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XII.
La principessa voleva denaro. Aspettava, da un momento all'altro, Cristina, e le occorreva di comporre affari urgentissimi. Pensò effettuar il suo disegno di recarsi dal Weill-Myot. Egli le avea detto che andava alla sua Banca molto di buon'ora ogni mattina: che alle otto era spesso già al lavoro.
Circa le otto e mezzo, la principessa scendeva una mattina dalla sua carrozza dinanzi alla Banca.
Indossava un abbigliamento studiato con arte. Avea le sue braccia stupende coperte solo di trina e di una trina larga, che lasciava vedere tutto il nitore della pelle. La stessa trina copriva appena il nascere del suo bel seno. La gonna leggera, succinta sui fianchi, ne rivelava la solidità, la potenza.
Ella era, come donna, meravigliosa: gli antichi romani ne avrebbero fatta una dea. Era più appariscente delle loro Minerve, delle loro Giunoni, come almeno ci sono raffigurate.
Scese dalla carrozza, dopo che il portinaio le ebbe detto che il signor Weill-Myot era arrivato.
Salì una scala; spinse un uscetto, tutto imbottito di stoffa verde, salvo che nel mezzo, ove, entro una cornice di cuoio lustro, nero, era un vetro opaco, ovale, e sul centro di esso era scritto a lettere d'oro: W.-Myot.
Entrò in un corridoio, poi in una stanza e in un'altra; per tutto vetrate opache, fisse e incorniciate su basi di legno in noce, dietro alle quali avrebbero dovuto essere gl'impiegati. Ma non c'era nessuno. Leggeva sulle vetrate: Cassa: Sconti: Esportazioni: Segretarii: altre parole, ma non udiva il più lieve rumore; non si accorgeva che vi fosse alcuno in quel vastissimo locale. O dunque?
Le parve sentir muovere una sedia in una stanza vicina. Traversò un'amplissima anticamera; aprì la porta della stanza donde le era sembrato venisse il rumore, sperando che almeno vi sarebbe stato qualcuno per rispondere alle sue domande, dargli notizie del Weill-Myot.
Appena ebbe spalancato la porta, vide l'americano seduto, anzi sprofondato in una gran poltrona di pelle grigia, mezzo ricoperto da que' grandi giornali, che si pubblicano a New-York, a Londra: uno ne leggeva, il Times: gli altri avea gettato a destra, a sinistra, su le ginocchia.
La sala era elegantissima, severa: alle due maggiori pareti erano appesi due grandi quadri ch'egli avea commesso a un giovane pittore napoletano, Edoardo Nisieli, da lui protetto: uno de' quadri rappresentava la "Congiura de' Baroni" con molte figure; l'altro, "Colombo, che parte per scuoprire l'America".
I due quadri erano di tinte cupe, molto serii, di uno stile castigato.
Per tutta la stanza, alle pareti, alti stipiti in ebano: quattro scaffali, pure in ebano, di un lavoro squisito, con intagli di graziose figure, di fiori, di frutta, di colonnette: alcuni divani in raso nero, con filettature, nappe e frangie d'oro: su i tavolini, bronzi: il Mercurio di Gian Bologna, che stava lì sì bene; la Venere Callipige; varie piccole terre cotte di molto e molto valore.
Subito il Weill-Myot, sentendo aprire la porta, aveva alzato gli occhi dal giornale che stava leggendo.
Riconosciuta la principessa, si alzò di scatto: non ebbe neppur un sorriso di trionfo; il suo sangue freddo era stato uno de' segreti della sua immensa fortuna.
- Caro Weill-Myot, - disse la principessa, che voleva cominciare con le parole: - Caro Gustavo, - ma pensò di non scoprir troppo il suo giuoco.
Mentre da casa sua andava alla Banca, essa avea interrotto più volte una serie di strani pensieri, dicendo fra sè:
- Come il mondo si muta: noi gran signori, della più antica nobiltà, siamo tutti, o quasi tutti, in balìa di questi grandi avventurieri.... In certi momenti, essi sono la nostra unica speranza: noi dobbiamo ricorrere a loro, inchinarci, sottoporci magari a' loro capricci.... È una nuova aristocrazia, che sorge. Forse non è peggiore della nostra, che è nata da guerrieri prepotenti, o da trafficatori rapaci, come il Weill-Myot, e si è sfiaccolata, impoverita con l'ignoranza e col vizio.... La nuova aristocrazia ha almeno le due più cospicue forze del mondo, le due virtù che muovono tutto: l'intelligenza e il lavoro.
- A quest'ora, principessa?... - esclamò il Weill-Myot. - Qual affare vi conduce?...
E pronunziò la parola affare con un tuono, che non lasciò alla principessa illusione di sorta.
Il banchiere, vista specialmente la studiata abbigliatura della principessa, le facea intendere che egli non era disposto a sostener una scena di seduzione.
Non già che verso la principessa non le attirasse la sua passione, ma egli oramai volea vendicarsi di lei, volea parlarle dignitoso, burlarsi dei suoi imbarazzi, ridurla suo trastullo. La principessa ha motteggiato, schernito tutti? - pensava. - Io sono americano, uomo di carattere, e glielo proverò!
La principessa era venuta per sedurlo, per divertirsi di lui, strappargli il denaro, che contava restituirgli con tutti i suoi frutti: ma, quando egli fosse divenuto incalzante come altra volta, respingerlo. Sentiva verso quel bell'uomo, forse troppo bello, un'antipatia, una repugnanza inesplicabile.
