Giulio Piccini (alias Jarro)
La principessa

PARTE SECONDA.

XI.

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XI.

 

Abbiamo interrotto il nostro racconto al punto, in cui i due prigionieri, avendo scavalcata la finestra, cominciando a effettuare la loro fuga, furono uditi quattro spari di fucile.

Il soprintendente del carcere accorreva, com'abbiam detto, a portar il decreto di grazia all'ingegnere Amoretti e avea tutto disposto per metterlo in libertà.

Gli spari de' fucili gli dettero un vero spavento: che era accaduto? Da anni non s'eran più uditi questi spari di notte; nessun prigioniero avea tentato di fuggire.

A un tratto, il soprintendente fu fermato da una guardia, che si precipitava verso di lui.

- Chi è morto? - domandò subito, vedendo la guardia esterrefatta.

- È morto il numero Trentanove!

Il soprintendente ricevette una tal ferita al cuore che poco mancò non stramazzasse in terra.

- Morto Roberto Jannacone! - pensava: il pianto non gli usciva, i singhiozzi gli facean groppo alla gola. In un attimo fu alla prigione di Roberto avanti che altri vi arrivasse: tenea sempre in mano il decreto, che rendeva la libertà all'Amoretti. Aprì la porta della prigione e che scorse? Roberto, in mezzo alla stanza, pallidissimo, agitato.

- Voi qui? - esclamò il soprintendente. - Si dice da tutti che il numero 39 è stato ammazzato.... Oh, l'inferriata è rotta! - disse, interrompendosi, con gli occhi fissi su la finestra. - Dunque?...

- Avevo preparato la fuga, - rispose Roberto, - un mio compagno, il mio vicino di cella, volle parteciparvi.... mentre scavalcavo la finestra, udii gli spari e lo vidi cadere dall'alto.... Ohimè!

E Roberto fece un atto di supremo dolore.

- Chi è morto.... l'ingegnere Amoretti?

- Così egli mi disse che si chiamava!

- Mio Dio, quale idea!... La provvidenza vuole che io ti renda il bene da te fatto a mio figlio, sciolga il mio voto, ti salvi!... Mancherò al mio dovere come direttore della prigione, ma adempio quello di padre riconoscente.... Tu sarai d'ora innanzi l'ingegnere Amoretti.... ecco il decreto che lo metteva in libertà.... Roberto Jannacone è morto!... Vieni con me....

Lo trascinò in fretta per alcuni corridoi: lo chiuse in una stanza ove erano abiti di varie foggie.

Tutti gl'impiegati del carcere, tutte le guardie, si accostavano alla prigione di Roberto. Già alcuni, i primi arrivati, aprivano la porta, che il soprintendente aveva poco innanzi richiuso. Tutti videro l'inferriata spezzata, la corda attaccata a quelle verghe dell'inferriata, che non erano state smosse; nessuno ebbe più dubbio che non fosse morto il numero Trentanove.

L'Amoretti, ferito da quattro colpi, due dei quali al capo, e piombato giù da una sì grande altezza, non era più riconoscibile. Il suo povero corpo, sfracellato in più parti, faceva ribrezzo. Furono subito raccolti gli avanzi per ordine del soprintendente, collocati in una specie di sacco per essere seppelliti, senza molte formalità, come allora costumava, fra poche ore.

Domenico fu il solo che non si svegliasse fra gli impiegati; finito il suo servizio, disteso sul pavimento di una stanza, dormiva un sonno, il sonno dell'ubriaco, da cui niun rumore avrebbe potuto svegliarlo.

Entro un'ora tutto tornò in calma.

Nel corpo di guardia, alla porta principale della prigione, vi fu un po' di chiacchierio; poi il sonno li vinse. Dormivano tutti: i custodi che vegliavano agli ultimi cancelli e i soldati. Il soprintendente li aveva riuniti, dopo che ebber visitato la prigione di Roberto, avea finto di aver sete, e così coglieva il pretesto di offrir da bere alle cinque o sei persone che potevano attraversare un suo disegno: in tal guisa somministrava loro un sottile narcotico.

Allorchè tutto fu quieto, il soprintendente andò a ricercare Roberto.

Avea parlato a tutti del decreto arrivato per l'Amoretti; avea ripetuto che verso il mattino, tornato l'ordine nella prigione, lo avrebbe messo in libertà.

Entrato nella stanza, ov'era Roberto, gli disse:

- Ecco il momento di partire. Coraggio!...

