglie, una taccia d'infamia si apponeva al nome del principe.

Egli avea i suoi difensori, ma più, com'abbiamo già detto, i suoi denigratori: gli emuli, gl'invidiosi: coloro, che son sempre avidi, magari per ozio, di sfruttare, propalare una calunnia.

Enrica diveniva così sempre più oggetto di curiosità. Per tutto ove andava, raddoppiava l'attenzione verso di lei: i suoi ricevimenti erano sempre più frequentati.

Ella sfoggiava un lusso, da anni, si diceva, non veduto in Napoli: gareggiava con la Sovrana. Avea attorno un nugolo di parassiti. La sua casa pareva una seconda Corte.

Senza attitudine ad amministrare, senza discernimento a scegliere chi dovea per lei curar i suoi affari, assottigliava il suo patrimonio in modo vistoso. Tra le rapine e le spese favolose, si trovava già, ripetiamo, molto imbarazzata.

A chi ricorrere?

Ella avea un giorno visitato la Banca del Weill-Myot: costui le avea fatto una mostra studiata e abbagliante delle sue ricchezze, della sua potenza commerciale.

Le avea fatto vedere in una cassaforte due milioni in oro, un milione in titoli.

Ciò indicava davvero la sua forza, il suo credito.

- Domani, - le avea detto, - questi denari non saranno più qui; fra otto giorni avranno fruttato una somma, da empir d'oro tutta questa cassetta....

E tirava a febbrilmente una gran cassetta, di ferro, profonda. Essa si richiuse con un cigolìo stridente.

Il Weill-Myot avea guidato la principessa ne' suoi uffici ove fervea tanto lavoro: le avea spiegato minutamente qualcuna delle sue grandi combinazioni.

La principessa era uscita da quella visita inebriata: infatuata di quel desiderio dell'oro, che diventa, a poco a poco, irresistibile.

Enrica pensò, nella rovina da cui si sentiva incalzata, ricorrere al Weill-Myot.

Ella non lo amava: non avrebbe ceduto a' suoi capricci: per questo avrebbe osato domandargli qualche cosa.

Gli parlò un giorno molto destramente de' suoi imbarazzi.

L'allusione era velata, discreta, fatta con molto garbo e molta finezza, in mezzo a' segni della più grande opulenza, poichè il banchiere era in visita dalla principessa e, girando gli occhi attorno a , vedea per tutto oggetti di molto prezzo e acquistati solo per mera fantasia: cinquantamila lire un quadro del Grenze: diciottomila una statuetta di bronzo, di cui era proibita la riproduzione.

Il banchiere capì subito l'allusione, benchè molto velata; e capì il profitto che potea trarne, in ispecie dopo ch'ebbe incoraggiato la principessa a parlargli aperto. Egli - le diceva - era suo servitore: felice di poter obbedir a un cenno di lei; metteva tutta la sua immensa fortuna a' suoi piedi: ella ne disponesse come voleva.

La principessa, che non nutriva per quell'uomo se non una sincera amicizia, senz'alcuna mischianza di passione, si fece a parlargli liberamente come a un uomo d'affari.

Egli ascoltava attentissimo; intendeva tutto; vedeva dov'era il bene ed il male: cercava e trovava fra una parola e l'altra i provvedimenti: in pochi minuti comprendeva, scopriva ciò che la principessa non avea, e non avrebbe mai potuto capire.

E, intanto, egli tendeva le sue reti.

Avrebbe persuaso la principessa a entrare in speculazioni: le avrebbe fornito egli stesso tutto il denaro che le occorreva; le avrebbe fatto firmare obbligazioni: un bel giorno, per uscir dal viluppo in cui egli l'avrebbe destramente intricata (pur dandosi aria d'esserle d'aiuto), ella sarebbe stata costretta a gettarsi nelle sue braccia.

Così nulla sarebbe mancato al suo successo nel mondo, - si diceva l'uomo, senz'altra nobiltà che quella del denaro, - se avesse potuto avere per amante una principessa e giovane e bellissima.

La sera stessa uno de'segretari della Banca Weill-Myot si presentava alla principessa, e le rimetteva, contro regolare ricevuta, una somma enorme.

Nella sua spensieratezza, ella si vide liberata per lungo tempo da ogni molestia e in condizione da proseguire la sua solita allegrezza.

Intanto, da quella sera, a insaputa del principe, cui avrebbe potuto rivolgersi, ella diveniva debitrice della Banca Weill-Myot.

 

 

 


«»

Best viewed with any browser at 800x600 or 768x1024 on Tablet PC
IntraText® (VA2) - Some rights reserved by EuloTech SRL - 1996-2009. Content in this page is licensed under a Creative Commons License