- L'affare, che mi conduce, - riprese la principessa, tutta sorridente e ostentando il piglio più leggero, - non è molto grave....
- Ho piacere! - interruppe il Weill-Myot, - Da un pezzo non mi parlate della vostra amministrazione, ma il giovane, che vi ha dato forse qualche consiglio non molto pratico, m'assicurava, giorni sono, e n'ebbi molta soddisfazione, che voi, con la vostra energia, avete riparato a tutto.
- Oh! - rispose disinvolta la principessa, che sapeva la sua rovina: e il Weill-Myot la sapeva meglio di lei. - Siete però su una falsa strada: non crediate ch'io non abbia più bisogno del vostro aiuto. Io debbo domandarvi un altro piccolo favore!
- Ahimè, principessa, - soggiunse l'ipocrita Weill-Myot, - speriamo sia tale che mi sia dato l'onore, il piacere di soddisfarvi.... sapete quanto sia vostro amico!
- Vi ripeto, il favore è piccolo.... per voi, - disse freddamente la principessa, - m'occorrono in giornata sessantamila franchi!
Il banchiere finse di aver ricevuto un gran colpo.
- E vi occorrono proprio? - volle domandarle lentamente. Si compiaceva a torturarla.
- Altrimenti non sarei qui! - rispondeva la principessa con piglio di sovrana, che sa non poterlesi negar nulla e non è abituata, neppur può pensare, a un rifiuto.
- Non potete dunque farne a meno?... - insistè il Weill-Myot che, col secondare in lei la fiducia di averli, si preparava a gioire del suo profondo turbamento.
- No, no!... - ella ribattè un po' sdegnosa e impaziente.
La principessa non sapea che tra' suoi beni non le rimaneva più da garantire una tal somma. Al Weill-Myot, causa della rovina di lei, era ben noto: ma egli non era ancora contento. Il male fattole non gli sembrava sufficiente.
Stette alquanto pensoso: si alzò, stropicciandosi la fronte con una mano; andò qua e là per la stanza, tutto assorto, senza dir verbo, come se cercasse un espediente difficile.
Poi tornò a mettersi in piedi dinanzi alla principessa, e dominandola, divorandola con gli sguardi per non perdere alcuna mutazione del suo volto, mentre egli parlava, le disse:
- Non mi sono mai sentito così umile, così sventurato come oggi... debbo farvi una confessione... pur che tutto rimanga fra noi....
La principessa assentì.
- Io sono alla vigilia di un fallimento!
- Eh! - esclamò la principessa, scattando in piedi. - Non è vero!
- Una gran Casa di New-York, d'accordo con la più gran Casa di Parigi, ha giurato la mia rovina.... Mi combattono su tutti i mercati, anche qui. Da due mesi io combatto una guerra atroce: una guerra di milioni, intendete....
Non è a descrivere come rimanesse Enrica. Le sue speranze, le sue illusioni cadevano a una a una. Lasciò che il banchiere parlasse: essa lo ascoltava, guardando le punte de' suoi stivalini, che uscivano di sotto alla fimbria del suo abito: e, mentre nel cuore si rodeva, voleva aver sempre sembiante di spensierata.
- Oh, ma sessantamila lire sono un nulla per voi.... sempre: e anche per me, forse, - aggiunse negligentemente, - ma non in questo momento! Voi dovete trovarle! - concluse, tornando al suo fare imperioso, e riguardando, in tal punto, perfino il Weill-Myot, quest'uomo potentissimo, per ciò che ella solea riguardar tutti: suoi soggetti, o strumenti de' suoi piaceri.
- M'è impossibile, principessa! - rispose il Weill-Myot, in tuono che non ammetteva replica.
I begli occhi di lei si gonfiaron di lacrime.
Il banchiere vedeva lo sforzo ch'ella faceva per frenar la commozione, e involontariamente gli sguardi dell'americano corsero al forziere ove era chiusa una somma, fra denari e titoli, più che dieci volte maggiore di quella domandata da Enrica.
Sentì una gioia profonda; forse in quel momento egli era padrone di quella donna, potea dominarla; aprendo quel forziere, mostrandole tutta quella ricchezza, l'alterigia di lei si sarebbe piegata.... Egli la respingeva. Nella lotta di amor proprio, a non dire di odio, che le avea dichiarato, egli usciva trionfante.... Così, almeno, si dava ad intendere!
Ma Enrica non avrebbe mai ceduto: ella era pronta ad ogni capriccio, non sarebbe però mai discesa a tal punto. Aveva per il banchiere un disgusto insormontabile; gli domandava un favore, come si domanda a un servo quel che ci occorre: senz'annettervi alcuna importanza, e sicura che avrebbe potuto restituire quello che da lui aspettava, magari procurando a lui un grosso guadagno.
A tal segno s'illudeva, non bastandole l'animo di credere a tutta la sua rovina.
Un'idea corse alla mente del Weill-Myot. E subito, egli volle rompere il silenzio imbarazzante, che già regnava fra loro.
- Mi duole, - -osservò il banchiere, - rispondere con un rifiuto. Ma, - e credeva così insinuare una idea, - io non posso più disporre neppure d'alcuni miei oggetti di gran valore.... Essi sono una garanzia, già acquisita, de' miei creditori.... Tenterò uno sforzo supremo: e, se riesco, principessa, fra poche ore sarò al vostro palazzo....