I due uomini si gettarono uno nelle braccia dell'altro. Roberto si era già acconciato addosso nuovi panni: su di un tavolino v'era un cappello a larga tesa; uno di que' tabarri, che avvolgevano tutto il corpo fra le amplissime pieghe, e di cui si gettava un lembo su le spalle per chiuderli; allora molto in uso.

- Possa tu aver fortuna, fuori di qui!... - aggiunse il soprintendente. - Dopo sedici anni nessuno ti riconoscerà più, in Napoli, altrove. Ma dimmi, - continuò, - tu mi avevi nascosto il tuo desiderio di fuggire: desiderio che deve esserti costato anni di lavoro, per tentare di effettuarlo con speranza di successo. E pensa che sarebbe accaduto, se tu fossi fuggito il primo!... Sarebbe toccata a te la sorte che ha avuto l'infelice Amoretti. Ci dev'essere un motivo, e fortissimo, perchè tu abbia avuto un sì tenace proposito di fuggire.... Qualcuno che vuoi rivedere? Una donna.... un figlio? Forse hai da compiere qualche vendetta? - E il soprintendente a tal pensiero si turbava.

- Desidero rivedere i miei calunniatori! - disse Roberto con voce terribile. - E poi mi spinge un gran pensiero d'amore, ritrovare una figlia che non conosco!

- Ah! Hai provato anche tu l'amore paterno? Quali torture devi avere qui sofferto: e io non ho mai indovinato i tuoi patimenti!...

Gli orologi della prigione sonavano le ore: si udivano rintronare da varii punti i rintocchi.

- Va', non c'è tempo da perdere.... La luce del mattino deve coglierti ben lontano di qui. Addio, Roberto; chi sa se noi ci rivedremo mai più!...

- Prendi, - mormorò il soprintendente, da' cui occhi sgorgavano le lacrime, - questo ti sarà utile, indispensabile anzi, ed è poca cosa a quanto io ti debbo! Gli dette una borsa piena di denari.

- Dio vi ricompensi di tutto quello che fate per me! - esclamò Roberto.

Commossi entrambi, non si potevano staccare l'uno dall'altro. Il soprintendente prese per mano Roberto, come se lo guidasse, e uscirono dalla stanza. Andarono innanzi: di cancello in cancello il soprintendente pronunziava certa parola d'ordine e soggiungeva: l'ingegnere Amoretti!

I custodi assonnati, desti a quel rumore, si alzavano, aprivano i cancelli, li rinchiudevano in fretta, e tornavano a cacciarsi a dormire. Le guardie aprivano appena gli occhi un istante.

La carrozza della prigione aspettava Roberto alla porta. Dal soprintendente aveva ricevute tutte le debite istruzioni, mentre facevano insieme il cammino per uscire. Il brav'uomo gli aveva detto: che salisse nella carrozza, senza dir verbo, e che arrivato a un certo punto la licenziasse e prendesse una vettura a conto suo: prendesse poi altre vetture in modo che si perdessero le sue traccie: e non parlasse con alcuno, fin che non fosse molte miglia lontano dalla prigione.

Il soprintendente lo accompagnò sino alla carrozza ed ebbe il sangue freddo, mentre egli vi saliva, di rivolgergli uno scherzo, che gli premeva fosse udito dalle due guardie a lui vicine e dal cocchiere.

- Signor Amoretti, - gli disse, - sono sicuro sarete rimasto poco contento dell'alloggio e del vitto ch'io v'ho dato per tanti anni.... Non fu tutta mia colpa.... buona notte!

E richiuse lo sportello.

Roberto sentì una stretta al cuore. Gli parve soffocare; quella facezia acquistava un non so che di lugubre: e capiva che doveva esser costata al soprintendente un intimo dolore.

Vide subito quanto, non ostante il lento lavorìo di tanti anni, avesse mal preparato la sua fuga: quanti ostacoli gli sarebbero rimasti a superare, se si fosse soltanto affidato a stesso. Ora, ogni grave difficoltà era scomparsa.

Mentre i cavalli correvano, guardando la campagna, che gli passava dinanzi appena illuminata per un certo breve spazio dai fanaletti della carrozza, egli si lasciava sopraffare da' suoi pensieri.

Ove sarebbe stata in quell'ora la principessa? Dormiva ella forse? Non sospettava che qualcuno venisse a turbare la sua tranquillità? O facea qualche brutto sogno? Perchè Roberto credeva che Enrica dovesse vederlo qualche volta ne' sogni, e non s'ingannava. Spesso da qualche tempo l'immagine di lui veniva a darle raccapriccio, a impedirle, amareggiarle il sonno.

 

 

 


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