E la prese per mano, come a darle maggior sicurtà di ciò che le diceva, ma, infatti, per spingerla con un lieve moto ad alzarsi e liberarsene.
La principessa, che non era più in condizione di dirigere la sua volontà, cedette a quel moto, e si alzò: e, senza dir altro, s'accomiatava dal banchiere con il più scintillante sorriso sulle labbra.
Entrata nella carrozza, si mise a riflettere. Non volea darsi vinta così per nulla. Non era di quelle indoli che si spaventano a' primi ostacoli, e che sono sì numerose: era di quelle indoli rare che, fra gli ostacoli, si ritemprano, acquistan gagliardia, ne vivono, se non li spezzano, o ne sono esse stesse accasciate, infrante.
Di queste indoli si trovano specialmente nelle donne appassionate e negli uomini politici.
- Finalmente, - pensava, - l'americano non m'ha detto di no.... - E si appigliava a tale speranza. - Se non riuscisse? - si diceva. - -Io non mi posso rivolgere ad altri!...
Non avrebbe mai domandato a un gentiluomo della sua classe ciò che avea domandato al Weill-Myot. Quell'americano poteva ben rendere un servizio a una gran dama: non era nato per altro! Essa l'avrebbe ringraziato, rimunerato: ecco tutto. Con un gentiluomo, sarebbe discesa, si sarebbe avvilita al cospetto di esso! E sentiva sempre questa specie di singolare fierezza.
- Se il Weill-Myot mi manca?... - e si torturava il cervello per sapere in che modo avrebbe trovato il denaro di cui aveva urgente bisogno. Non le veniva all'animo per allora di domandarlo al marito.
Se ne tornò a casa e aspettò per lunghe ore nelle sue stanze l'arrivo del Weill-Myot.
Era una giornata piovosa, malinconica. Ogni tanto ella sentiva brividi di freddo e si avviluppava nella sua gran veste di velluto color granato, con ampie rivolte di raso bianco.
Nessuno quel giorno venne a trovarla, ed essa aspettava una visita, palpitando.
Appena la principessa aveva lasciato l'americano, egli, chiamato un commesso, allora allora giunto alla Banca, gli avea ordinato di andar a chiamare, perchè venisse da lui, il gioielliere De Carlo, uno dei primi di Napoli.
Era un vecchietto molto furbo, di aspetto signorile, e legato d'affari con l'americano.
Il ricco gioielliere, un'ora dopo, si recava dal Weill-Myot. Parlarono un po' insieme.
- Ma, ditemi, - interruppe a un tratto il gioielliere, - quello che debbo fare, ditemelo con chiarezza, senza i vostri soliti viluppi....
- Avete in riparazione qualche gioiello della principessa, Gorreso; vi ha dato essa commissione di qualche lavoro?
- No.
- Ma allora non avreste un pretesto per andare da lei, per parlarle!
- Ne ho quanti volete.... Andar a mostrarle un bel diamante, una bella collana, un qualche lavoretto fino, originale.... Essa compra molto spesso oggetti, soltanto perchè io glieli offro.... È la miglior cliente che abbia in Napoli, migliore anche della Sovrana.
- E vi ha sempre pagato?...
- Sempre!
Il banchiere fece una breve pausa: pensò al denaro che quella donna dovea aver prodigato.
Chiedendo a lui sessantamila lire, essa dovea credere di domandargli a pena un servizio ed esser sicura che glieli avrebbe, in pochi giorni, restituiti. Che erano sessantamila lire per lei?
- Dovete, - riprese l'americano, parlando al gioielliere, - presentarvi oggi alla principessa.
- Se non fossi molto occupato! - rispose il De Carlo, i cui occhietti scintillavano di malizia.
- Trovate ad ogni modo il tempo di andarvi.
- Lo troverò.... E che desiderate ch'io faccia?
Il gioielliere fu meravigliato della proposta, che gli svelava il Weill-Myot. Egli s'aspettava che lo pregasse di offrire alla principessa un oggetto di gran valore: invece il banchiere gli avea detto:
- Anderete dalla principessa Gorreso e le addurrete in scusa che volete mostrarle un gioiello finissimo, testè da voi ricevuto.... Ne avrete?
- Oh, - rispose il gioielliere, alzando una mano, - se ne ho.... Forse troppi!
- Con bel modo, - continuò il banchiere, il quale tenea gli occhi socchiusi, come se si raccogliesse in una meditazione profonda - voi cercherete trarre la conversazione sul gran prezzo che hanno oggi i diamanti.... Citerete esempii.... di grandi dame, che si disfanno de' loro diamanti, per mezzo di persone oneste, fidate.... di voi, per esempio, alla cui segretezza, osserverete, si può stare.... e sostituiscono gioielli di sì alto valore con falsi diamanti, sì ben lavorati, che anche un intelligente.... direte.... vi può rimanere ingannato....
- E poi?...
- La principessa, vedrete, vi proporrà di vendere alcuni diamanti: i diamanti della sua famiglia ducale e di quella del principe....
- Ma io non ne ho bisogno....
- Voi ne accetterete quanti crediate possano avere un valore approssimativo di centomila franchi.... Siate piuttosto largo nel computare questo valore.... Vi consegnerò subito le centomila lire; e voi mi porterete i diamanti.
- Sta benissimo, - ripigliò il De Carlo, - si tratta di salvare una gran dama da un pericolo, da una condizione disastrosa, e voi, come gentiluomo dell'antico stampo, venite in suo soccorso e non volete farvi un merito della vostra liberalità; non volete trarne vantaggio.
- No, no, io non sono tanto generoso!... Ma non vi occupate di quello ch'io creda di fare.... Attenetevi a ciò che vi ho detto: seguite i miei ordini con puntualità; e che non vi esca mai dal labbro il mio nome.....
- Sia come volete! - concluse il De Carlo, dopo essere stato un po' perplesso. E, di lì ad alcuni minuti, era tornato nel suo sfarzoso magazzino.
La principessa, come sappiamo, aspettò per molte ore la visita del Weill-Myot. Già si faceva tardi, e ormai ella disperava che si recasse da lei. Si sentiva intorpidita, quasi sbalordita, non pensava più a nulla, aspettando il meglio da una congiuntura impreveduta, secondo è proprio delle persone di un certo carattere.
Il Weill-Myot contava su questa attesa, sulle trepidazioni che le avrebbe date, però si era appigliato al partito di lasciarle una speranza.
Ad un tratto, fu annunziata alla principessa la visita del famoso gioielliere.
- Quale ironia, - ella diceva fra sè, - costui verrà certo a propormi di spendere una grossa somma!
Lo fece passare: la conversazione con quell'uomo, che tenea commerci con lontani paesi, che le parlava sempre di oro, di diamanti, di zaffiri, della gran quantità di gemme, da lui vedute, l'ammaliava.
Il De Carlo mostrò alla principessa una statuettina d'argento: un lavoro mirabile: e le disse esser un'opera del secolo XV. La principessa non si saziava di guardarla.
- È un oggetto per V. E., - insinuava il De Carlo.
- Inutili le vostre offerte, - rispose la principessa, - ho deliberato non comprar più gioielli: ne ho già troppi, e non so che farne....
- Tanto più, - disse il De Carlo, - che V. E. è di una bellezza sì grande che non ha bisogno d'adornamenti....
- E, in fatti, avrete veduto.... non porto mai gioielli.... - disse la principessa, tutta sorridente.
Quell'elogio, così inatteso, dopo una giornata di torpore, di tristezza, l'avea scossa: avea stuzzicato il sentimento in lei più forte: la vanità, la supremazia dell'orgoglio. E, d'un tratto, come le accadeva, era tornata alla sua spensieratezza.
- Altre signore non portano più gioielli.... da qualche tempo, come V. E...., sebbene non possano resistere al paragone di lei.
Abbiamo già visto, in altro punto del nostro racconto, che l'elogio alla sua bellezza, fosse pur grossolano, le venisse pur da persone umili, le riusciva gradito. S'inuzzoliva, quindi, sempre più.
- Vi sono, anzi, grandi dame.... anche a Napoli, le quali hanno venduto i loro gioielli, di nascosto alle famiglie, e li hanno sostituiti con pietre false, legate nel più puro oro....
La principessa ascoltava ansiosa.
- Ne conosco due che, a un tratto, si sono sbarazzate, di trecento, quattrocentomila franchi.... di diamanti....
- E chi sono?... '
- Debbo custodire il segreto, Eccellenza: anche i gioiellieri hanno il segreto di professione, come gli avvocati, non si può costringerli a palesare tutto quello che sanno.... Posso però dire a V. E. che le persone da me citate, sono fra le più belle, le più eleganti, le più allegre di Napoli.
- Nessuno si accorse di queste sostituzioni di diamanti? - domandò la principessa mezzo febbricitante.
- Ripeto a V. E., che sembra trovar una distrazione, un divago ne' miei discorsi.... nessuno se ne accorse! Lo stesso intelligente, se non abbia molta pratica, può restarvi preso... Le imitazioni sono di una tale finezza!
La principessa si alzò: la sua larga vestaglia di velluto facea con lo strascico un gran rumore sul tappeto. Si sentiva il rumore delle sue gambe robuste, che battevano su le tele onde era cinta: il rumore che facea il peso della sua florida, prestante persona.
Entrò nella sua camera e tornò alcuni istanti appresso, tenendo fra le sue braccia varii astucci coperti di raso bianco, turchino, rosso, di pelle scura.
Li gettò sulla tavola alla rinfusa. Poi li aprì in fretta un dopo l'altro; e alzata la sua testa seducentissima da que' diamanti, che sfavillavano innanzi a lei, guardò il vecchio gioielliere con un sorriso ineffabile, uno di quei sorrisi che hanno i fanciulli, quando arrivano inopinatamente a possedere una cosa da essi agognata.
- Che valore dareste voi a tutti questi diamanti?...
Il vecchietto si tolse i suoi occhiali, cavò da un taschino un astuccetto di cuoio rosso, da cui levò fuori una grossa lente. Con una mano teneva la lente all'occhio destro, con l'altra alzava a uno a uno i gioielli verso l'occhio: esaminava attentamente i diamanti.
La principessa, un ginocchio appoggiato ad una poltrona, i gomiti su la tavola, gli occhi affissati nel gioielliere, aspettava, nella massima trepidanza, ch'egli parlasse.
- Sono tutti diamanti, - disse dopo aver frugato astuccio per astuccio, - d'un immenso valore, e per la loro grossezza e per la loro acqua.... Questa sola collana può valere duecentomila franchi.... oltre cinquantamila ducati.... - E bene, De Carlo, voglio venderla.... e serberete il segreto a me, come alle altre, - interruppe la principessa con una familiarità, che non le era consueta.
- Venderla.... ma a chi, Eccellenza? - riprese asciutto asciutto il gioielliere.
Enrica ricevette un colpo; subito però si riebbe; immaginò che il mercante non volesse darle tutta quella somma e avesse già la mira a cavare dalla collana il più vistoso guadagno.
- Non vi chiedo mica la somma a cui l'avete stimata.... - rispose.
- Oh, io non acconsentirei di comprarla ad una somma minore.... Tengo alla mia delicatezza, Eccellenza: e ci tengo con tutti, ma sopra tutto con la principessa Enrica, a cui debbo tanto.... Vostra Eccellenza ha contribuito alla mia prosperità.... Ho detto: a chi venderla? perchè è difficile trovar subito una persona, che possa disporre d'una tal somma.... Io sono ora abbastanza, anche troppo fornito.... Però, diamanti di questa qualità potrebbero servire a una gran dama forestiera ch'io conosco per completare una sua acconciatura.... Ma essa non vorrà spender tanto....
- Pigliateli per meno, vi ho detto, - ribattè la principessa, che si era di nuovo seduta nella poltrona, e facea atto di avvilupparsi la magnifica veste attorno il suo bel corpo.
- Ma, Eccellenza, io non voglio esser lo strumento di un'usura, o di un affare che ne abbia le apparenze.... Prendiamo questo piccolo diadema: questo braccialetto.
- Aspettate, vi dirò io quanto valgono: di cotesti ho trovato una quietanza!
Sì alzò di nuovo e corse nella sua camera.
Il De Carlo la sentiva frugar febbrilmente in certi cassetti: poi ella tornò, tenendo in mano un'antica fattura scritta su carta ingiallita dal tempo.
- Eccovi.... venti.... trentacinque.... quarantaseimila....
- Va bene; e oggi valgono qualche cosa di più.... V. E. vuole disfarsene?
- Vi ho detto di sì; però vorrei serbare la montatura e mettervi altri diamanti.... falsi.
- Sta bene.... E io posso dar subito a V. E. lire centomila....
- Ah? - domandò Enrica, che si sentiva tolto un gran peso. - Ma voi mi date troppo.... Io voglio che abbiate un guadagno, per parte mia, di cinque, sei mila lire....
Il gioielliere aveva già pronta la moneta francese, datagli dal Weill-Myot, e metteva su la tavola, a uno a uno, i fogli da mille lire che aveva in mano.
Enrica respinse la somma, che aveva accennato, verso il gioielliere; ma egli la raccolse, con molta dignità, e la pose di nuovo innanzi alla principessa.
- Io sono qui, - disse, - come un servitore devoto di V. E., ben lieto di mostrarle la mia servitù, e tanto soddisfatto di questo che e non potrei cercare un'altra rimunerazione.... Poi, il mio affare, da onest'uomo, è già compiuto, con il prezzo offerto....
- Ma, allora, vendetemi questa statuetta, che avevate portato a farmi vedere, - disse la principessa, che non potea rattenere la sua folle prodigalità, che volea pagare tutti coloro che la servivano, secondando i suoi piaceri, nè le sembrava averli pagati mai troppo, pur che rispondessero al fine.
Il gioielliere prese in mano la statuetta e la pose di nuovo sott'occhio alla principessa.
- E quanto costa? - -domandò Enrica.
- Seimila lire! - rispose impavido il gioielliere.
Essa gli spinse di nuovo innanzi tal somma.
Il gioielliere la pose accuratamente nel portafogli, e la principessa quindi lo accommiatò con la solita alterigia,
- Se V. E. - disse il furbo vecchietto con un sorriso maligno, - avesse qualche altra volta bisogno di me.... può contare su la mia discrezione, sul mio segreto.
E s'inchinava, salutava profondamente.
La principessa non gli rispose: innanzi ch'egli le avesse volto le spalle, essa era di già nella sua camera.
Con quel denaro in mano giubilava: le strettezze in cui si trovava da qualche tempo le riuscivano spinosissime, poichè non v'era abituata, nè avrebbe mai pensato di abituarvisi.
Toccando quel denaro, e guardandosi innanzi a uno specchio, come soleva, le venne pensato che essa ormai era ridotta una mendicante, una cortigiana, che ricorreva ad espedienti per soddisfarsi.
Su le prime fu urtata da tale idea: poi, siccome la corruzione la dominava, se non vi si compiacque, vi si adattò con un sorriso. Pensava: - domani verrà Cristina: e voglio mi si umilii come un tempo: qui ci ho denaro da comprarla: questo può appagare la sua avarizia!
La sera dopo, mentre la principessa aspettava il pranzo, giungeva Cristina.
All'annunzio della sua visita, la principessa si ritirò nella sua camera.
- Vieni, vieni! - disse a Cristina.
Le contò, dopo alcuni istanti, la somma che essa aspettava.
- Ecco assicurato il viaggio col mio guardacaccia: e voi lo pagate! - disse Cristina con un sorriso tra fiero e sensuale e in atto di sfida.
La principessa accostò le sue labbra alla larga bocca di Cristina.
- Se fossimo amiche come un tempo!... - le mormorò perfidamente. - Oh, - esclamò la principessa, a un tratto, come se inciampasse: e abbassò gli occhi. Cristina vide sul tappeto una bella giarrettiera dorata.
- Mi è caduta ora, - disse la principessa, e si pose a sedere in un divano, alzando un po' la ricca veste rosea, come per intimare a Cristina che la servisse, secondo era un tempo suo dovere.
Cristina, quasi non sapesse ciò che faceva, o vinta da un'abitudine più forte di lei, raccolse la giarrettiera e si pose in ginocchio dinanzi alla principessa per ricingergliela.
O che la principessa facesse un moto, o che Cristina alzasse la veste più del dovere, scoprì una gamba bianca come il marmo, massiccia nella sua perfezione, caldissima.
Un quarto d'ora dopo, le due donne entravano nel salotto.
La principessa, con aria trionfante: le ridevano gli occhi, e diceva a Cristina con piglio di beffa, e con una certa passione:
- Tu sarai sempre la mia serva.... Ti vorrei rivedere in ginocchio, come or ora, dinanzi a me!...
- E voi sarete sempre la più bella, la più cara delle donne: e io continuerò sempre a sfruttarvi, a perseguitarvi, a amareggiarvi.... Sarete sempre la mia vittima.... Può darsi che mi abbiate veduto più volte innanzi a voi, come un'umile ancella de' vostri sfrenati capricci, ma quanto vi costa?... Un patrimonio è passato dalle vostre nelle mie mani.... Per me son pagata e mi pagherò co' nuovi oltraggi, le nuove umiliazioni, che aspetto d'infliggervi.... Ma, per un altro istante, siate la mia padrona....
E le fece nuova scena, come a' tempi in cui gettava in lei i germi di quella infame corruttela, che, svegliando precocemente i sensi della principessa, dovea cagionarne la massima sventura.
Nell'accomiatarsi da Enrica, Cristina, mezza fuori di sè per un selvaggio fanatismo, le diceva:
- Ti odio! e pure, a volte desidererei star sempre con te.... È certo che una di noi due sarà causa della rovina dell'altra.... Addio, Enrica!
Così le parlava quando era giovinetta.
Enrica si rammentò subito di quella mostruosa familiarità. Aveva sentito presso la sua guancia il caldo alito di Cristina.
- Maledetta creatura! - mormorò. - E pure, se non l'avessi mai conosciuta, mi dorrebbe!
Pranzò sola; voleva andar presto al San Carlo, ove un grandissimo artista cantava il Don Giovanni.
Nel suo palco, durante la rappresentazione, fu visitata da molti. Sembrava a tutti più bella del solito, d'una bellezza diabolica. Aveva intorno a sè, a un certo punto, il Venosa, il marchese di Trapani, l'avvocato Costella, Hummanam pascià, arrivato, pochi giorni innanzi, da Tunisi: in abito nero, e col suo fez.
Sul palcoscenico si cantava il pezzo sublime, in cui rifulge tutta l'ispirazione del Mozart:
Giovinetti, che fate all'amore....
- Perchè, - finito il pezzo, disse la principessa, - non ci fu mai un poeta, un musicista, che pensasse a scrivere un lavoro, in cui fosse protagonista una donna, simile di carattere a Don Giovanni?... Ah, sarebbe stato delizioso! - e continuava col suo sorriso affascinante. - Che ne dite, Venosa? Non credete ci sia fra le donne un tipo come Don Giovanni, cioè una donna, assetata di piaceri, ardente, per cui la vita è nella varietà, nella leggerezza, nella mutabilità delle passioni; una donna che non conosca, o non voglia conoscere, se non il piacere, e per la quale esso divenga, con l'eleganza, col capriccio, l'unico scopo della vita?
Il Venosa tenea sempre gli occhi affissati su la scollatura amplissima, che facea l'abito della principessa. Guardava le spalle di lei, simili a quelle di un'antica Minerva, quel seno procace, che ella voleva tanto ammirato e discopriva sì facilmente, come se il credesse opera d'arte perfetta da non doversi tener celata. Ed era tale. Quando la principessa alzava gli occhi sul Venosa, egli, timido come un fanciullo, abbassava i suoi.
Essa sentiva sempre più l'ammirazione che gl'ispirava; sentiva che sarebbe bastato un suo cenno per attirarlo a sè, distrarlo da Diana, da Diana di lei più giovane, e di quanto!
Ecco i trionfi che la inorgoglivano, che ella cercava, e si appagava d'accertarsi di poterli sempre ottenere.
Voleva persuadersi ognora che la sua bellezza era una potenza, e che i più freddi, i più torpidi doveano subirne la seduzione, rimanerne soggiogati!
- Siamo dunque vicini alla vostra festa.... finalmente, - disse la principessa al marchese di Trapani.
Enrica era gaia quella sera; eccitatissima, parlava con una strana volubilità; si vedeva in lei la gioia che palesano tutti gli animali robusti, quando i loro appetiti sono soddisfatti.
- Una piccola festa, - rispose ipocritamente il marchese di Trapani, - ma non oso più contare sulla soddisfazione di vedervi in casa mia quella sera.
- E perchè? - domandò vivacemente la principessa. - Io ci voglio venire, - continuò con la sua solita impetuosità.
Infatti essa non si lasciava mai sfuggir la occasione, come quella di un ballo, per far vedere il più che poteva del suo corpo sfolgorante.
- No, no, non conto più di vedere in casa mia V. E., - rispose il marchese di Trapani. - Ho avuto questa sera una notizia, che me ne fa disperare.... Or ora ero nel palco del ministro inglese, egli mi ha detto avere da' suoi dispacci ch'è imminente il ritorno del principe vostro marito....
- Lo so.... lo so.... io pure l'aspetto.... e dunque?...
- Due sposi, che non si vedono più da molto tempo.... Il principe vorrà la solitudine.... e avrà ben ragione!
- Sciocchezze! - disse sorridendo, tra ironica e sdegnosa, la principessa. - Ma chi sa.... forse avete ragione! - aggiunse maliziosa. - Mi dorrà molto di rinunciare al vostro ballo!
In quel momento il marchese di Trapani si volse verso un punto della platea donde due grandi occhi neri dardeggiavano sempre su lui. Era Marco Alboni, che vigilava su la sua vittima e indovinava dai moti del suo labbro, dalla espressione della sua fisonomia ciò che diceva. Vero è ch'egli stesso lo avea ammaestrato di quello che dovea dire: e aspettava ansioso un cenno che gli confermasse quello ch'egli desiderava.
S'era accorto che il marchese avea già cominciato a parlare con la principessa di ciò che a lui stava a cuore. Ad un tratto, il marchese fece un lievissimo cenno tra loro combinato. Marco Alboni gli rispose con uno sguaiato sorriso di compiacenza.
Con quel sorriso pareva dicesse al suo compare:
- Vedi, io sono più astuto di te!
Il marchese non potè dir altro, nè il desiderava, alla principessa, poichè entrava nel palco un nuovo visitatore ed egli colse il destro per ritirarsi.
Questo nuovo visitatore era il Weill-Myot.
- Buona sera, caro Weill-Myot, - gli disse la principessa in tuono di scherno, - ho aspettato oggi.... molto una vostra visita: ma voi vi fate desiderare.... Figuratevi mi fossi troppo annoiata a star sola, contando sulla vostra.... promessa, che colpa non avreste? Fortunatamente.... benchè siate tanto orgoglioso.... non siete indispensabile: mi sono accorta di poter far senza di voi e che è meglio non contare.... su la vostra parola!
Parlava con un garbo, con una finezza di accento, frametteva risa sì argentine a' suoi motteggi, solo intelligibili pel Weill-Myot, che il suo discorso, tutto epigrammi, alle altre due persone, che lo udivano, e che non sapeano nulla dell'incontro mattutino fra Enrica e il banchiere, sembrò che ella facesse all'americano complimenti più dolci dell'usato.
Ma chi rideva davvero in cuor suo di quella garrula arroganza era il Weill-Myot.
Poche ore prima egli si abbigliava nella sua camera per andar a pranzo dal principe di San Toldo, che voleva consultarlo sull'acquisto di certi titoli.
Gli fu annunziata la visita del De Carlo.
Egli l'aspettava da un momento all'altro, e s'infuriava di non vederlo arrivare.
Lo fece entrar subito nella camera, con la massima familiarità mentr'era in maniche di camicia, dinanzi a uno specchio, e s'infilava nella cravatta nera uno spillo di brillanti.
- E così? - domandò, senza voltarsi, appena sentì il passo del De Carlo nella camera.
Il De Carlo, uomo rigido negli affari, silenzioso quando occorreva, amante de' colpi di scena, e che avea spesso qualche cosa di teatrale, si accostò al banchiere e gli pose sott'occhio gli astucci, aperti, ov'erano i gioielli.
Un sorriso diabolico illuminò la fisonomia del Weill-Myot.
- Centomila franchi! - riprese il gioielliere, - e state sicuro che non ci rimetterete nulla....
- E tu non parlare, e che non si sappia mai....
Il gioielliere fece un gesto come per esprimere che era superflua ogni raccomandazione.
Il Weill-Myot accomiatò il De Carlo, dopo averlo ringraziato del suo buon ufficio: e, rimasto solo, prendeva i gioielli, li guardava di nuovo e li gettava in un cassetto nel quale, per ben richiuderlo, girava due volte la chiave.
- Sono soddisfatto! - mormorò fra sè.
E, sul tardi, era andato al teatro per gioire della principessa, che immaginava trovar esaltata dal fatto accaduto; e che pur prevedeva lo avrebbe insultato, or che si dava ad intendere non aver più bisogno di lui.
- La principessa sa, - così rispose a' suoi sarcasmi, trafiggendola un poco, ma non volendo andar tropp'oltre, affinchè ella, sospettando di lui, non sfuggisse, almeno in parte, alle sue vendette, - sa che io tengo a esser il primo de' suoi servitori.... Se ho mancato ad una visita, la principessa deve essere convinta che ciò può attribuirsi soltanto a motivi superiori di molto alle mie forze.... Ma, pur troppo, io so che alla principessa è indifferente di veder o no un sì umile servitore come sono io: un pover uomo d'affari, che non può distrarla, perchè manca di brio, e non può esserle utile in nulla.
La principessa credeva alla storia della povertà del Weill-Myot, e gli rispose col sembiante di una sovrana verso uno schiavo:
- Povero Weill-Myot, so quanti sono i vostri affari; so che non tutti sempre vi possono andar bene: e m'immagino che dobbiate avere spesso molesti pensieri, e gravi occupazioni, che empiano il vostro tempo... Nessuno vi compatisce più di me! - terminava con affabile degnazione.
Egli se la godeva.
Si accorgeva che nel teatro tutti guardavano la bella donna.
E pensava, quando essa fu di nuovo tutta intenta allo spettacolo:
- E dire che io la tengo in mio potere, che la spingo ogni giorno più verso una rovina.... irreparabile. Non è certo molto lontano il giorno in cui la mia vendetta sarà compiuta!
La principessa avea dato in un gran tranello, per la stessa sua avventatezza.
Nel lasciar scegliere i gioielli al De Carlo, ella non avea badato ch'esso sceglieva appunto antichissimi gioielli, che avevano appartenuto alla madre del principe, ed egli li teneva in casa come un talismano.
Se il principe glieli avesse richiesti?
Enrica continuava a sorridere, di tanto in tanto, a rivolgere alle persone che le stavano attorno argute domande.
In quella sera si sentiva più del solito felice, sgombra da ogni pensiero.
Chi avrebbe detto in tal momento che la donna, sì gaia, sì contenta, in sembiante così tranquilla, era la stessa ch'avea cagionato la morte del conte di Squirace, avea spinto con un'atroce calunnia, sì ben combinata, un innocente in prigione, e per tutta la vita, s'egli non fosse riuscito a salvarsi?
Era un pezzo che da un palco di terz'ordine, un uomo, rimasto sempre avvolto in un largo mantello e che si teneva nell'ombra del palco, la guardava, fissando in lei con insistenza il cannocchiale.
La principessa, alzando gli occhi, avea notato quell'individuo e la sua insistenza. Ma oramai ella era abituata a ogni specie di adorazioni: e non le spiacevano neppure, appunto per l'ammirazione che avea di sè stessa, le più importune e volgari.
Però, ad un tratto, dette in un piccolo grido.
L'uomo, che l'avea affissata per tanto tempo, si alzava nel palco di terz'ordine e, alzandosi, inavvertitamente, avea lasciato cader un po' giù il mantello.
- Che ha V. E.? - domandò il Venosa.
- Oh.... niente, - rispose la principessa. - Ma figuratevi che, da varii giorni, accostandomi qualche volta a' vetri delle finestre, mi vien fatto di veder nella strada un uomo che si direbbe passi lì le sue giornate.... Lo vedo sempre.... Qualche volta, tornando a casa in carrozza da una passeggiata, l'ho incontrato vicino al palazzo.... Sembra non si stacchi mai da que' luoghi.... e mi guarda con un'espressione sì strana, allorchè io passo accanto a lui.... Lo trovo per tutto.... Dev'essere un caso, poichè non ha i modi, nè l'aspetto di un corteggiatore, o di un semplice curioso.... Il bello è che mi par averlo conosciuto.... non so dove.... nè quando.... Ma mi pare....
Tutti aveano levati gli occhi verso il palco, ov'era l'uomo di cui parlava la principessa.
Egli voltava loro le spalle in quel momento; si tirava su il bavero del mantello e si mettea in testa un cappello a larga tesa.
Nessuno di loro lo conosceva.
- Mi piacerebbe di sapere chi è! - disse la principessa.
- Procurerò di seguirlo e d'informarvene! - esclamò il Venosa uscendo dal palco precipitosamente.
Già il palco del terz'ordine era rimasto vuoto.
Una mezz'ora dopo, il Venosa giungeva trafelato,
- L'ho seguito il vostro originale, - disse, non appena fu tornato nel palco. - Egli è entrato nel Caffè d'Europa.... vi si è trattenuto un dieci minuti, bevendo birra.... Non si è mai tirato giù il mantello.... S'è alzato, ed è uscito.... Io avevo fatto l'osservazione che parlava con un cameriere assai familiarmente.... Insomma, nessuno sa chi sia.... Solamente hanno detto che è un ingegnere.
- Ma, a proposito, - disse l'avvocato Costella, mentre la principessa, in piedi nel palco, si lasciava infilare la sua cappa di velluto, - sapete chi è morto, Eccellenza?
La principessa si voltò bruscamente.
- Quel ragazzaccio.... ora uomo d'età.... che vi fece una volta tanto spavento nel parco di Mondrone, e che era stato sì giustamente condannato per le vostre deposizioni, Roberto Jannacone!
Vi lascio pensare il colpo che ricevette Enrica.
Il Venosa guardò il vecchio avvocato come per dirgli che la notizia da lui data era molto inopportuna.
- Com'è morto? - domandò Enrica, impassibile per chiunque l'avesse osservata.
- Di quattro fucilate, - riprese l'avvocato, senza riguardi, - mentre tentava una fuga, di notte, scavalcando la finestra del suo carcere.
- Pover uomo! - mormorò Enrica e si calò la veletta sul volto.
- Intanto - pensava - sono sbarazzata del mio primo marito!
Per tutti, ormai, in fatti, Roberto Jannacone era morto. Viveva un uomo, cui era stata fatta la grazia di parte della sua condanna, e si chiamava l'ingegnere Amoretti.
Anche Cristina, pochi giorni dopo, avea saputo la morte di Roberto.
Ma, una sera, mentre se ne stava tutta raccolta, occupata in un lavoro di ago, le venne annunciata la visita di un signore, che non voleva nominarsi e domandava di parlarle.
E la principessa, tornata a casa la notte, dopo lo spettacolo del San Carlo, si dava a molte riflessioni.
- Alla fine sono libera di questo Roberto Jannacone.... Egli avea di sicuro cercato fuggire dal suo carcere per nuocermi.... Ed ora Cristina parli pure, se vuole.... Avrò sempre ragione!